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Régime élémentaire


10 luglio 2012
Albergo dei Poveri (piazza Carlo III, 3 – Napoli) Forum dei bisognimangiare, bere, abitare
La fame non aspetta: con Enzo Moscato e Marco Revelli
Il Paese della fame: così storici e antropologi hanno descritto l’Italia del passato. Dalla dieta a base di polenta del Settentrione padano al pane e cipolle del contadino calabrese; dalle bacche alpine del pastore alle minestre di cicoria delle campagne romane, lungo tutto lo Stivale la lotta per restare in vita è stata per secoli innanzitutto lotta contro la fame.
Quel medesimo spettro sembra oggi tornato ad abitare le nostre città, semmai assumendo il volto ancora esotico di un homeless africano o di una bag lady pachistana o cinese, ma sempre più spesso facendo spossata e macilenta la fisionomia nostrana di chi non riesce più ad “arrivare a fine mese”.
Sul modello della cattedra Saperi contro povertà, istituita da qualche anno presso il Collège de France di Parigi, anche a Napoli si costruisce una rete di saperi e di pratiche per affrontare la terna dei bisogni primari (mangiare, bere, abitare), coinvolgendo le scuole, le associazioni, la cittadinanza – ma anche l’imprenditoria e il mondo della finanza – in un progetto che attraversa, a maglie strette, la città, la regione, il Paese nel suo complesso.

Come dire il bisogno? Come evitare che i discorsi culturali ricoprano con la patina dell’intelligenza la sconvolgente apparizione della povertà radicale? Il Forum dei bisogni si propone come un luogo di apertura e contaminazione in cui i saperi dell’economia e della politica siano animati dalle forme del pensiero e dell’immaginazione, in un’epoca in cui quei fenomeni che sembravano la piaga esclusiva di un sottosviluppato Terzo Mondo si stanno invece affermando anche nel Primo.
La Fondazione Premio Napoli, la cui missione è la diffusione della cultura letteraria e umanistica in generale, promuove l’interazione di percorsi formali e modelli conoscitivi differenti, validi su scala mondiale, che permettano di comprendere il bisogno e sfidarlo, di riconoscerne la singolarità e insieme assumerne il tratto universale, per poi tornare al reale, ciascuno identificando con più chiarezza il proprio compito in una nuova, necessaria lotta per l’eguaglianza.
Per questo primo anno l’iniziativa sarà scandita su cinque appuntamenti.

10 luglio 2012 (Sede: Albergo dei Poveri) – La fame non aspetta
ottobre 2012 – Pane selvaggio
novembre 2012 – La scala della fame
novembre 2012 – Un campo che non è quello di grano
dicembre 2012 – Il nuovo abolizionismo. Sradicare la fame

Fondazione Premio Napoli

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4 Commenti

  1. Uno

    La mia famiglia è povera: molto povera, poverissima, ignorantissima e analfabeta. Poverina, la mia famiglia. A noi manca tutto. Anche l’asso, il due e il tre. Visto che non teniamo niente, almeno il primato della povertà lasciatelo alla mia famiglia.
    Infatti, ci puzziamo di fame malamente proprio che ce l’abbiamo azzeccata nella cima dei capelli la miseria. Se nel vicolo e nell’intero quartiere ci stà una famiglia che scapuzzea perché dice che è più povera di noi, succede la guerra e il finimondo: a questa abbondanza di povertà e miseria ci siamo sempre stati attaccati come le patelle agli scogli e i pidocchi e i lendini sulle mummarelle d’e criature.
    Non ce la prendiamo per il fatto che ci sciasciamo nella povertà al punto che di notte e ‘a matina ampresso nun se capisce chi è soreta e chi è ‘nnammurata ‘e chi e chi è ‘a mugliera di un altro: è ‘na sfaccimma ‘e mmescafrancesca di corpi, sciati, pesci e pucchiacche. Come in ogni cosa c’è un lato positivo e un altro negativo. Almeno così dicono anche della povertà, ma onestamente non ci metto la mano sul fuoco.
    Uno già non c’ha niente e si puzza di fame, mette anche la mano sul fuoco significa che si proprio ‘nu strunzo o ‘na scema di guerra che crede che il ciuccio vola. Sarebbe a dicere, follia e autolesionismo. E poi, ‘o ssapite meglio di me: il povero proletario ha dalla sua parte, se non nasce e cresce malato, soltanto le braccia e le mani, per cui è sconsigliabile scommettere e bruciarsene una o tutte e due.
    Almeno io non posso ancora prendermela perché da un lato non ne ho coscienza; e, dall’altro, forse è la timidezza, anche se istintivamente mi faccio tutto rosso in viso quando accennano, anche alla lontana, alla povertà della mia famiglia; un po’ come quando ci si innamorerò per la prima volta e si è in balia dell’amore: ogni cosa te fa addivintà russo comm’a ‘nu puparuolo di san Marzano. Qua non è una questione d’amore, era solo un esempio. O, l’amore forse c’entra, ma è lontano, come le cose che la mia famiglia non sa e non conosce. E io, a ruota, anzi, portato nella pancia ‘e mammema, cioè mia madre.
    Dovete sapere che a me ci vuole ancora un mese per uscire dalla pancia di Colomba Mammazezzella. A mammema la chiamano accussì pecché le altre femmine del vicolo e del quartiere quando sgravano e non hanno il latte e invece lei invece le tiene chiene chiene, l’avvicinano e le dicono: Colò fallo p’a Maraonna, allatta stu criaturo, sinnò chillo me more.
    A dire il vero non sono il solo qui dentro. Ci sta pure Ciruzzo, detto ‘o Cucuzziello. E‘ così che chiameranno mio fratello gemello, qui a fianco. Tiene la capa uguale a una zucchina. E mi sta addosso come una zecca cavallina. Non ne ho mai visto una di zecca, ma altri animaletti si: pidocchi, lendini e pulci; cimici, chiattilli e scarrafoni. I chiattilli me li mischieranno chilli figli di bucchina dei miei fratelli Sciasciriello e Torillo che ogni sabato sera quanno ‘o masto le da a semmana vanno ‘ncoppa i Quartieri Spagnoli a chiavare cu Titina ‘a Zengara. Per fortuna ‘o scolo nun me l’hanno mischiato. ‘E femmene d’a famiglia nosta songo tutte zoccole: ogni ommo è n’occasione pe’ purtà quaccosa a casa. E’ così che spesso ci va bene e mangnammo.
    Poverina, la mia famiglia. Anche se se mi fa ribrezzo o pietà, la mia schifosissima famiglia. Spesso prendo le distanze dalla mia docile famiglia. E, come va di moda, mi dissocio dalla mia famiglia. E, dalla fame e dal fetore di miseria che insieme all’umidità, impregna le mura di casa e le pezze che ce purtammo ‘ncuollo. Ma però, io sono io e la mia famiglia è la mia famiglia. Insomma, non voglio mischiare la lana con la seta. Tutto qui. Mi viene quasi da vomitare, vedere una famiglia ridotta così. Certo, è la mia famiglia, non certo quella di un altro. Intanto, queste cose così schifose della vita reale le scoprirò più avanti, direttamente, sulla mia pelle.
    Ah, mi sono scordato di dirvi che io mi chiammo Zé Pochiello Capa di Bomba, ma anche Capa di Vacca. I miei cumpagnielli della banda per sfruculiarmi cantano:
    Capa ‘e Bomba va ‘nterra e nun se rompe.
    Capa ‘e Vacca va ‘nterra e nun se spacca.

    E sapete il perché la cantano? Per non pensare alla fame che urla nello stomaco. Io gli corro dietro, facendo finta di incazzarmi, ma pure a me, ca songo ‘o capobanda, la fame mi mozzica e mi fa arraggiare.
    … continua …
    * * *
    PS: Quanto sopra è l’inizio del primo capitolo del libro che sto scrivendo, ma ancora non ultimato, anche se manca poco, intitolato: A petto di rondine.

  2. Quando sono venuta a Napoli, mi sono sentita orfana, senza cognome. La città ti prende come la sua figlia, ti fa dimenticare il tuo passato, ti nutre con la lingua di miseria e di bellezza. Non ero straniera, facciavo parte dei quartieri, del mare, del bambino visto nelle braccia della sua madre su una vespa, delle colline. E’ la sola città fedele alla mia infanzia, la sola da cantare dolore e felicità, la sola che mi parla di un esilio senza partenza. Ho creduto un tempo che era gemella di Marseille o Barcelone- perché a Marseille la miseria è anche presente, un tigre affamato- con HlM nel centro della città- ma Napoli ha una lingua diversa fatta di bellezza secolara, di interiorità, di scènes di vita: storie straordinarie instabili- di pietra lavica. E’ Africa, Oriente, Grecia: ha un cuore molteplice.
    Ritrovero la mia Napoli fine agosto. Vorrei ritrovarla guarita- ma lo so- saro di fronte a chi cerca da sopravvivere- non si puo togliere lo sguardo- Napoli è negli occhi, entra nel cuore, rimane come eterno rimorso della nostra Europa.

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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