Il cardinale Ruffo è silenzioso e accigliato
di Wilhelm von Humboldt
(…) Poco tempo fa ho avuto un colloquio con il famoso cardinale Ruffo [Fabrizio Dionigi Ruffo], colui che ha condotto la guerra contro gli insorti e i francesi a Napoli. È un vero peccato che questa campagna militare finisca sepolta nell’oblio. Nell’intera storia dei nostri tempi nessun’altra potrebbe dare un’immagine più vivida ed espressiva, simile a quelle che troviamo in Tucidide, di una guerra civile.
(…) Prima su un mulo, poi su un cavallo bianco turco, e sempre in testa alla sua piccola armata, Ruffo ha attraversato il paese dalla punta più estrema della Calabria fino a Napoli. È partito dalla Sicilia con cinque persone e a mano a mano la compagnia è cresciuta fino a circa un migliaio, un nucleo al quale si aggiungevano altri, se necessari, in singole spedizioni.
Mancavano del tutto i mezzi per approvvigionare un’armata intera. Così, se Ruffo voleva conquistare una fortezza su un’altura o attaccare il nemico in campo aperto oppure compiere un attentato, stabiliva giorno e luogo. Il piano veniva eseguito e ciascuno, poi, si ritirava in modo che le truppe dovessero essere foraggiate solo per poco tempo.
[Il cardinale] Non mi ha potuto descrivere a sufficienza quanto il carattere del popolo calabrese vari a seconda dei luoghi. I più coraggiosi convivono con i vigliacchi, eppure nel complesso sono uomini valorosi, intelligenti e girano sempre armati.
(…) Ruffo era sempre in testa, sempre là dov’era il pericolo maggiore. I calabresi, come tutti i popoli incolti, non considerano affatto un onore esporsi apertamente alla morte. Si chinano sotto i colpi del nemico e così piegati, come in un’imboscata, gli sparano. Ruffo rimaneva in piedi immobile, per quanto minacciosamente le pallottole potessero volare; nel momento in cui il pericolo diveniva maggiore spediva indietro il suo cavallo, ma non ha mai combattuto e solo una volta ha estratto la spada.
Le folle superstiziose lo vedevano passare come se fosse invulnerabile e mandato da Dio. Dove compariva lui, nessuno voltava le spalle per fuggire. Ma se Ruffo si allontanava anche solo un momento per ispezionare meglio un terreno o una fortezza, allora arrivava la sconfitta.
È stata una guerra di assedi, benché mancassero ingegneri e attrezzature. Il mezzo più rapido e decisivo era l’assalto, in cui l’agile calabrese non ha bisogno di scale. L’uno sale sulle spalle dell’altro, e così si lanciano sulle mura. A questo modo possono arrivare fino a quattro persone sistemate le une sulle altre, l’uomo più in basso il più possibile lontano dal muro e con le mani appoggiatevi contro, gli altri sempre più vicini. Anche i bambini vi si cimentano: deve essere un gioco popolare tramandato per tradizione.
(…) In una campagna regolare individui così rozzi sarebbero stati inservibili, ma l’affidabilità [dei sanfedisti] era garantita se li si trattava con indulgenza. Ogni otto o dieci giorni Ruffo dava loro il permesso di tornare dalle donne. Che si fossero saziati delle mogli, che avessero accertato la loro fedeltà o sfogato la propria terribile gelosia vendicando con il sangue i tradimenti, fatto sta che in ogni caso ritornavano sempre per il giorno stabilito.
(…) Di solito Ruffo è silenzioso, accigliato, e accetta di parlare [della campagna sanfedista] solo quando è di buon umore. Non abituato a raccontare, si interrompe spesso e antepone ai fatti astrusi dettagli locali conditi con oscure, per uno straniero, pronunce italiane.
Ma quello che racconta, lo racconta splendidamente. Si arriva a immaginarselo con un’intensità e chiarezza che hanno dell’incredibile. Senza dubbio è un uomo di spirito profondo e ancor più di carattere. È piccolo e cammina curvo, ha però un viso ovale, intelligente e delicato, compìto fino nel più piccolo dettaglio, severo e astuto – se vuole – ma non in un modo meschino e ordinario.
E non è né servile né adulatorio, non ha nulla delle maniere pretesche qui così diffuse. Semplice, al contrario, freddo piuttosto che premuroso. Quando sono stato da lui si è comportato in tutto e per tutto come se fosse stato solo, tirando fuori dalle tasche la sua immensa mole di carte, una dopo l’altra, facendosene sottoporre altre ancora dal suo scrivano e commentandole tra sé e sé ad alta voce.
A tavola non ha parlato per niente, ha mangiato in silenzio per conto proprio facendosi fare un ritratto; ma verso la fine, quando ha visto che mi ero adattato ai suoi modi e alla sua casa senza comportarmi come uno straniero, è divenuto loquace e ha preso il buon umore, ha raccontato diffusamente e rammentato con molta familiarità le vecchie celie e gli eventi, come direbbe Goethe.
(…) Quel che si dice delle sue efferatezze e perfidie per me è molto esagerato. Tuttavia non mi sembra persona che si faccia degli scrupoli. Ma il più delle volte è stato costretto a tollerare gli eccessi delle sue folle, che sapeva aizzare ma non tenere a freno, e per quanto riguarda i fatti di Napoli è risaputo che si è agito contro la sua volontà.
(…) Al momento si occupa quasi solo di viticoltura e giardinaggio in un padiglione fuori città. Una campagna militare come questa può certo offrire molti spunti per delle riflessioni interiori e solitarie, e forse gli capiterà di farne riguardo alle sue responsabilità nei confronti di uomini ed eventi.
Roma, 30 aprile 1803. Lettera di Wilhelm von Humboldt a Friedrich Schiller.
In: Der Briefwechsel zwischen Friedrich Schiller und Wilhelm von Humboldt, a cura di Siegfried Seidel, Aufbau-Verlag, Berlin 1962, vol. II, pp. 235-239, traduzione mia.
La banalità del male ante litteram. Quanti Lagervorstande si sono ritirati in campagna e amavano gli animali? Quanti appaiono lucidi e intelligenti, nelle interviste retrospettive? Quanti hanno obbedito a ordini o non hanno saputo frenare gli eccessi di quelli che obbedivano loro?
Hai ragione. insomma, ‘o classico ommemmè”. Tipo tipico e storicamente- ahimé- inestirpabile, temo.
Refusi teutonici a parte.
in genere (ma non spesso) fanno una brutta fine. Ruffo, grazie alla toga, no. della descrizione mi piace però soprattutto la capacità che ha Humboldt di trasmettere un’inquietudine, le braci.
Comunque il pezzo è bellissimo. E’ il modello perfetto per una pagina di romanzo storico.
fa rabbia doppia proprio che avesse la toga; pezzo bellissimo e a me del tutto sconosciuto
è una lettera di Humboldt a Schiller. Da Roma ne scrisse molte e tutte belle
davvero molto interessante
Del cardinale Ruffo e della sua armata dà uno splendido ritratto anche Dumas nella Sanfelice. Il cardinale era proprio un curioso personaggio – e il passo di Humboldt è veramente una bella descrizione di un ecclesiastico anomalo.