Fortini – Lezioni sulla traduzione
di Domenico Pinto
A Napoli, nel 1989, il magnetofono registra per dodici ore la voce di Fortini. Su invito di Vittorio Russo sta conducendo un seminario nelle sale dell’Istituto di Studi Filosofici. Le esperienze radunate in oltre quarant’anni di traduzione, da Un cuore semplice (1942) alla Colonia penale (1986), e culminate nell’impresa del Faust (1970), confluiscono in queste lezioni che salpano tutte le sue reti teoriche e poetiche. Nessuno al pari di Franco Fortini, se non forse Ripellino – anche lui scortato in molte occasioni dalla compagna, Ela Hlochovà –, ha attraversato più in profondità il genere della traduzione, il campo di forze entro cui si modella il proprio destino, si tagliano o gettano ponti verso il passato, si fondano nuove comunità di lettori. Il testo del seminario napoletano viene oggi restituito – ordinando un accidentato percorso di cancellature e varianti, con transiti dai dattiloscritti alla voce viva – da Maria Vittoria Tirinato, che firma il saggio introduttivo al volume: Lezioni sulla traduzione, premessa di Luca Lenzini, Quodlibet 2011, €16. I quattro torsi che lo compongono, non più rielaborati in vista di una stampa (da cui il magnetismo di certe pagine altissime e inesorabilmente oblique), racchiudono i temi cari a Fortini e al centro della sua riflessione fin dall’epoca di Traduzione e rifacimento e Cinque paragrafi sul tradurre (1972).
La dimensione storica della traduzione è percorsa a grandi giornate, dal sogno della sincronicità (ne fu sfiorato Leopardi, che propose di volgere Erodoto in italiano medievale) alla progressiva affermazione di un’idea del non somigliante, dell’alterità del modello, tanto da giungere, con il Quaderno di traduzioni di Montale, al gesto che rescinde le funi del testo di partenza e lotta per la propria autonomia. Il compasso viene di qui puntato sulle prove didascaliche e d’autore, tocca gli estremi della parafrasi e del rifacimento, mette in luce le contraddizioni e gli inganni della versione poetica, entrando nelle officine dei colleghi con affondi stilcritici fulminanti e persuasivi. Più volte ritorna Fortini sulla sospensione del testo a fronte, ove ciò sia solo il terreno «di una prestazione atletica, una sorta di gara a ostacoli, un concorso a premi, dove si valutano la bravura o l’astuzia, la tecnica», quando invece la partita si gioca sulla metamorfosi delle forme e sul senso per la nostra vita degli archetipi letterari, come si dà nel caso di Raboni, in cui il rapporto col testo «passa attraverso una sorta di interpretazione-dissoluzione dell’intero corpo poematico di Les fleurs du mal e una sua riassunzione o ricostituzione come sfera attuale, senza più ombra di citazione ma anzi come repertorio di lingua, di immagini e di eticità utilizzabile al presente». Come non consentire, se spesso la traduzione, a ben vedere, è il mezzo per le opere di prolungare la loro esistenza quando le lingue in cui furono scritte hanno smesso, da tempo, di risuonare («muori e diventa!», esclama Goethe nel Divan). Viene fatto di pensare alla parabola kafkiana: il traduttore ha udito il messaggio imperiale, e tenta di coprire le distanze che secoli di perdite e di assottigliamento delle parole aprono davanti ai suoi passi, rendendo alla fine quasi inconoscibile quel messaggio. Su questo sfondo, la rassicurante nozione di fedeltà, o anche di bellezza, può perdere il suo senso, a unico vantaggio di uno stato di necessità del testo d’arrivo: «c’è la fedeltà del perito del Tribunale […] e c’è la fedeltà interpretante come meccanismo di equivalenze». L’idea viene approfondita nella seconda lezione, che affronta il tema dei compensi nella traduzione di poesia partendo dall’eredità formalista di Tynjanov e Mukařovský. Il banco di prova sarà allora quello della presenza o latenza della rima nelle espressioni più autorevoli: la sua caduta, nel Novecento, guida a una maggiore mobilità dell’architettura versale, a un serrato moltiplicarsi delle figure di suono, in direzione di uno «strabismo stilistico» che è il regno di Montale, sotto la cui insegna si situa la lingua della traduzione poetica.
È impossibile abbracciare tutta la complessità e l’ampiezza di queste riflessioni, non più che un cenno si può fare alle incursioni dentro la storia della traduzione in Italia, dove si individua nel quindicennio 1925-1940 e 1970-1985 il periodo più fecondo e qualitativamente più alto delle versioni d’autore, ovvero i periodi che la nostra società ha vissuto di più intensa depoliticizzazione, di reflusso e «separatezza» delle istituzioni letterarie. Sono pagine in cui si illuminano la tensione dialettica fra poesia e prosa, le pieghe della koinè ermetica quale base del dimesso-sublime, dove si tocca della ‘traduzione immaginaria’ e del postmoderno. Alcuni luoghi mostrano una affilatissima coscienza del proprio ruolo nel campo letterario (a Fortini sfugge di aver fornito, suo malgrado, «aroma spirituale» alla sua epoca) e ci indica come fra Pasolini e Sanguineti una terza via «fu di un autore fortemente segnato alle sue origini dall’età ermetica ma in contrapposizione ideologica e politica a quella. Parlo di me stesso. Era il tentativo di uscire dal conflitto fra l’eredità del linguaggio simbolista, “alto”, centripeto e verticale, e la materia linguistica e metrica dell’ethos politico, orizzontale, discorsivo e “basso”. Questa via fu cercata anche attraverso un esercizio di traduzione».
E la traduzione entra in piena luce come quella pratica, collocata al centro del sistema letterario, nel cuore stesso dell’attività di critica e selezione per l’avvenire, che più d’ogni cosa andrebbe difesa e fortificata, sottraendola ai dominî del mercato, alla lingua parlata dal semperidem dell’intrattenimento. Non stupisce più il candore con cui l’industria séguita a vendere il sole di luglio, l’ottuso romanzesco, azzardando il va-banque su ogni carta stampata. Così Feltrinelli, oggi un editore fra cento, può dire dalle bandelle che l’austriaco Daniel Kehlmann «è considerato uno dei più importanti autori degli ultimi cinquant’anni», quando i suoi uffici commerciali hanno lasciato a metà la traduzione de I giorni e gli anni, di Uwe Johnson, questa sì un’opera che occorreva portare con noi, nel tempo, e che invece non abbiamo avuto, al pari di tante, sostituite da nomi più clamanti e di facile conversione. È con metodo che ovunque avviene la scomparsa di scrittori che pure hanno costruito la fisionomia e il prestigio dei nostri editori, sui quali si fondava un ingente capitale simbolico. Cosa ci dicono queste Lezioni fortiniane? Che l’avventura della forma, invece, è infinita, e che il presente rimane ancora qualcosa di ricco e strano, e che per ogni Schinken prodotto dall’editoria c’è un Daniele Ventre che ritraduce Omero dandogli una veste in esametri regolari, Ottavio Fatica che affronta Moby Dick, o Marco Ceriani che belligera con l’armonia atonale di certo Holan. Non è un caso, dunque, non può esserlo, che una delle poesie più belle di Fortini sia come una sua ‘traduzione immaginaria’, da quell’autore che è stato per lui, e sopra di tutti, una piazza d’armi e un laboratorio intellettuale: «Fissavo versi di cemento e di vetro / dov’erano grida e piaghe murate e membra / anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando / ora i tegoli battagliati ora la pagina secca, / ascoltavo morire / la parola d’un poeta o mutarsi / in altra, non per noi più, voce» (Traducendo Brecht).
Questo articolo è stato pubblicato sul Manifesto, oggi 1.04.2012.
L’immagine in apice è presa da qui.
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L’avventura della forma, invece, è infinita, e che il presente rimane ancora qualcosa di ricco e strano, e che per ogni Schinken prodotto dalla fuga indiana c’è un Daniele Ventre che ti ringrazia per la menzion d’onore, anche se il ringraziamento non è in esametri regolari, ma solo in prosa.
Lezioni di stile in pillola…(io no, io non mi trattengo dalle imbrodature fatte in casa)
Come dice Garry: class no water! :-)
[…] articolo è stato pubblicato sul Manifesto e su Nazione Indiana il […]
il traduttore ‘è’ uno scrittore.
un abbraccio
Dicesi autore vicario :)
autore ‘supplente’? non sarei proprio d’accordo!
Vicario non è proprio lo stesso che supplente.
sì hai ragione, ma anche ‘vicario’ non è proprio lo stesso che traduttore
“””E la traduzione entra in piena luce come quella pratica, collocata al centro del sistema letterario, nel cuore stesso dell’attività di critica e selezione per l’avvenire, che più d’ogni cosa andrebbe difesa e fortificata, sottraendola ai dominî del mercato, alla lingua parlata dal semperidem dell’intrattenimento””””
I lettori solo questo vogliono: attingere dal
“””cuore stesso dell’attività di critica e selezione””