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Ciao, compagno Lucio

di antonio sparzani

Ciao, compagno Lucio,
ti eri raccomandato con i tuoi amici più cari, quelli d’una vita, i compagni del Manifesto. «Non voglio funerali, per carità, tutte quelle inutili commemorazioni. Necrologi manco a parlarne. Luciana si occuperà della gestione editoriale dei miei scritti. Per gli amici e compagni lascio una lettera, ma dovete leggerla quando sarà tutto finito.»
Adesso tutto è finito, compagno Lucio Magri, io ho abbastanza vissuto per ricordare dibattiti, conferenze, assemblee con la tua sempre piuttosto fascinosa, diciamolo, presenza, per ricordare le tue battute, sempre eleganti, le tue polemiche anche dure, ma così caratterizzanti un’epoca in cui ancora si dibatteva sui massimi sistemi, come usava dire. Sulla storia del comunismo avevi molto pensato e ora hai anche scritto.
Con un infinito rispetto per la tua scelta di andartene così, con determinazione e rigore, per i tuoi motivi che certo solo tu conosci appieno, scelgo questo modo per trasformare il lutto, che non volevi, come non lo vorrei mai io, in un’occasione per far conoscere ― senza fronzoli ― a più persone le prime pagine dell’introduzione del tuo ultimo scritto (Il sarto di Ulm, Il Saggiatore – tascabili, Milano 2011). Eccole:

«In una delle affollate assemblee che dovevano decidere se cambiare nome al Pci, un compagno rivolse a Pietro Ingrao una domanda: “Dopo tutto ciò che è successo e sta succedendo, credi proprio che con la parola comunista si possa ancora definire un grande partito democratico e di massa come siamo stati, ancora siamo e che vogliamo rinnovare e rafforzare per portarlo al governo del paese?”.
Ingrao, che già aveva ampiamente esposto le ragioni del suo dissenso da Occhetto e proposto di seguire un’altra strada, rispose, scherzosamente ma non troppo, usando un famoso apologo di Bertolt Brecht, Il sarto di Ulm. Quell’artigiano, fissato nell’idea di apprestare un apparecchio che permettesse all’uomo di volare, un giorno, convinto di esserci riuscito, si presentò al vescovo e gli disse: «Eccolo, posso volare». Il vescovo lo condusse alla finestra dell’alto palazzo e lo sfidò a dimostrarlo. Il sarto si lanciò e ovviamente si spiaccicò sul selciato. Tuttavia — commenta Brecht — alcuni secoli dopo gli uomini riuscirono effettivamente a volare.
Io, che ero presente, trovai la risposta di Ingrao non solo arguta, ma fondata. Quanto tempo, quante lotte cruente, quanti avanzamenti e quante sconfitte, furono necessari al sistema capitalistico — in un’Europa occidentale all’inizio più arretrata e barbarica di altre regioni del mondo — per trovare alla fine una efficienza economica mai conosciuta, darsi nuove istituzioni politiche più aperte, una cultura più razionale? Quali contraddizioni irriducibili marcarono, per secoli, il liberalismo tra ideali solennemente affermati (la comune natura umana, la libertà di pensiero e di parola, la sovranità conferita dal popolo) e pratiche che li smentivano in modo permanente (schiavismo, dominazione coloniale, espulsione dei contadini dalle terre comuni, guerre di religione)? Contraddizioni di fatto, ma legittimate nel pensiero: l’idea che alla libertà non potessero né dovessero accedere se non coloro che avessero per censo e cultura, perfino per razza e colore, la capacità di esercitarla saggiamente; e l’idea correlativa che la proprietà dei beni era un diritto assoluto e intoccabile e dunque escludeva il suffragio generale. Tutte contraddizioni che non tormentarono solo la prima fase di un ciclo storico, ma si erano riprodotte in forme diverse, nelle loro successive evoluzioni e gradualmente si erano ridotte solo per l’intervento di nuovi soggetti sociali sacrificati e di forze contestatrici di quel sistema e di quel pensiero. Se dunque la storia reale della modernità capitalistica non era stata lineare, né univocamente progressiva, anzi drammatica e costosa, perché dovrebbe esserlo il processo del suo superamento? Questo appunto voleva significare l’apologo del sarto di Ulm.

Tuttavia, scherzosamente ma non troppo, proposi subito a lngrao due interrogativi che quell’apologo, anziché superare, metteva in luce. Siamo sicuri che il sarto di Ulm, se fosse sopravvissuto storpiato alla rovinosa caduta, sarebbe rapidamente risalito per riprovarci, e che i suoi amici non avrebbero cercato di trattenerlo? E comunque, quel suo azzardato tentativo, quale contributo effettivo aveva portato alla successiva storia dell’aeronautica?
Questi interrogativi, in relazione al comunismo, erano particolarmente pertinenti e ostici. Anzitutto perché, nella sua costituzione teorica, pretendeva non di essere un ideale cui ispirarsi, ma parte di un processo storico già in corso, di un movimento reale che cambia lo stato di cose esistenti: comportava quindi, in ogni momento, una verifica fattuale, un’analisi scientifica del presente, una realistica previsione sul futuro, per non evaporare in un mito. In secondo luogo perché tra le precedenti sconfitte e gli arretramenti delle rivoluzioni borghesi, in Francia e in Inghilterra, e il crollo recente del «socialismo reale» occorre vedere una differenza pesante. Una differenza che non si misura nel numero dei morti o nell’uso del dispotismo, ma nel risultato: le prime hanno lasciato eredità, magari molto più modeste delle speranze iniziali, dovunque sono avvenute, comunque immediatamente evidenti; del secondo è invece difficile decifrare e misurare il lascito e individuare degni continuatori.
Vent’anni dopo, questi interrogativi non solo non hanno trovato una risposta, ma non sono neppure stati seriamente discussi. O meglio, delle risposte le hanno trovate in una forma molto superficiale e dettata dalle convenienze: abiura o rimozione. Un’esperienza storica e un patrimonio teorico che hanno segnato un secolo sono stati così affidati, per usare un’espressione di Marx, alla «critica roditrice dei topi», che come si sa sono voraci e, in un ambiente adatto, si moltiplicano velocemente.

La parola comunista torna certo ancora, in modo ossessivo e caricaturale, nella propaganda della destra più rozza. Resta nei simboli elettorali di piccoli partiti europei, per conservare il consenso di una minoranza affezionata a un ricordo, o per indicare genericamente un’avversione al capitalismo. In altre regioni del mondo, partiti comunisti continuano a governare piccoli paesi, soprattutto a difesa della propria indipendenza dall’imperialismo, e uno, grandissimo, in cui serve a sostenere uno straordinario sviluppo economico, che però va in altra direzione. La Rivoluzione di ottobre è generalmente considerata una grande illusione, in qualche momento e agli occhi di pochi utile, ma nel complesso sciagurata (identificata con lo stalinismo e in una sua versione grottesca), comunque condannata dal suo esito finale. Marx, di recente, ha riconquistato un certo credito, come pensatore, per le sue lungimiranti previsioni sul capitalismo del futuro, ma del tutto amputato dall’ambizione di porvi fine.
Ancor peggio, la dannazione della memoria tende ormai a procedere oltre: a estendersi all’intera vicenda del socialismo e, su per li rami, alle componenti radicali della rivoluzione borghese e alle lotte di liberazione dei popoli coloniali (che, come si sa, anche nel paese di Gandhi, non poterono essere sempre pacifiche). Insomma, «il fantasma che si aggirava» sembra finalmente sepolto: da alcuni con onore, da altri con odio non dimenticato, dai più con indifferenza perché non ha più nulla da dirci.

L’orazione più graffiante, ma a suo modo più rispettosa, a questa definitiva sepoltura l’aveva anticipata uno dei maggiori cervelli avversari, Augusto Del Noce. Quando, anni fa, disse in sostanza dei comunisti: hanno perduto e vinto. Hanno perduto rovinosamente nella loro prometeica ambizione di rovesciare il corso della storia, di promettere agli uomini libertà e fratellanza, anche senza Dio e riconoscendosi mortali. Ma hanno vinto come potente e necessario fattore di accelerazione della globalizzazione della modernità capitalistica e dei suoi valori: il materialismo, l’edonismo, l’individualismo, il relativismo etico. Uno straordinario fenomeno di eterogenesi dei fini, che egli, cattolico conservatore e intransigente, pensava di aver previsto, ma del quale aveva poche ragioni per compiacersi.

Chi però al tentativo del comunismo ha creduto, in qualche modo vi ha partecipato, e solitamente senza dare segnali di allarme, ha il dovere di renderne conto, anche a se stesso, di chiedersi se quella sepoltura non sia troppo frettolosa, se non occorre un altro certificato sul rigor mortis. Abbiamo tutti molti argomenti per aggirare l’ostacolo. Del tipo: sono stato un comunista italiano perché era prioritario per combattere il fascismo, difendere la democrazia repubblicana, sostenere le sacrosante rivendicazioni dei lavoratori; oppure, sono diventato comunista quando il legame con l’Unione Sovietica o l’ortodossia marxista erano ormai in discussione, oggi posso aggiungere una circoscritta autocritica al passato e una forte apertura al nuovo. Non basta? A mio parere non basta, perché non rende conto di un’impresa collettiva che, nel bene e nel male, ha coperto molti decenni, e va considerata e compresa nel suo insieme. Non basta soprattutto per trarne una lezione utile per l’oggi e per il domani.
Sento troppi ormai dire: era tutto uno sbaglio ma sono stati i migliori anni della nostra vita. Per alcuni anni, sotto botta, questo misto di autocritica e di nostalgia, di dubbio e di fierezza, soprattutto tra le persone semplici, mi è sembrato giustificato, anzi una risorsa. Ma col passare del tempo, e soprattutto tra intellettuali e dirigenti, mi pare ormai un accomodante compromesso con se stessi e con il mondo. E torno di nuovo e di più a chiedermi: ci sono argomenti razionali e convincenti per opporsi all’abiura e alla rimozione? O quanto meno ci sono buone ragioni e condizioni adatte per riaprire oggi criticamente una discussione sul comunismo, anziché archiviarla?
A me pare di sì.»

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34 Commenti

  1. Grazie di avere ricordato Lucio Magri. Ne sono stato compagno di partito nel gruppo del Manifesto: io giovanissimo militante di base, lui leader fondatore. Sapeva esporre con chiarezza e senso della sintesi concetti complicati ed era spinto da un grande slancio ideale. Voglio esprimere il massimo rispetto per lui e pure per la sua uscita di scena. Un comunista non è uno che considera la vita una valle di lacrime da sopportare con rassegnazione: anche in un momento così drammatico Lucio ha mantenuto un’apprezzabile coerenza.

  2. Il comunista depresso coi dané e la cameriera peuviana va in Svizzera a suicidarsi .. e il vecchietto con 600 euro al mese di pensione sceglie il gas o la metropolitana … noblesse oblige …
    Magari il vecchietto era pure berlusconiano …

  3. Questa notizia mi ha colpito molto. E’ tutto il giorno che ci penso. Nella mia fantasia ho sempre visto Lucio Magri come un vincente: bello, brillante, grande, anzi, grandissimo oratore, intellettuale preparato, passammo insieme un ultimo dell’anno in una grande casa a Canazei, due gruppi di ragazzi che si incontravano, i freaks che seguivano la musica (noi) e gli attivisti del manifesto (loro), in tutto una trentina almeno di persone. Magri era dei nostri, ogni sera si cantava, si suonava, di discuteva. Era come un papà (aveva circa una ventina d’anni più di noi), ascoltava, sempre, era curioso, disponibile. Ho preso quella vacanza come spunto per un romanzetto breve che pubblicai semiclandestinamente e che ora vorrei ripubblicare, ma mi pongo degli scrupoli, perché lui era uno dei personaggi principali, con quegli occhi azzurro-ghiaccio che facevano stramazzare al suolo le ragazze. Era uno della vecchia guardia, da parlamentare dava la metà del suo stipendio al partito (e non guadagnavano come oggi, i deputati), e i “danè” gli venivano probabilmente dalla pensione di deputato, oltre che dalle pubblicazioni (@Massimo), danè che non gli sono certo serviti a combattere la sua morte interiore, che è diventata morte terminale, e nessuno di noi, nessuno può davvero sapere con certezza cosa significhi, in quale abisso si possa sprofondare, essendo qui a scriverne, vivi.

  4. forse il suo unico cruccio sarebbe potuto essere quello di avere tirato fuori dal cilindro,in qualità di primo direttore di Liberazione(un organo decisivo per quella cavalcata),Fausto Bertinotti, personaggio politico dal carisma cristallinp e dall’immenso ego che è riuscito a creare una forza politica numericamente consistente quanto la lega(ma distribuita decisamente in modalità più equilibrata) per il puro piacere di vedersela scivolare ai suoi piedi e scomparire nella cenere dando ragione ai pragmatici.E la sua opzione finale probabilmente è figlia della paura di veder morire dissanguato lo statuto dei lavoratori

  5. Grazie Sparz,

    per questo bellissimo post e per le domande che ti poni.

    Abiura e rimozione, più la prima che la seconda direi, e così a Rimini dove il pci si sciolse, ma soprattutto negli anni che seguirono, fu gettata via un’intera esperienza storica e le ragioni che l’avevano originata e cioè uguaglianza e giustizia sociale senza cui nessuna sinistra è possibile.
    Quelle ragioni sono ancora lì, intatte, e qualcuno dovrà prima o poi riprenderle.

    Maria M.

    (ho visto che c’è un’altra maria e così , da ora in poi, mi firmerò così)

  6. Per il comunismo: nessuna abiura o rimozione. Solo un passo avanti.
    Un certo tipo di comunismo futuro sarà, malgrado e oltre il passato, inevitabile.
    Ma non avrà, forse, niente a che fare con gli apparati del XX secolo.
    A risorse scarseggianti, sarà forse più utile collaborare che scannarsi. Da qui la comunione dei mezzi di produzione. Forse, anzi, nel futuro sarà più necessaria la comunione dei mezzi di de-produzione.
    Bisogna cercare di immaginare il futuro, le mille variabili che influenzano il corso delle cose, prime fra tutte l’aumento terrificante della popolazione e lo scemare delle risorse. Se smettiamo di immaginare o sperare il futuro, con gli occhi del passato o di un presente (questo) oscuro, possiamo liberarci.
    Il comunismo è figlio dell’ottocentesco sogno del progresso infinito.
    Questo sogno si è arenato contro lo scoglio della realtà: siamo in un mondo finito, con risorse finite.
    Il capitalismo, figlio anch’esso dell’ottocentesco bla bla bla, è un osso molto più duro del comunismo. Ma ormai, come si dice, è alquanto tubercolotico.
    Il futuro sarà molto più diverso da come ce lo immaginiamo.
    Lasciamo all’ottocento e al novecento quello che gli pertiene.
    Vediamo cosa possiamo fare just right now.

    Sulla fine di Magri: non c’è discussione sui suoi diritti. Ha fatto benissimo a fare quello che ha fatto, se lo desiderava. La sua è comunque una fine borghese, quella tipica di chi può pagarsi un servizio. Altri non possono.
    Non è un problema questo, è solo una constatazione. Fa parte della contraddizione insita nelle cose. E’ questa contraddizione che ha fatto esplodere il comunismo e che sta facendo implodere il resto.

  7. Io penso che chiunque possa suicidarsi, non c’è bisogno di essere assistiti, ci vuole del coraggio, o una terribile determinazione, in ogni caso se uno lo vuol fare lo fa.

    Non esistono suicidi borghesi e suicidi proletari. Ogni suicidio, comprese le sue modalità, é un mistero e prescinde da tutto, io credo.

    Maria M.

  8. @ Alessandro Magherini ha scritto: “Un comunista non è uno che considera la vita una valle di lacrime da sopportare con rassegnazione”

    Pienamente d’accordo, e non vedo cosa debba avere un comunista più degli altri dinanzi al dramma della depressione. Al riguardo è consigliabile la lettura di “Autobiografia di un baro”, di Luca Canali. Del grande Luca Canali, che non aveva a disposizione neanche il Prozac, poverino. E non è affatto una battuta.

    Inoltre colui che lo ha aiutato a suicidarsi dovrebbe spiegare in base a quale conclusione ha deciso di avallare il gesto. Cioè, non è che tu vai in Svizzera da un medico amico, gli chiedi di somministrarti la morte e lui dice ‘sì, va bene’. Non funziona così.

    Che io sappia, infine, la buona morte si dà agli ammalati terminali nonchè vittime di accanimento terapeutico. Qui ci troviamo di fronte a un poveretto, distrutto sì dalla lunga malattia con dipartita della moglie, ma forse e senza forse ancora salvabile sul piano terapeutico (farmaci più psicoterapia).
    Vista così la cosa rasenta la vigliaccata, da ambo le parti.

  9. @capone, non so come tu ti permetta di pensare e scrivere queste cose: nulla sai della vicenda umana reale di Lucio Magri, nulla sai del suo rapporto col medico che l’ha aiutato, così come non ne so io, naturalmente, e pronunci parole come “vigliaccata”. Parola che forse solo si addice a coloro che appunto fanno ipotesi e trinciano giudizi su una personalità, tra l’altro, così complessa e sfaccettata come quella di Magri, che ha discusso con amici fraterni dei suoi progetti e che su ciò ha meditato lungamente e, non v’è dubbio, in modo assai sofferto.
    Dici che colui che lo ha aiutato “dovrebbe spiegare”, ma quando mai? A chi dovrebbe spiegare, a chi, come noi, non sappiamo nulla di veramente intimo della vita e dei problemi di Magri? Non scherziamo, su.

  10. @ sparzani

    che ne sai tu come funziona la legge in Svizzera? lo sai? se non lo sai non puoi permetterti manco tu di trinciare giudizi su chi avanza dei dubbi legittimi. E questi sarebbero i democratici, ma per piacere.

    Nel mio testamento biologico ho elencato minuziosamente i casi in cui desidero che mia figlia mi prenda e mi porti dove ho degli amici. Se ricordo bene si trovano ad Arzano o a Mugnano del Cardinale ( e chi sa se capisce l’autoironia).

    Tra quei casi non c’è la depressione. Ma scherziamo?

  11. @capone

    considerare una vigliaccata il gesto di lucio magri per te è avanzare dei dubbi?

    Per me è una considerazione , a dir poco, priva di ogni rispetto umano e del tutto superficiale.

    Maria M.

  12. Maria M. ha scritto:
    Io penso che chiunque possa suicidarsi, non c’è bisogno di essere assistiti.

    Cioè, tu che avresti scritto di diverso da me?

  13. Ma non ho detto che è una vigliaccata, non ho fatto una distinzione tra suicidio assistito e suicidio individuale in quanto sono la stessa cosa, in ambedue i casi c’è qualcuno che considera la vita non più sopportabile e questo io lo rispetto profondamente perchè penso costi molto dolore e angoscia.

    Quella mia frase è stata scritta infatti in altro contesto e infatti aggiungevo:

    ” Non esistono suicidi borghesi e suicidi proletari. Ogni suicidio, comprese le sue modalità, é un mistero e prescinde da tutto, io credo.”

    E lo dicevo perchè qualcuno aveva parlato, appunto, di fine borghese.

    Maria M.

  14. @ Galbiati e tutti gli altri

    Ho qualche anno, sono soddisfatto della mia vita e di quanto potrà ancora offrirmi.
    Nel corso della citata ho avuto 3 (TRE) episodi depressivi ( nel 76, nel 90 e nel 2006), ciascuno durato dai tre ai quattro mesi. Mi sono visto la morte in faccia, perchè la depressione è una bestia vigliacca e assassina, ma grazie alle cure, all’aiuto di qualcuno, al caso, a Dio (?) e forse – ma proprio forse – a me stesso, sono riuscito a venirne fuori. Ne sono uscito sempre poi accorgendomi dell’incredibile dolcezza della vita (ma vattene, manco su un romanzo Delly si leggono più certe frasi) sia del notevole salto maturativo che la bestia mi lasciava in eredità.
    Nonostante essa bestia ho avuto – e sono certo avrò ancora, fino all’ultimo mio respiro – esperienze indimenticabili: nel campo professionale, in scrittura, nel sociale e, why not?, sul piano di una forte considerazione sociale, riuscendo quella vita ad assaporarla ( fino alle lacrime, con la stessa voluttà di un neonato che cuccia) ogni volta, sempre sempre, che ripigliavo a percepirne i riflessi. Come e più di un resuscitato ( quando esci dal buio il primo pensiero è di stupore: “Giesù, sono vivo e respiro!”. Il secondo: ” ma quanto è bello, che gioia immensa e sottile questo mio vivere e respirare!”).
    Il che almeno è un risvolto unico e positivo di chi vi incappa.

    Durante la seconda delle tre esperienze depressive, quella rivelatasi la più pervicace, assetata di morte e ultimativa, una mattina alle 9 ( in quelle prime ore del giorno la bestia si produce in tutto il suo cupo splendore) mi affacciai da un muraglione a strapiombo sul mare e col barlume di lucidità che mi era concesso, meditai se lasciarmi scivolare. Non lo feci, sia perchè riuscii a pensare a mia figlia, allora di tre anni, sia per vigliaccheria. Come vedete – sparzani, galbiati, maria e chi sa quanti altri- c’è sempre una vigliaccata alla base di tante scelte.

    Tengo infine a precisare ( e non certo per ansia giustificativa) che l’uso del termine ‘vigliaccata’ si originava soltanto dal difetto di comunicazione sulla vicenda. Non a caso scrivevo: ” vista così (ripeto: vista), la cosa rasenta (leggete bene : “rasenta”) la vigliaccata, da ambo le parti”. Ripeto ancora a beneficio di chi legge poco e in modo sciatto: “rasenta” .

    Fatica sprecata, ritengo, in ciò che ho letto qui sopra a mio carico ho scorto solo il pressapochismo, la sufficienza, l’arroganza, l’ignoranza tipici di chi si sente destinatario di un mandato superominale che non ammette dissidenze. Ma lo sapevo che sarebbe andata così, dovevo saperlo che azzardando certe riflessioni e una terminologia a rischio, specie trattandosi di un personaggio (pace, sempre pace alla sua anima buona) che non si capisce bene per quali reali benemerenze si sia distinto, sarei andato incontro a morte certa.

    Sufficit, vado via da questo luogo orrendo, non vi commenterò più ( sai quanto gliene ne fotte! l’anima mia cattiva sussurra ), e tuttavia auguro bene e pace, specie quella interiore.

    ————————————————————————-

    CHIEDO AL WEB MASTER DI QUESTO LUOGO DI CANCELLARE CORTESEMENTE TUTTI I MIEI COMMENTI APPARSI SU NAZIONE INDIANA DA SEMPRE, CERTO CHE NESSUNO SE LI E’ O LI ANDRA’ MAI A LEGGERE, E TUTTAVIA CONSAPEVOLE DEL MIO INALIENABILE DIRITTO DESIDERIO DI TRONCARE OGNI SIA PUR FLEBILE LEGAME CON NAZIONE INDIANA.

    Carlo Capone

    • Gentile Capone, secondo Sparzani e secondo me la discussione qui sopra è stata sempre civile, ancorché accesa, e non ci sono ragioni per assecondare la sua richiesta. Se partecipa alla discussione, che è una sfera pubblica, è una sua libera scelta.

  15. Carlo,

    non credo di averti offeso in alcun modo e nemmeno frainteso le tue parole, ho preso le distanze da quello che tu hai detto legittimamente e ho espresso, anche prima di leggerti, il mio pensiero su lucio magri e più in generale sul gesto tragico e credo dolorosissimo del suicidio.

    E tu che fai, lanci accuse di pressapochismo, superficialità e arroganza.

    Ma non voglio indugiare ancora su questo, il giudizio molto diverso che io ho dato sul gesto di magri riguarda solo il giudizio su quello e non certamente la tua persona e la tua vita che non conosco e che come tutte le vite ha attraversato momenti di grandissima difficoltà.

    Non so cosa farai, se terrai voglio dire fede ai tuoi propositi, e del resto il tuo rapporto con nazione indiana non mi interessa molto, per ora ti auguro soltanto, e sinceramente, tante cose buone.

    maria m.

  16. @ REISTER

    se intendo bene, Lei scrive: secondo me e Sparzani (poichè) la discussione qui sopra è stata sempre civile, ancorché accesa, non ci sono ragioni per assecondare la sua richiesta.Se partecipa alla discussione, che è una sfera pubblica, è una sua libera scelta

    la richiesta l’ho fatta a Nazione Indiana, con tutto il rispetto per voi due, e perciò domando: siete voi due o nazione Indiana, all’unanimità, ad aver stabilito che non ci sono ragioni per cancellare tutti i miei interventi?

    capisco che lei e il suo amico siete molto indaffarati ma forse un pizzico di maggiore chiarezza non sarebbe dispiaciuto.

    La mia richiesta, è allora utile precisare, era estesa a tutti i miei interventi, non solo questi ultimi. Una ragione concettuale che va oltre questa o quella presa di posizione.

  17. A scanso di equivoci preciso che la richiesta di cancellazione di ‘tutti’ i miei commenti era sì indirizzata al web master Reister ma intendeva, e intende tuttora, implicitamente rivolgersi a nazione Indiana nel suo complesso.
    Dunque la riformulo.

    Carlo Capone

  18. no, tanto è vero che ha risposto dopo, con mail delle 17.13 del 6/12/11.
    Ma non è questo il punto, nella mia risposta a quest’ultima mail scrivevo: ” a dire il vero sarebbe un mio diritto, e non una vs concessione, pretendere la cancellazione dei miei commenti su ni. Specie sapendo di non aver mai arrecato offesa a cose e persone, anzi, di non essere mai stato moderato e in considerazione, infine, di quanto esposto nella sezione Responsabilità del sito, dove si specifica che “Nazione Indiana non è una testata giornalistica”. Non comprendo il motivo per cui ognuno è responsabile di quanto scrive, come è giusto che sia, ma poi non può ottenere che quelli stessi scritti vengano cancellati, sempre che non risultino lesivi, è chiaro. Mi sembra una contraddizione.
    D’altra parte più che chiederlo con pacatezza non posso fare: teneteli pure. Non mi cambia la vita.
    auguri”
    Tutto qui.

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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