La casa di Peter Handke
di Danilo De Marco
Si entra nell’ampio giardino: una macchia verde da una parte, uno sterrato coperto di ghiaia dall’altra. Nel bel mezzo spunta la casa. Alti cespugli e alberi ne delimitano i margini quasi a protezione da un esterno non sempre gradito. Pochi passi e qualche scalino. Una piccolissima veranda zeppa di scarpe camminate senza lacci. Dopo qualche passo un grande spazio luminoso che è il cuore della sua casa.
Le tracce della vita del bosco conquistano subito lo sguardo: noccioline raccolte e messe assieme in un minuto nido; ghiande e castagne ancora vestite da punte aguzze; bacche e numerosissimi peduncoli di eucalipto sistemati sopra dei sottobicchieri della birreria praghese U Zlathéo Tygra tanto cara a Bhoumil Hrabal da difenderla e salvarla – almeno fino ad oggi – dallo scempio del mercato. Piccole composizioni nate dall’accostamento di radici accanto a cuscinetti di muschio; piume grige e blu di svariati pennuti dislocate in situazioni a grappoli o solitarie un po’ dappertutto. Un tappeto di mele distese sul pavimento e un’immensità svariata di funghi – quelli detti «orecchie di Giuda» colpiscono particolarmente per la loro forma e la loro consistenza – sistemati in grandi panieri, riporto delle scorribande quotidiane nel bosco vicino. Quando riesce, prima della rapida metamorfosi nauseabonda, li fa seccare. Ne mangia quasi tutti i giorni e dice con tono di soddisfazione; «funghi, assieme ad altri semplici cibi come verdure, patate lesse, mele, brodo o riso. Molto peperoncino e bacche. Tutto mescolato assieme».
Non è raro incontrare Peter Handke nel centro di Parigi, quasi sempre dalle parti di Montparnasse, con questo suo raccolto boschivo viscido rannicchiato alla rinfusa nelle tasche. Con aria d’orgoglio accompagnata da una sua secca postura da montanaro trappista e per Handke una specie di madeleine proustiana e sono strettamente legati alla sua esistenza fin dall’infanzia, quando vicino a casa in Carinzia «…andavo a raccoglierli sul monte Saualpe per venderli, e con il ricavato mi sono comperato i miei primi due libri».
Decentrato su un lato, accanto ad una delle numerose finestre vetrate, un grande tavolo di betulla bianca naturale. Delicatissimo allo sguardo sembra una nuvola di cotone. Handke mi invita a sedere al tavolo, ma il pensiero di posare solo l’ombra del gomito mi fa restare con le braccia in aria. Memore di un incontro avvenuto un paio di anni fa tra me, Erri De Luca e Peter Handke, allo stesso tavolo, dove mangiammo saporitissima rucola selvatica e terrosa non lavata granché, raccolta da Peter. Facendo chiacchiere e bevendo vino, io e Erri lasciammo impietosamente, sotto lo sguardo incredulo del padrone di casa che con somma e pacifica ospitalità non fiatava, umidissimi centri circolari rossastri che, slittando il centro di pochi millimetri dopo ogni sorsata, si moltiplicavano all’impazzata succhiati dalla superficie assetata. Un vero disastro.
Attorno libri. Non moltissimi e nemmeno rinchiusi nelle celle di una libreria ma assiepati sul piano del pavimento, negli angoli, su piccoli sgabelli, o accostati alle pareti assieme a un numero imprecisato di rocchetti di filo multicolori. Il tutto fa pensare, con tappe obbligate qui e là, a dei sentieri che invitano ad essere percorsi.
Danno l’impressione, questi libri, tra cui spunta anche un piccolo Corano – intraducibile secondo Handke che conosce l’arabo classico, perché legato alla sonorità della lingua araba e il suo senso confuso con il ritmo del testo, con la cantilena, con la musica – di non essere stati messi lì da qualcuno, ma piuttosto abbiano trovato da soli una loro posizione quasi narrativa e si domandino continuamente: perché sono qui? e perché non sono lì? quando comincia il tempo e dove finisce lo spazio? e come in un gioco con-fondersi le storie e le pagine.
Nessun segno di macchina da scrivere se non un vecchio e glorioso “rudere” firmato Adler lasciato in un angolo delle scale di legno che salgono alle camere, sorvegliato a vista da un piccolo volto in ceramica: né tanto meno l’ombra di un computer. Penne e matite colorate molte, anche stilografiche; svariati scacciapensieri siciliani di cui Peter è maestro di suono, assieme a qualche occhiale di vecchia fattura; qualche piccolo e curiosissimo oggetto in legno disegnato e colorato di cui bisognerebbe indagare l’antica provenienza. Accanto appoggiato sul dorso di una sedia un quadretto della montagna Sainte-Victoire stile Cezanne assieme ad un pantalone jeans tutto dipinto e ricamato sulla parte d’avanti dei colori del giorno.
Tutto lasciato qui e là. Ma non senza ragione. Come un quotidiano spagnolo non recente, ma conservato con cura, che racconta la tragedia della popolazione afgana. Oppure, a terra, proprio sul margine del piano rialzato che divide in due lo spazio, il libro III delle Georgiche di Virgilio, aperto – Carpit enim vires paulatim, uritque videndo. Femina, nec nemorum patitur meminisse nec herbæ. – stampato in caratteri gotici e con minuziosi appunti scritti a pennino dallo stesso Handke. Accanto un grande quaderno manoscritto.
Peter Handke, questo sperimentatore linguistico che cerca di rifondare il mondo con i mezzi del linguaggio, scrive tutti i suoi testi rigorosamente a penna o a matita. Un processo circolare quasi a promuovere la mano nello sviluppo del cervello: perché anche la sensazione produce pensiero.
Ed è solo grazie ad una “premurosa e angelica” signora che lavora alla casa editrice di Francoforte (Suhrkamp), che riesce a leggere la sua calligrafia, che tutto viene poi messo su dischetto.
Solo così probabilmente quel «rallentare tutto me stesso quando leggo» gli permette anche nella scrittura di seguire il filo del pensiero, scrivendo e scrivendo di getto-lentamente, ad esaurirsi dalla stanchezza fino a infiammare, per eccesso di azione, perfino i tendini del pollice e dell’indice della mano.
È una casa questa fatta di luce, sia per la presenza di numerose porte-finestre che raccolgono la luce naturale, ma anche per la discrezione della luce artificiale al calar della sera, quando più di un abat-jour sparsi per la grande stanza e alcune candele sempre a portata di mano, ricreano una luce densa, materica, che sale dal basso. Sotto l’attento sguardo di un grande angelo di matrice bizantina appeso alla parete, dove non potevano mancare due piume che da sotto la cornice si innalzano proprio all’ altezza dell’ aureola facendolo diventare un indiano Apache.
Un giorno mi è accaduto di attenderlo al cancelletto di casa e lui tornando dalle sue esplorazioni nel bosco – un pastrano grigio antracite che lo avvolgeva fino alle caviglie e oltre; foglie minuscole scese sulla lana della cuffia in cui aveva completamente infilato la testa e la fronte e da cui uscivano lunghe e rade ciocche di capelli impastricciate, come segni di matita grassa sulle gote umide – mi salutò con uno sguardo muto. Sembrava uscito dal labirinto di Pan in cui si era perso e alfine ritrovato. Uguale uguale a un fungo che sta crescendo in fretta e spinge dal basso verso la luce. Verso il cielo oltre i rami fitti.
(il testo De Marco, più lungo nella sua forma originaria, e le foto dello stesso, sono tratte da “Peter Handke viandante carinziano in Friuli”, omaggio per i 70 anni dello scrittore austriaco, edito dal Circolo culturale “Menocchio” di Montereale Valcellina (PN), collana “Gallo forcello”, n° 67, in uscita in questi giorni; lo scrittore abita a Chaville, nei dintorni di Parigi)
Il paradosso è che “il rallentamento di sé stesso durante la lettura” provoca nel medio periodo un’accelerazione del pensiero e una sguardo più netto sulle cose.
Da qui una domanda: leggere fa male alla vista? O fa bene?
Da sempre, noi lettori, coltiviamo una passione insana: spiare nelle case dei nostri autori preferiti.
Carpire qualche segreto dagli scorci che circondano la quotidianeità dello scrittore.
Lo sguardo corre, parallelo al suo, su oggetti, libri, ricordi, viste sull’esterno.
Resta un mistero, per nostra fortuna, la visione interiore.
Quella la ritroviamo solo grazie alle parole, ai romanzi, alle poesie.