Reality, un film e un genere televisivo fuori tempo massimo
di Giuseppe Zucco
Di tutti i commenti che hanno tratteggiato l’inevitabile scia dietro il varo di Reality, il nuovo film di Matteo Garrone, ce n’è uno parecchio persistente. Il film sarebbe arrivato fuori tempo massimo. Per essere davvero incisivo – carico di indignazione, palpitante di una denuncia sociale – avrebbe dovuto sfilare nelle sale quando il fenomeno mediatico del Grande Fratello piantava la sua bandierina sulle vette dell’auditel.
Il ragionamento è molto curioso. Se da una parte eleva l’indignazione e la denuncia a valori estetici su cui fondare il giudizio critico, e quindi parte della fortuna di un film, dall’altra vorrebbe il lavoro dei registi completamente appiattito sull’orizzonte circoscritto dell’attualità. A misurare la storia del cinema con questo metro, un’opera come Apocalypse now di Francis Ford Coppola del 1979 sarebbe dovuta essere squalificata, per non dire di Full Metal Jacket di Stanley Kubrick i cui vagiti risalgono al 1987: i venti di distruzione e paranoia della Guerra del Vietnam, infatti, spirarono dal 1960 al 1975.
Ma un commento del genere è così appuntito che finisce per centrare un bersaglio quando ne ha appena mancato un altro. Effettivamente, in Reality crepita qualcosa di fuori tempo massimo: il sacro, nella versione cristiana. In un paese secolarizzato come l’Italia, dove le cattedrali sono visitate più dai turisti che dai fedeli, e le compiaciute ammissioni di colpa sono subentrate all’atto di dolore, e le sedute psicanalitiche hanno aggiornato le pratiche della confessione, e il più alto dei cieli è quotidianamente intellegibile grazie a sofisticate tecnologie meteorologiche, Garrone, dirigendo alla perfezione Aniello Arena, ci consegna un personaggio folgorante proprio perche i gesti che compie – gesti che lo avvitano sul piano lucidissimo della psicosi – sono guidati dal timor di Dio.
Non è azzardato definire questo film, più che religioso in senso lato, francescano: Luciano, il protagonista, proprio per entrare nella casa più spiata al mondo, rompe con i propri familiari, si spoglia di tutto donando i propri averi ai poveri, parla con frate grillo rimpinguando le figure presenti nel Cantico delle creature. Nel film di Garrone, il controllo sociale non si traduce più nell’occhio meccanico ma profondamente umano delle telecamere di sorveglianza di Truman Show, quanto nell’occhio indecifrabile di Dio che scruta l’intera vicenda dall’alto, come le illuminanti inquadrature di apertura e chiusura suggeriscono. Tanto che il pensiero viene pure: la lente deformata del reality, qui in Italia, sembra restituire più un’immagine del nostro passato che una visione, apocalittica o meno, del nostro futuro.
Se questo accade, però, è anche perché il genere televisivo che Garrone indaga – il signore indiscusso del piccolo schermo negli anni duemila – già affonda le proprie radici in un territorio lontano nel tempo e del tutto legato alle consuetudini religiose. Prendendo alla lettera le parole di Guy Debord, lo spettacolo è la ricostruzione materiale dell’illusione religiosa, non dovremmo meravigliarci se in fondo i concorrenti dei reality non fanno altro che rinverdire le forme attraverso cui i mistici medioevali sperimentavano l’ascesi. Le interruzioni dei ritmi naturali, le veglie, l’inversione del giorno e della notte, il digiuno, l’astinenza sessuale, in molti casi la sopportazione del dolore, fisico e sentimentale insieme, fanno di questi concorrenti particolarmente disinibiti e ricercatamente spontanei la perfetta riproposizione postmoderna degli asceti – con la differenza che i primi, auspicando la redenzione, si ritiravano in un eremo sperduto, in un monastero inaccessibile, mentre la loro versione secolarizzata, rincorrendo visibilità e successo, occupa uno spazio predisposto sulla scena globale dei media, totalmente esposti all’attenzione morbosa sia del broadcaster sia degli spettatori.
Certo, la condotta di vita dei concorrenti non sarà metodica, le regole costanti, l’imperturbabilità ai richiami mondami assicurata, però è del tutto impossibile cancellare le tracce, i segni, le soluzioni, che l’ascesi consegna a chi la pratica. Del resto, già Max Weber nella Sociologia della religione faceva notare come la dimensione ascetica avesse avuto un ruolo fondamentale nella modernizzazione e razionalizzazione delle società occidentali.
Nello schema di Weber, gli asceti sono un gruppo sociale che, attraverso una maggiore disciplina e il controllo del proprio corpo, sperimenta e poi introduce in seno alle società dei mutamenti decisivi. Senza gli asceti, non ci sarebbero stati i Puritani – una comunità morigerata nei consumi, puntuale sul lavoro, rigorosamente casta, votata al successo solo per intercessione divina – senza i Puritani, non si sarebbe avverato lo spirito del capitalismo, prima di allargarsi alla borghesia ottocentesca, dice Weber. Gli stili di vita corporei, una volta estesi dal piccolo gruppo ai grandi insiemi, anche se in una soluzione sempre più diluita, non farebbero altro che contribuire alla diffusione di una particolare forma economica.
Allora, sebbene inconsapevoli, pronti una volta fuori dalla prigionia di una casa o di un’isola a conquistare i set e le location, proprio perché immediatamente e universalmente esposti agli occhi di tutti, cosa ha introdotto questa avanguardia di asceti postmoderni, oggi? In particolare, un modello di disciplina e una rappresentazione del corpo indifferente alla privacy, poco avvezzo al pudore, confusionario in fatto di pubblico e privato, docile al regime di visibilità assoluta – cioè, la benzina che alimenta il motore su di giri del capitalismo 2.0 della Silicon Valley, di Google, dei social network come Facebook e Twitter.
Così, anche se Luciano alla fine di Reality appare escluso dalla grande macchina spettacolare, in realtà, proprio per questa pervasiva e insostenibile trasparenza dell’essere, ne risulta completamente integrato – e se ride, ride per lo sconcerto e il disorientamento.
[Questo articolo è stato pubblicato, con altro titolo, su Orwell]
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Mi sono appassionata per il film, perché i protagonisti hanno passione, sono in partenza per un sogno. Primo mi è piaciuta l’analisi della famiglia. Amore è una chiave di lettura per capire il film.
La follia anche è un argomento che mi tocca. Luciano entra in un mondo che sembra vicino, il mondo star: essere visto da tutti, ammirato, sentimento di essere importante. Penso anche che si inammora del protagonista del Grande fratello. l’interpretazione che fa della sua vita è propio genio del racconto, dell’immaginazione. Diventa star nel suo racconto e nella sua capacità di seguire un progetto, anche irreale. Il problema è che oggi un progetto reale di vita è difficile, allora si sogna di diventare star, nell’illusione che tutti hanno la possibilità di diventare star, senza pensare che vale meglio une vita semplice, una vita come tante, ma libera.
Mi piace l’idea di fervore religioso, ho interpretato il film come passione d’amore, forma forse del mistico. Fervore napoletana.
“Nel programma sono presenti inserimenti di prodotti a fini commerciali”?
http://www.ignorethispart.com/galford/Audio/Music/C/Cher/The%20Shoop%20Shoop%20Song-The%20All%20Time%20Greatest%20Movie%20Songs%20Volume%201%20(Disc%202).mp3
Bel pezzo. Non ho visto il film, che mi pare qui un pretesto per lanciare la tua analisi sociologia. Sono contenta di averti conosciuto. Stefania
“Effettivamente, in Reality crepita qualcosa di fuori tempo massimo: il sacro, nella versione cristiana.”
Egr. Zucco non concordo con questo punto di vista (per il resto trovo il Suo un ottimo articolo).
Le parole che Lei accompagna al commento di cui sopra sono le parole di chi vive in una città del nord industrializzate, prive di legami sociali tra individui: In una città moderna. E dà per assunto certe sostituzioni di immagini (Es: prete-psicoterapeuta).
Le assicuro che già a Treviso, nel basso Piemonte, nella bassa Lombardia, in Molise, nelle Marche, in Umbria e -nello specifico- in Campania e soprattutto a Napoli non è così. Ed è per questo che questa pellicola è la carta d’identità di questa spiaggia di sassi che sono gli italiani.
Nella Napoli strappata al sole e messa nella pellicola c’è il controllo sociale arcano che un tempo fu esercitato dalla curia e dai potentati locali (i podestà, le aristocrazie, i preti) sugli individui che catalogavano ciascuno in liste di “buoni” e “cattivi” affibbiando loro un grado di “vicinanza all’ascesi” (sociale e monetaria). E, nei racconti di strada, una promozione arrivava da un nonluogo a portare “pace e prosperità” (guardacaso gli auguri che si fanno a Natale e capodanno hanno la stessa formalizzazione).
Nella pellicola la “sotituzione sociale” che viene stigmatizzata è proprio questa: La menzogna della religione traslata nel moderno (le lotterie milionarie, il gratta e vinci “in vacanza per sempre”, i soldi arrivati a liberarti solo perché tu sei il prescelto e sei perfetto perché nato tale).
Essendosi sciolte nel capitalismo moderno le figure antropologiche piene di fisicità, da visibili ed oggettive si sono smaterializzate in immagini, in proiezioni percepite come avvicinabili dall’immaginario collettivo.
L’analfabeta protagonista (non più somaro delle nuove classi titolate) cerca il suo sbaglio ravvisando nel mancato premio una punizione per qualche peccato commesso. E, alla ricerca del perdono e della reintegrazione sociale ed economica (come non pensare a Foucault) si spoglia.
E quando entra nei locali del grande fratello vede Dio.
E ride. Perché è vivo. Ma in effetti è la morte che arriva nell’immagine che lo contrappone e lo scioglie nel firmamento dell’ultima scena.
Cari saluti
Ferdinando Vino
Ogni opera d’arte va guardata, rivista sotto varie prospettive. Inoltre esiste anche un modo soggettivo di vedere una scultura, un tramonto, un film. Io ho visto e rivisto Reality e dico con tutta sinserità che mi è piaciuta, anzi rivedcendolo ho potuto scoprire passaggi importanti e singificativi, che prima mi erano sfuggiti. Credo che un meritato apprezzamento da parte del pubblico lo si avrà quando ad esso verrà a mancare la verve del regista Matteo Garrone.
giulio da Napoli detto gilbtg