Io, Rugo e la vecchia

di Gianni Agostinelli

Io e Rugo siamo in magazzino che apriamo gli scatoloni col taglierino. Li impiliamo per benino uno sull’altro finchè possiamo manovrare il transpallet senza che sia troppo faticoso o che caschi anche la troia di sua sorella che poi tocca raccogliere i chili di cartone con le guance rosse per la vergogna che sicuro dietro spunta preciso Bragianti o la Marini e dicono no con la capoccia e finisce che ci fanno la festa se non stiamo attenti. Poi facciamo trentadue passi, di norma, e dalla luce accecante venti metri sopra le nostre teste, che ci lasciamo alle spalle e che viene dal corridoio bevande, trentadue passi dopo, dicevo, c’è la porta automatica sul retro del supermercato. E sul retro del supermercato ci sono i diversi contenitori dell’immondizia. il parcheggio coi lampioni, la recinzione, e i secchi. E vicino a quelli generici, o dell’umido c’è sempre una coppia di ex sovietici, marito e moglie penso, anche se Rugo dice che sappiamo soltanto che sono uomo e donna, oppure un vecchietto che parla a scatti rapidi e solo quando litiga coi due tizi ex sovietici per contendersi qualcosa da mangiare che noi di genere buttiamo via. Anche se una volta buttavamo via più roba. Tu devi sapere che quindici anni fa buttavamo via un mare di verdura che adesso no, dice Rugo. E il vecchio contro i due ex sovietici litigano quando si pestano i piedi. Comunque è cronaca, per dire, non è questo che è strano, che infatti domani alle tre quando ripartiamo col transpallet loro saranno lì fuori e io e Rugo invece avanti e indietro. È invece che oggi che avevamo aperto un mare di scatoloni, oggi è lunedì, anzi era ormai, sono arrivati un casino di colli e con Rugo ci siamo fatti un culo come un capannone. Insomma lavoravamo muti, che infatti che cazzo vuoi dire, muti eravamo, e dalla luce della corsia bevande entra nella nostra luce più timida del magazzino una signora vecchia. Una settantina d’anni dico io, approssimando come sempre. Bastone, mollette tra i pochi capelli, gambe storte, puzza. La solita vecchia. E non riusciamo a dire un cazzo, io e Rugo perché lei va diretta in avanti, lentissima ma imperturbabile e muta come noi. Mi affaccio alla luce della corsia bevande ma non c’è nessuno. Sembra sia sola. Lei cammina e sta andando verso un pianale di lamiera appuntita che aspetta lì come una pianta carnivora e si lecca i baffi che adesso mangia la vecchia. E la vecchia cammina piano ma intanto si avvicina. Rugo mi guarda e dice Chiama qualcuno. E io mi affaccio nuovamente e vedo una ragazza e una signora, che sarà la mamma della ragazzina e la figlia di questa vecchia che sta per finire sopra un quintale di ferro. Loro cercano la vecchia con lo sguardo, io non dicono niente e gli indico la direzione quando incrocio i loro sguardi. La signora aggrotta le sopracciglia e nel massimo silenzio segue con lo sguardo il mio dito indice e vede la vecchia che adesso ha oltrepassato il pianale del ferro e corre spedita, si fa per dire, verso la luce della sera e l’aria fresca del tramonto invernale. Nonna dice la ragazzina e quella dice Che vuoi continuando a camminare. Io mi scanso e le faccio passare sorridendo ma senza guardarle e così recuperano la vecchia e se la riportano a casa che tanto né io né Rugo sapevamo che farci. Che situazione dico quando siamo nuovamente soli, io e Rugo. Mi ricorda quando ho scritto un racconto. Una volta volevo scrivere un racconto su mia nonna che ai tempi aveva l’Alzheimer. E il corpo era a posto invece la testa no. E lei ripeteva la solita cantilena tutto il giorno, non mi ricordo le parole esatte ma era una frase breve in cui lei andava alla porta di casa e vedeva arrivare qualcuno. E cercava di avvertirmi sul fatto che era arrivata gente all’uscio, pensando così che io potessi farci qualcosa. Invece io l’ascoltavo, trenta, quaranta, o sessanta anni dopo quello che lei stava cantilenando e non sapevo veramente che cazzo fare se non ascoltarla, aprire le braccia e controllare che il laccio che legava la sua vita alla poltrona non fosse troppo stretto. E questo lo dico appunto per far capire che la legavamo, che era indispensabile ma non disumano, era per farlo passare come indizio a fine di frase in modo calcolato e scivolare al periodo successivo. Che eccolo che arriva.
Di che racconto parlavi fa Rugo. Parlavo rispondo io alzando il tono di voce a quello di una normale conversazione tra due amici, parlavo, dico, di quella volta che partecipai ad un concorso per racconti horror. Era il periodo che leggevo tutti i libri di Stephen King, che mi piacevano tutte quelle cose irreali che lui vedeva e immaginava e che poi scriveva e c’era un gran minestrone di misteri sangue e america. E insomma c’era il concorso su internet per racconti noir e gialli e horror e io partecipai scrivendo di mia nonna che in pratica aveva l’Alzheimer come era la verità e però il protagonista del racconto era un ragazzo che aveva questa nonna malata ma aveva anche un nemico. Uno che ci provava con la sua ragazza in modo sfacciato. Per punirlo decise di ucciderlo e poi lo spezzò in diverse parti, lo nascose nel surgelatore e piano piano fece sparire il corpo dandolo da mangiare alla nonna malata di Alzheimer che ripeteva una cantilena tipo quella che ti dicevo prima e però aveva uno stomaco d’acciaio che nel giro di un paio di mesi si era mangiato tutto lo spasimante della ragazza. Questo era il racconto, però non ho vinto il concorso. Non mi hanno neanche menzionato. I risultati sono usciti l’estate seguente e a vincere è stata una tizia di Bergamo alta che aveva fatto un racconto sulle sue prime mestruazioni e sul forum del sito è scoppiata una caciara perché tutti quanti, anche io, abbiamo detto Che cazzo c’entrano le mestruazioni con l’horror, sangue a parte. E abbiamo fatto del fine umorismo, ma gli organizzatori, come si suole dire non hanno sentito cazzi e lei ha vinto il primo premio. E la vecchia mi ha ricordato il racconto e mia nonna.
La vecchiaia è brutta, terribile, dice Rugo. Lo so dico io. Tu non sei vecchio dice lui. Però non sto benissimo. Ma non sei vecchio. Non sono vecchio ma non sto bene. È diverso dice Rugo. Ma tu mica sei vecchio, hai l’età mia circa, no? Quanti anni hai?
Moscardè, interviene il macellaio che si era affacciato alla porta del magazzino e guardava verso di noi, hai ripreso a parlare da solo? Chiamo Brini? Lo chiamo? Vuoi che chiami Brini? Ah, ecco. Bravo. Svuota quel cazzo di transpallet e vieni di là con lo scaleo che sennò chiamo Brini e con lui vedrai che trovi da discutere. Intesi?

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gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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