LA RIVOLTA IMPOSSIBILE vita di Lucio Mastronardi

dalla Settimana INCOM 1961
di Riccardo De Gennaro

Capitolo quarto

Prima che Il calzolaio approdi nelle librerie nella collana dei «Coralli», ampliando in questo modo la cerchia degli happy few che l’avevano letto sul Menabò, via Biancamano propone ai lettori Il maestro di Vigevano. «Siamo tutti molto impressionati», gli confida Calvino in una breve lettera con cui gli annuncia la pubblicazione. Mastronardi gli aveva inviato il manoscritto nel novembre del 1960: «Ho cercato di descrivere com’è la vita nella scuola elementare – in cui da dodici anni ci sono ingabbiato dentro – com’è nella sua realtà e nelle sue contraddizioni. In tutta la confusione di programmi a base di psicologia e attivismo e novità, e nella routine di tutti i giorni», diceva nella lettera di accompagnamento. Nella quale fa anche presente che i maestri sono persone «molto suscettibili, molto maniache e molto tranquille», che la loro vita a Vigevano «è addirittura umiliante». Parla di «mentalità all’antica della piccola borghesia provinciale». Dice: «Si cercano di tenere le distanze con la classe operaia. Poi ci si accorge che le distanze le tiene la classe operaia che guadagna più di noi. Anzi, per dirla da maestro: un operaio di terza categoria ha una paga pari a un insegnante del coefficiente 229 nono scatto!». A quella data Mastronardi è un «coefficiente 229, sesto scatto».
       Sebbene si rivolga a Calvino dandogli del lei, Lucio non esita a confidarsi con lui, come se avesse bisogno di qualcuno che lo incoraggi e, forse, lo protegga, anche da se stesso. Non aveva, infatti, cercato disperato conforto da Vittorini, una sera dell’inverno precedente, quando era piombato a Milano, nell’abitazione dello scrittore, e – non trovandolo – aveva lasciato un biglietto «folle» alla cameriera? C’era scritto: «Mi spiace, volevo salutarti per l’ultima volta». Lo avevano cercato disperatamente per tutta Milano, presso gli amici dai quali alloggiava quando si trovava in città, nei pronto soccorso degli ospedali, persino all’obitorio. La cameriera riferì a Vittorini: «Aveva la faccia di un pazzo». Ma il giorno dopo era nuovamente a Vigevano. Agli amici, preoccupati, raccontò di aver trascorso la notte passeggiando. Poche settimane più tardi la polizia lo ferma alla stazione Centrale mentre, come in un delirio surrealista, distribuisce biglietti da diecimila lire ai passanti. Viene ricoverato nel manicomio di Mombello, vicino a Milano, il più grande d’Italia, dove resta internato per tre mesi. Sappiamo com’erano i manicomi prima della legge Basaglia: qualcosa di molto simile ai lager, dove i malati si curavano con l’elettroshock, la segregazione, i letti di contenzione, le camicie di forza. Mombello, per fortuna, è immerso in un grande parco, che ospita anche una villa dove aveva abitato Napoleone. Quando glielo consentono, Lucio legge: Hemingway, Gogol, Sartre, Pavese. Riceve anche una lettera da Mario Tobino, lo scrittore che è direttore dell’ospedale psichiatrico di Lucca, il quale lo invita ad andarlo a trovare non appena possibile per discutere di letteratura. È in manicomio che Mastronardi comincia a scrivere Il maestro di Vigevano. Il caso vuole che quando, due anni dopo, lo presenterà allo Strega verrà battuto proprio dallo scrittore toscano con Il clandestino.
       Qualche mese dopo essere stato dimesso, per l’esattezza il 25 ottobre 1960, Lucio scrive un’altra lettera a Calvino: «Mi rifaccio vivo dopo un anno. Che vuole? Mi hanno rinchiuso in una clinica psichiatrica per curarmi l’esaurimento nervoso che mi trascinavo addosso da tempo; e fra elettrochoc e cure del sonno e altre storie mi ci hanno tenuto tre mesi abbondanti». Gli confida di essersi innamorato, «ma la ragazza non ne ha voluto sapere ché, dice, non ero completamente guarito; almeno a giudicare dai miei ragionamenti». Allora «mi sono dato all’ozio più completo », ma «fare niente a Vigevano è una tortura perché lavorano tutti, tutti sono presi, girano, trafficano, e il far niente dà la sensazione proprio
di essere degli anormali da sopportare».
       Così come Vittorini era stato un padre, Calvino a poco a poco diventa un fratello maggiore. Il carteggio tra i due si fa ogni giorno più voluminoso (alla fine le lettere saranno un centinaio). Il corpus epistolare è quasi un’autobiografia, Lucio racconta aneddoti, si apre, confida i suoi desideri, le sue paure. È facilmente intuibile quello che vorrebbe sentirsi dire dall’autorevole interlocutore, qualcosa che né suo padre, né sua madre – un ispettore scolastico e una maestra alle soglie della pensione – gli diranno mai: Lucio, lascia l’insegnamento, non perdere tempo con la scuola, scrivi e non pensare ad altro. Perché la scuola, scrive Lucio, «è un mondo interessante e triste. Interessante per chi è fuori dalle mura, triste per chi è dentro». Nella scuola «la retorica più puzzolente a base di Cicerone e Manzoni imperversa ancora, e tutto cambia, meno la mentalità suscettibile e boriosa dei maestri elementari». Nei giorni successivi la Einaudi gli invia il contratto per Il calzolaio di Vigevano e per il racconto L’assicuratore, che tuttavia non verrà pubblicato per volontà dello stesso Mastronardi, il quale all’improvviso dice di vergognarsi d’averlo scritto (lo riprenderà molti anni dopo, nel marzo del ’75, la Rizzoli, che pubblicherà un’antologia di vecchi racconti sparsi, a cura di Sergio Pautasso, intitolata appunto L’assicuratore).
       Per Italo Calvino Il maestro è una grande sorpresa. Raramente, lui così misurato, ha fatto ricorso a toni altrettanto entusiastici: «È un libro fuori del comune, con una forza poetica dentro, una forza di disperazione, una visione assolutamente nera dell’umanità, che riesce a diventare visione poetica. Lo pubblicheremo senz’altro e sarà un avvenimento ». Queste parole restituiscono fiducia a Lucio. Anche se non nasconde qualche riserva e, in particolare, giudica l’episodio finale del ragazzo «d’una brutalità al di là d’ogni misura», Calvino assicura che «il libro ha una sua logica interna, è tutto legato, si vorrebbe accettarlo com’è, senza togliergli una virgola». Poi fa un rapido confronto: «il Calzolaio è un libro più bello perché la stessa visione dell’umanità è espressa in modo più oggettivo e più unitario; ma il Maestro è un libro più infernale e ricco e impressionante». Lo stesso Giulio Einaudi, molti anni dopo, in un libro-intervista di Severino Cesari, ricorderà una lusinghiera lettera indirizzatagli nel marzo ’62, ovvero «nel pieno del nostro innamoramento per Lucio Mastronardi», dall’illustre critico Gianfranco Contini. A dire di questi, Il maestro non ha la medesima «vivacità d’invenzione poetica più o meno espressa in forma vernacolare, che m’aveva interessato, anzi rapito» nel Calzolaio, ma «anche questo libro è decorosissimo», una «specie di Nausée subalpina», parente «più del Faldella e del Panzini, che di Gadda e Pasolini e in un qualche senso al Mastronardi ne va reso merito».
       L’inizio del rapporto epistolare con Calvino, che si potrarrà fino al settembre ’67, quando i rapporti con la casa editrice torinese s’incrineranno, non interrompe il rapporto personale di Mastronardi con Vittorini. Il 7 dicembre del ’60 Lucio torna, più tranquillo, a Milano e fa visita allo scrittore siciliano che non vede da mesi. Vittorini lo invita non rimettere le mani nel Maestro, a lasciarlo esattamente com’è. È per questo che Mastronardi lascia fare a Calvino: «Faccia lei, come crede opportuno. Se sono necessari tagli, tagli pure, dove crede», gli risponderà il giorno dopo tutti quegli elogi. Quando poi, durante l’incontro, Lucio dice a Vittorini che sta anche rielaborando Il calzolaio per la nuova edizione, l’autore di Uomini e no, racconta lo stesso Mastronardi, «si portò le mani nei capelli».
       Incurante del consiglio, Mastronardi trascorre le sue notti a rivedere Il calzolaio. Come un maniaco. Il perché non si capisce. Qualcuno ha espresso giudizi negativi sul romanzo? Non risulta. Al contrario. O forse lo agita la sua consueta ansia, l’insoddisfazione, l’insicurezza? Non si sa, sta di fatto che Lucio si chiude nella sua stanzetta, accende la luce e si mette a lavorare alla parte finale del Calzolaio, quella che più lo preoccupa. Poi affronta quella iniziale. Nel marzo del ’61, però, ci rinuncia: «L’ultima stesura del Calzolaio non va, me ne sono accorto; quella del Menabò me l’hanno resa odiosa amici e familiari. Mandiamolo a farsi fottere questo calzolaio che m’ha fatto perdere un mare di tempo, e mena gramo oltretutto».
       Di nuovo questo suo nervosismo ansioso, insopprimibile, implacabile anche dopo le rassicurazioni di Calvino sulla sicura pubblicazione del nuovo romanzo. Lucio diventa suscettibile con gli amici, intollerante con i suoi scolari, insofferente in famiglia. Sente che non può ancora dirsi scrittore e il fatto che sia maestro di ruolo da più di cinque anni non è certo un punto d’approdo. A Calvino ora non fa altro che chiedere se Il maestro «vale un Corallo», lo prega di dirgli qualcosa, perché «questa incertezza mi snerva; e chi ne va di mezzo sono i miei vecchioni e i miei scolari, che mi devono sopportare, poveracci». Il 13 marzo si reca a Milano per assistere ai lavori del Congresso socialista, sperando di trovare Calvino. Poi cambia ancora una volta idea e riprende la revisione del Calzolaio: «Spero che sia pubblicabile sui Coralli – scrive a Calvino dalla nuova casa di via Simone del Pozzo – come era stesa sul Menabò non mi andava. Ci trovavo troppe parti sforzate e troppa sociologia. Ogni volta che mi leggo sul Menabò provo crisi di angoscia. Pensa che a furia di pensare al Calzolaio, mi era venuta la sua mentalità. Ho fatto un sacco di figuracce!».
       L’attesa della pubblicazione è snervante. Lucio decide di andare a Torino, prova ne sia un biglietto fatto consegnare a Calvino, occupato in una delle innumerevoli riunioni einaudiane, sul quale ha scritto con la sua calligrafia infantile queste semplici parole: «Italo sono io Lucio». Nient’altro. Come se non bastasse, i suoi nervi sono messi a dura prova da un incidente: la casa editrice non trova più il dattiloscritto del Maestro. Lucio non ha un’altra copia, entra in fibrillazione, s’infuria con tutti, si dispera. Alla fine è Calvino a rassicurarlo personalmente durante un incontro a Milano nella libreria Einaudi di via Manzoni: «Lo troveremo », gli dice. Nei giorni successivi gli scrive: «Abbiamo capito dove si trova e tra breve lo riavrò», si legge in un biglietto curiosamente indirizzato, per errore, a «Luciano» Mastronardi, il nome del padre. Questo non è evidentemente sufficiente a calmarlo se, nell’ottobre ’61, fugge di casa e finisce per la seconda volta in manicomio.
       Primo ottobre 1961: la scuola riapre, Il maestro – che Mastronardi vede come la sua unica salvezza – tarda ad essere pubblicato. Lucio è disperato, attanagliato dall’angoscia, si sente soffocare. Passa una notte insonne, in compagnia dei pensieri più cupi, poi, all’alba, fugge di casa. Non sa dove andare, ma la cosa importante è lasciarsi alle spalle l’ambiente scolastico, dove si sente vittima di maldicenze dei colleghi maestri e del direttore didattico. Da giorni non dorme, non apre bocca, fuma in continuazione, non tocca cibo. Quel primo di ottobre la sua crisi raggiunge il culmine. È una giornata che va ricostruita nei dettagli.
       La madre ha tentato di fermarlo sulla soglia, ma non è riuscita a trattenerlo. È l’alba. Lucio corre via da casa con un pacco di fogli sotto il braccio, la testa confusa, le gambe affaticate perché non ha dormito. Lo stato di prostrazione non gli impedisce di riflettere. Dove cercare aiuto per non morire? C’è soltanto una persona di cui si fida ciecamente: Vittorini, il suo maestro, l’unico che ha veramente compreso il suo talento. Per arrivare alla stazione, da via Simone del Pozzo, bisogna attraversare tutto il centro di Vigevano, prendere via del Popolo, scendere per piazza Ducale, girare in via XX settembre, passare sotto la manica lunga del Castello e percorrere tutta via Cairoli. Treni per Milano ce ne sono ogni momento.
       Alle cinque del mattino, mentre i suoi scolari dormono le ultime ore prima dell’inizio dell’anno scolastico, Mastronardi piomba a casa di Vittorini. Ricorda Oreste del Buono nel suo libro di «ritratti» di scrittori: «La nuova casa di Elio Vittorini alla Darsena di Milano aveva un portone che dava su viale Gorizia e un portone che dava su via Vigevano. Uno dei portoni veniva aperto presto perché molti degli inquilini andavano a lavorare presto. Lucio Mastronardi svegliò un’assonnata cameriera, le mise in mano un pacco di fogli. “Non disturbi nessuno, glieli dia”, disse e scomparve. Quando Elio Vittorini si alzò, constatò con inquietudine che tra quei fogli c’era anche la carta d’identità di Lucio». Del Buono racconta che «quei fogli erano cosparsi di elenchi, colonne e colonne di parolacce, e per questo Elio Vittorini e Raffaele Crovi si allarmarono maggiormente come se fosse un’estrema testimonianza».
       Mastronardi è visibilmente alterato, ma farla finita non è ancora tra i suoi pensieri. Probabilmente gira come un pazzo per le strade di Milano, l’improvvisata a casa Vittorini non ha placato la sua angoscia. Torna alla stazione Centrale e, probabilmente, prende un treno per Torino. Vuole andare da Calvino? C’è un problema, è tardi, non ce la farebbe a raggiungere via Biancamano con gli uffici aperti. Allora scende a Vercelli, dove pernotta in un albergo. Non è difficile immaginare il suo stato d’animo. Lui stesso, in seguito, racconterà di aver scagliato il portafogli contro l’albergatore, che era entrato in camera sua con un passepartout. Un gesto «alla De Amicis», dirà. La circostanza si può spiegare con lo smarrimento della carta d’identità, probabilmente l’albergatore è salito in camera per sollecitargliela.
       L’indomani mattina, il 2 ottobre, Mastronardi fila diretto alla stazione e, anziché proseguire per Torino, prende un treno per Alessandria. Che cosa gli sia passato per la testa non si sa, forse fa confusione con le partenze. Sta di fatto che, giunto alla stazione di Alessandria, sale su un treno diretto al capoluogo piemontese, ma si siede in una carrozza riservata a una comitiva turistica. Dirà, esattamente un anno dopo, a Giampaolo Pansa, inviato della Stampa: «Ero su quel treno perché volevo fuggire da Vigevano. Qui mi sembrava di soffocare, in casa non ci resistevo più».
       Chi va soggetto a sbalzi di umore sa che il cattivo tempo è un nemico insidioso. Alla stazione di Alessandria, quel giorno, scende una pioggerellina fastidiosa. Un anziano controllore, di nome Giulio Barbi, livornese, lo invita a cambiare posto. Lucio ha uno scatto dei suoi: «A chi è riservato questo treno? Forse al presidente Gronchi?». E giù insulti: «Io alla tua divisa ci sputo sopra». Barbi chiama la polizia ferroviaria e denuncia Mastronardi al pretore (competente del caso è il dottor Dell’Aquila). Lo interroga in prima battuta un certo Caramello, maresciallo della Polfer, che si rende conto del suo stato di agitazione e lo accompagna al pronto soccorso di Alessandria. Il medico di turno, tal Cotroneo, non ha dubbi: crisi depressiva, il paziente deve essere rinchiuso in manicomio. Anche il responso del direttore dell’ospedale psichiatrico San Giacomo, Piero Pappalardo, è netto: trattasi di un «episodio dissociativo di tipo schizofrenico». Lo mettono in uno stanzone con «una quarantina di pazzi, includendoci gli infermieri», dirà Lucio. Poi, grazie anche ai buoni uffici di casa Einaudi, lo trasferiscono al primo piano, «fra gli esauriti».
       La situazione è piuttosto grave se la madre, Maria, donna umile e schiva, che ha sempre vissuto nell’ombra del marito, il 22 novembre 1961 sente l’esigenza di prendere carta e penna e scrivere a Calvino: «Sono la mamma di Lucio Mastronardi». Chiede notizie del nuovo romanzo: «Mi dica, Dottore, sarà pubblicato il libro di Lucio del maestro? Basta un monosillabo. Quel che voglia dire per me non importa. La vita mi ha inflitto già tante amarissime esperienze, saprei affrontare anche questa ». E conclude: «A una mamma può far grazia di una piccola importante risposta». Lucio non è al corrente dell’iniziativa.
       Calvino risponde a stretto giro di posta. Ha appreso dai giornali la notizia dell’episodio e del conseguente ricovero: «Non gli ho mai scritto – si giustifica – perché non so se le preoccupazioni letterarie hanno una parte nella sua malattia e non so se una mia lettera può turbarlo». Una seconda lettera della madre gli toglie ogni dubbio: «Sì – scrive senza esitazioni Maria Pistoja in Mastronardi – le preoccupazioni letterarie hanno avuto parte fondamentale nella depressione di Lucio. Quel povero ragazzo, che trascina da dieci anni l’ingrato lavoro nella scuola, dove, fin dal primo giorno ha giurato a se stesso di evadere il più presto, vede o s’illude di vedere in ogni sua manifestazione extra, un miraggio
di liberazione».
       Nell’estate del ’60, racconta ancora la madre a Calvino, «sperò in un concorso Rai Tv, promosso quasi alla chetichella, non disse niente a nessuno e sostenne la prova, ma non si accorse che i vincitori, raccomandatissimi, erano già segnati e ne sofferse». Qualche tempo prima partecipò, invece, a un bando dell’Olivetti: «Fu chiamato nella prima scelta, ma, da ragazzo ingenuamente sincero, fece sapere che fu per alcuni mesi in una clinica psichiatrica». Il manicomio di Mombello.
       A quel punto Calvino invia a Lucio una breve lettera in ospedale. È datata 29 novembre 1961: «Caro Lucio, ti pensiamo sempre e non vediamo l’ora di riaverti tra noi. Tra un paio di mesi uscirà Il maestro di Vigevano, di cui mi sto occupando personalmente. Spero d’avere tue buone nuove. Un caro saluto». Come prevedibile, Lucio si sente rinascere: «I benefici li ho subito sentiti». Ora dorme in una cameretta a due letti con un agente della guardia di finanza che soffre di manie di persecuzione. Racconta a Calvino: «Mi fanno la cura dell’insulina. Ogni mattina mi mandano in coma con una puntura, poi dopo qualche ora, con un’altra mi risvegliano». Durante la degenza legge tutto Svevo e Il ponte sulla Drina di Ivo Andric: «Sono riuscito persino a finirlo». Annuncia poi di aver scritto un racconto sulla sua disavventura e di averlo intitolato Un giorno qualunque. Ma di questo racconto non si sa nulla. Le sue ultime parole spiegano indirettamente le ragioni della sua disperazione: «Sono felice che fra qualche mese mi esce il Corallo. Ci tenevo tanto». Verrà dimesso dall’ospedale psichiatrico – con l’obbligo di proseguire la «cura» e ripresentarsi quattro mesi dopo – il 21 dicembre. Giusto in tempo per trascorrere il Natale in famiglia. Nel frattempo, per aver insultato un controllore, si è fatto quasi tre mesi di manicomio.

   

   
Riccardo De Gennaro
LA RIVOLTA IMPOSSIBILE
vita di Lucio Mastronardi
[ pag. 46-56 ]
EDIESSE [ 2012 ]
   
   
   
http://www.youtube.com/watch?v=KhwFu8KcsxU&t=1h41m45s
   

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5 Commenti

  1. il libro è veramente bello ed esauriente ‘Il maestro di Vigevano'(avevo incluso un brano in una mia antologia del 1965) era e resta un capolavoro …anche di denuncia sociale, oltre che lo specchio caricaturale di un certo mondo scolastico italiano…

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