La società (digitale) delle arti
Autorevole: qualcuno che goda di grande autorità e prestigio.
Avanguardia: nell’esercito e nella marina, unità militare posta in posizione avanzata a scopo di protezione o di difesa, ma anche gruppo o movimento artistico che sperimenta nuove forme espressive in contrasto con la tradizione e il gusto corrente.
Vorrei cominciare questo mio intervento sulle modificazioni sociali apportate dai nuovi modelli di sviluppo mediatico, considerando questi due concetti, che un po’ di tempo fa hanno suscitato dibattito in rete (vedi l’ultimo numero di « Per un Critica Futura » e la discussione su « Blog e poesia »).
Fondamentali sono, a mio avviso, le premesse semantiche costitutive dei due termini: la necessità, per il primo, di un criterio e di qualcuno capace di essere riconosciuto come autorevole dal proprio pubblico, e la necessità, per il secondo, di una direzione riconosciuta socialmente. Nel caso non si avesse un criterio in base al quale stabilire l’autorevolezza di un’opera o di un artista, o nel caso non esistessero organismi socialmente riconosciuti che si occupino di stabilirla, essa non potrebbe essere. Se la società non avesse una direzione riconoscibile l’avanguardia non potrebbe esistere, non sapendo davanti a cosa, davanti a chi porsi. Storicamente quindi questi due termini si sono sviluppati parallelamente al mondo accademico, costituendo un legame conflittuale, ma che pareva inscindibile, tra artista e studioso.
Nell’ottica tradizionale troviamo dunque legati l’accademico che si occupa della riproduzione sociale del capitale culturale, per dirla con Bourdieu, e l’artista che riesce a comprendere la direzione della società prima della massa dei contemporanei. L’artista, utilizzando la propria arte, rende noto un cambiamento e mette in moto un circolo virtuoso in cui il semplice fatto di descrivere la società e la direzione da questa presa, aiuterà a concretizzare i mutamenti stessi che, a loro volta, saranno premessa per le forme artistiche a venire. L’accademia, in quanto luogo di formazione e di riproduzione del sapere, in quanto depositaria del patrimonio culturale contemporaneo, riveste il ruolo di auctoritas in grado di stabilire quanto il lavoro dell’artista sia conforme e quanto invece no rispetto ai canoni sociali. L’artista non deve essere oltremodo innovativo (pena il non essere socialmente riconosciuto), ma neppure eccessivamente ligio ai canoni presenti (altrimenti i due ruoli sociali, quello accademico e quello di ricerca verrebbero a sovrapporsi). Secondo questo pensiero esiste dunque un circolo interpretativo tra artista e società, tra arte e cultura di massa mediato grazie alla struttura scolastica. Esso ha funzionato per lunghissimo tempo, ma siamo ancora capaci, oggigiorno, di dargli un senso? E in caso la risposta fosse positiva, come rappresentarlo?
La società moderna è estremamente più complessa rispetto a quelle del passato. Non saprei se il termine postmoderno sia già dotato di valore euristico o se ancora dovremmo parlare di modernità avanzata, come propone, ad esempio, Anthony Giddens. Tuttavia è cosa ormai certa che stiamo assistendo ad un decadimento delle élite culturali accademiche poiché la stessa scienza (escludendo forse la tecnica) non è più in grado di fornire modelli che paiano completi e affidabili come in passato per gestire la conoscenza. Il decadimento, tuttavia, dell’attuale metodo di classificazione e gestione del sapere non deve indurci a proclamare la “fine ultima della storia”, l’indicibile perdita di ogni significato. Questo perché il decadimento è proprio di un determinato meccanismo classificatorio, non dell’indefinito numero di tutti quelli potenzialmente elaborabili.
Partiamo dunque dall’assunto del caos quasi incontrollato come prima descrizione che potremmo avere della nostra situazione attuale nel mondo dell’arte e della cultura. La società moderna non avrebbe più una direzione, non una sola almeno, e sarebbe meglio rappresentabile come un rizoma, per usare i termini di Deleuze e Guattari, o come un ipertesto talmente esteso in cui, anche nel migliore dei casi, l’aspirazione di un ordine non possa ambire che alla nostra limitata cerchia di contatti, di studi, di conoscenze. Non possa in conclusione che essere un ordine personale, soggettivo. Una visione collettiva sarebbe di conseguenza impossibile. Al massimo si potrebbe cercare di far convergere una somma di movimenti individuali da considerarsi altrimenti come rigorosamente casuali.
Ampliando il ragionamento alla società intera non credo sia difficile sostenere come oggi lo sviluppo sociale non sia guidato da nessun attore consapevole. La precarietà, la commercializzazione intima di ogni momento delle nostre vite, i movimenti politici, le crisi e le guerre persino, non sembrano essere totalmente controllabili da nessun soggetto particolare. Ieri il ruolo dell’intellettuale era quello di fungere da guida agli altri e per assurgere a questo ruolo egli doveva, in precedenza, essere riconosciuto dagli organismi sociali dediti alla riproduzione culturale. Oggi sia questa consapevolezza che gran parte della forza detenuta dalla struttura accademica sono andate perdute. E viene lecito domandarsi quale ruolo possano gli intellettuali assumere per poter nuovamente determinare un qualche senso al proprio agire. E a chi devono essi rinvolgersi per essere investiti di questo stesso ruolo? Riprendendo un pezzo di Andrea Inglese apparso su NI e che ben descrive la crisi del ruolo intellettuale possiamo ritrovare i due momenti di questa crisi:
“Nella storia di questa ‘perdita di potere’ (che è qualcosa di diverso della semplice perdita dell’aureola di cui parlava Baudelaire), le avanguardie, e la stessa nostra più recente neovanguardia, sono state degli episodi cruciali. Prendiamo quest’ultima. In essa, si avvertono due momenti: uno è quello di lucido disincanto nei confronti delle prerogative legate al ruolo di intellettuale-letterato. (‘Il «mestiere» del poeta adesso è quello di negare – mediante il proprio lavoro – quella situazione di privilegio che i poeti di ieri, facendo testamento, hanno lasciato in eredità ai poeti di oggi.’ In Poesia apoesia e poesia totale, di Adriano Spatola, apparso in “Quindici”, n. 16, 1969.) Il secondo momento, mi sembra legato a una sorta di non consumata volontà di potenza o, in termini più prosaici, a un’esigenza di riscatto. L’intellettuale-letterato si trova sospeso tra due universi, due disparate e ambigue clientele, la borghesia e il partito dei lavoratori. In nessuno dei due universi trova il proprio spazio più idoneo, né gli viene proposto di crearselo liberamente. L’intellettuale-letterato diventa avanguardista nel momento in cui si rende conto che nessuno, in realtà, chiede un suo contributo alla costruzione della società attraverso la sua opera letteraria. O meglio, i borghesi non gli chiedono nulla, perché sentono che i veri giochi si fanno altrove e grazie all’intelletuale-scienziato, l’unico che ormai veramente conta. All’intellettuale letterato il partito chiede ancora molto, ma per metterlo al servizio delle sue bizantine strategie culturali.”
Crisi, quella che descriviamo, che ha portato, come reazione alla precarietà di questi statuti, alla ricerca di una qualche nuova posizione in seno alla società, anche a costo di negarla totalmente, anche a costo di rendere il cambiamento stesso unico fine possibile. Cambiare per cambiare; cambiare per dimostrare di esserci ancora e per sbattere in faccia a tutti il proprio voler avere ancora un ruolo. Una volta terminato questo movimento, una volta teorizzata l’eversione per l’eversione, la fine un po’ anarchica di ogni preoccupazione sociale che non sia il destabilizzare le già fragili radici della poetica così come delle istituzioni, cosa resta?
Quale deve essere oggi il ruolo degli intellettuali e delle avanguardie, di coloro che sono davanti agli altri anche nell’uso di nuove tecnologie, di nuovi modelli? In una società che sembra non avere una direzione, o almeno non pare averne una soltanto, è teorizzabile una molteplicità d’avanguardie diverse, è teorizzabile una possibilità di modificare il corso delle nostre vite che non dipenda da una nuova tecnologia o da un cambiamento del tasso di sconto di una banca centrale? La sola via d’uscita preventivabile credo sia la costituzione, da parte degli artisti, di una nuova autorevolezza diretta tra loro e il proprio pubblico di riferimento. Autorevolezza diretta che sola può ridare senso anche al termine avanguardia, rimettendo in posizione avanzata l’artista in rapporto non all’intera società, ma semplicemente all’insieme dei prossimi che gli riconoscono questo ruolo all’interno di una determinata posizione del rizoma. La tecnologia digitale, se ben utilizzata, può favorire questo tipo di incontro.
L’artista potrebbe dunque costituire un legame diretto con il proprio pubblico, passando in tal modo da un ruolo negativo, dato dalla sfiducia che la mancanza di riconoscimento ufficiale ha creato, ad un ruolo positivo. Positivo perché, all’interno di una società dei piccoli numeri l’artista deve essere conscio che solo grazie al proprio lavoro e al riconoscimento di questo da parte del proprio pubblico diretto, non importa quanto esteso, egli potrà nuovamente fregiarsi del ruolo che ritiene suo. Una posizione di questo tipo credo che permetterebbe di superare i limiti incontrati storicamente dalle avanguardie artistiche nei confronti della società contemporanea. Questa posizione potrebbe ridare slancio a quell’idea dell’intellettuale come colui in grado di leggere il presente e preventivare mondi possibili, contribuendo al cambiamento invece di esserne semplice vittima o commentatore.
Non si tratta certo di un manifesto, ma di una linea base di discussione. Se vogliamo ricreare il ruolo per certe figure forse dovremmo partire da qui, dalla coscienza della progressiva perdita dell’autorialità riconosciuta dalle istituzioni sociali per concentrarci sul trittico creatore – opera – fruitore, che solo può continuare a giustificare l’esistenza di certi modelli espressivi.
Quale dunque il ruolo dell’autore, dei mezzi e del pubblico nella nuova « società digitale delle arti »? Come cercare di comprendere il processo d’emergenza di forme indipendenti di creazione e distribuzione in un mondo, come quello di Internet, sempre soggetto a cambiamenti inaspettati?
Nel 1962 usciva Opera Aperta di Umberto Eco. Pubblicazione che avrebbe provocato un’interminabile serie di discussioni e dischiuso, per la prima volta in maniera sistematica, una nuova strada per l’estetica e la poetica. Quello che gli artisti già facevano da tempo cominciava a divenire un paradigma epistemologico e così come il mondo perdeva l’apparente direzione in precedenza riconosciuta, lo stesso avveniva con la nozione di significato dell’opera d’arte. Da allora molte cose sono cambiate e dal concetto di contrattazione tipico della comunicazione umana e dai livelli di apertura che questo permette, sono nate le varie branche di una nuova scienza, quella semiotica. Indiscutibilmente di moda durante gli anni ruggenti dello strutturalismo, la semiotica ha conosciuto un grande sviluppo fino a conoscere la sua prima crisi di crescita. Oggi infatti, mentre i suoi strumenti sono ormai utilizzati in tutte le scienze umane, la disciplina madre, lasciata un poco da parte, vive una crisi di rinnovamento. Così, mentre gli studiosi di semiotica si presentano sempre meno baldanzosi a congressi e conferenze, il prodotto dei primi decenni di studio giunge persino ad insinuarsi all’interno del senso comune, contribuendo a modificare la percezione dell’arte e della comunicazione in maniera del tutto imprevista rispetto al passato.
Utilizzo proprio il termine di senso comune per mostrare l’abissale differenza che si potrebbe notare nel caso si avesse una discussione sull’arte con un passante di media cultura oggi rispetto anche ad un accademico degli anni ’60. La pluralità delle interpretazioni possibili all’interno di un’opera infatti, la molteplicità dei piani di lettura è un qualcosa di ormai socialmente accettato che ha portato non poche modificazioni a tutti i livelli che entrano in contatto con la produzione, con la distribuzione e con il consumo di prodotti artistici. Alcuni tra i concetti maggiormente riformulati o in corso di modificazione sono quelli di “autorialità”, di “originalità”, di “contesto” che andrò qui di seguito a trattare brevemente. Il cambiamento culturale legato a questi termini non può che incidere profondamente e modificare alla base gli stessi concetti di opera d’arte e di artista.
Si è a lungo ritenuto che l’arte fosse tale a prescindere dal contesto di fruizione. Qualche tempo fa, un esperimento condotto dal Washington Post (ne trovate un lungo riassunto su La Repubblica) con la partecipazione di Joshua Bell ha dimostrato ancora una volta il contrario. In breve Bell, che attualmente è forse il più quotato violinista classico, è stato condotto a suonare per un’ora all’interno della stazione Enfant Plaza del metro della capitale federale americana. Il giovane violinista, si presenta vestito in maniera casual, si siede davanti ad un cestino dei rifiuti all’ingresso della stazione, prende in mano il suo Stradivari del valore di qualche milione di dollari e inizia ad eseguire un repertorio di grandi classici, partendo dalla Ciaccona, dalla Partita n.2 in Re Minore di Bach, uno dei più conosciuti e difficili brani per violino. Bell proseguirà interpretando brani di Schubert, Massenet, Brahms e se ne andrà dopo aver suonato per un’ora, dopo aver visto passare un migliaio di persone che, in gran parte, non hanno riconosciuto né lui né il suo talento e con 32 dollari di elemosina in tasca. All’interno di un frame non convenzionale l’opera d’arte non è stata in questo caso riconosciuta. Da questo e tanti altri esempi simili possiamo trarre la conclusione che il riconoscimento di un testo come opera d’arte non derivi esclusivamente dalle caratteristiche intrinseche all’opera, ma anche dal contesto culturale di fruizione. Un’autorità, un’indicazione, un soggetto che siano socialmente dedicati al riconoscimento e alla diffusione di quanto viene ritenuto artistico parrebbe di conseguenza necessario per darci quello statuto di fiducia e qualità che ci permette facilmente di etichettare una produzione come opera d’arte.
Eppure abbiamo descritto sopra la crisi che stanno vivendo le strutture socialmente dedicate a questo processo, delle quali, anche una volta riconosciuta la fallibilità e la mancanza di criteri oggettivi per riconoscere il valore artistico, continuiamo a sentire il bisogno. Questo contemporaneo processo di disgregazione e necessità crea automaticamente un bisogno che le vecchie strutture sociali non sembrano più in grado di colmare, rendendo necessario un nuovo modello di organizzazione che possa perpetuare il processo di framing necessario al riconoscimento e alla riproduzione del fenomeno artistico sociale.
La perdita dell’originalità dell’opera è un’altra delle misteriosamente recenti rivelazioni del consesso culturale ed estetico. Le opere, spesso, presentano un grado limitato di novità. Nonostante questo si è a lungo difesa una posizione assurdamente estremista secondo la quale un autore sarebbe un genio creatore capace di cogliere nell’infinito assoluto brandelli di verità, inattingibili altrimenti, e di mostrarli a tutti noi. Perché questa nozione, che chiamerò di originalità limitata, sia entrata a far parte delle discussioni dei più è stato necessario il passaggio dal mondo analogico a quello digitale.
Proprio questo passaggio ha definitivamente unito due universi che sembravano tremendamente distanti, quello degli oggetti e quello delle scritture. Questo ha provocato un inserirsi delle scritture all’interno degli oggetti e viceversa, creando tutta una sorta di strumenti ibridi ben descritti ad esempio all’interno di Le interfacce degli oggetti di scrittura di Alessando Zinna e sui quali si basano anche le mie attuali ricerche. L’unione dunque tra l’azione e il pensiero si è sviluppata lungo un nuovo asse che facilita in maniera incredibile il rimescolarsi dei linguaggi. La facilità d’accesso a tali tecnologie e la semplicità di utilizzo delle stesse ne spiega il rapido successo non solamente a livello degli artisti (che restano tuttavia avanguardisti per eccellenza nel campo), ma a livello, per la prima volta, popolare.
L’infinità di creazioni nate dalla modificazione di corpus esistenti, la mania dei mash-up, dei remix, delle autoproduzioni indipendenti ed ironiche che fanno il successo di ambienti digitali quali Myspace o Youtube ne sono lo specchio principale del successo. Ognuno oggi può ambire a divenire artista con uno sforzo minimo. Un computer è presente ormai in ogni casa del mondo occidentale e i software per tagliare, incollare, mescolare e rivoltare documenti digitali sono di facilissima utilizzazione. Il risultato è stato doppio. Da un lato abbiamo una produzione culturale immensamente più libertaria ed espansa rispetto al passato, essendo crollate tutte le principali barriere all’accesso, costituite dalla necessità di un poter fare e di un saper-fare principalmente manuale. Dall’altra abbiamo assistito, invece, ad un crollo verticale della qualità generale del prodotto artistico, proprio per via della mancata coscienza in tanti, di quanto stia dietro questo tipo di produzione. La maggior parte dei presunti artisti di oggi, manca del necessario bagaglio per svolgere questo ruolo con una qualche coscienza. Vedremo come, secondo il mio punto di vista, la rivoluzione digitale può, in gran parte, porre rimedio anche a questa difficoltà, se avvicinata con il giusto spirito critico.
L’esplosione dei contenuti presenti sul mondo digitale ha inoltre, e direi quasi ovviamente, mostrato tutti i limiti di un concetto che è stato stabilito per legge piuttosto che in base a criteri socialmente riconosciuti: l’autorialità. Stabilita grazie all’invenzione dei diritti d’autore l’autorialità, così come la maggior parte di noi è ancora abituata ad intenderla, è creazione abbastanza recente, tipicamente occidentale e relativamente ambigua. Il nuovo mondo sorto su nessuna terra che non sia quella in cui i server hanno luogo, mondo ancora abbastanza anarchico e anche per questo ricchissimo di spunti, non la riconosce e se ne burla a viso aperto nonostante i ripetuti interventi dei legislatori nazionali che cercano, finora con scarso successo, di regolamentarne la vita.
Il grande cambiamento che la società digitale ha apportato, anche nel mondo delle arti, è quello del passaggio da una società della carenza ad una società dell’abbondanza. All’interno del primo modello le risorse scarse vengono selezionate e gestite da un’apposita élite dedita alla bisogna che provvede poi a distribuirle. Una società dell’abbondanza salta direttamente questo passaggio e mette tutto sul tavolo del pubblico possibile. Nasce così la grande ed eminentemente nuova problematica per cui mai il nostro tavolo potrà contenere tutto quanto vi viene quotidianamente riversato sopra, rendendoci implicitamente inadeguati al nostro tempo, come intuito da Georg Simmel con innegabile lungimiranza già oltre un secolo fa.
Proprio questa ancora inusuale abbondanza, legata alla facilità della manipolazione del formato digitale, è la causa principale della perdita dell’autorialità. Da un lato è divenuto evidente come la marca dell’autorialità non sia altro che il saper costruire un percorso personale attraverso gli incontri susseguitisi all’interno della propria vita, un saper mettere un ordine, un saper tenere un filo conduttore all’interno della molteplicità del reale. Dall’altro ha creato l’opportunità di lavorare in maniera creativa sul prodotto altrui, che altro non è che la riproduzione in piccola scala del fenomeno precedente. Se nel primo caso, all’interno di un’opera di grande respiro, diviene praticamente impossibile riconoscere ogni fonte, diversamente incontrata durante il corso della nostra vita e che ci ha portato a creare quei precisi collegamenti e pensieri, nel secondo caso invece il problema si pone in maniera diretta e precisa: chi è l’autore, ad esempio, di una poesia riscritta ironicamente, ma fedelmente all’originale? Chi è l’autore di un video musicale a cui è stata cambiata la partitura sonora per ottenere un effetto straniante? Chi l’autore di un mash-up musicale? L’autore dell’opera originale oppure colui che l’ha creativamente distorta? E se rispondessimo che è il primo, cosa dovremmo pensare di Leopardi che citava, invertendo, le magnifiche e progressive parole del genero?
Anche qui credo dovremmo stabilire un criterio contrattuale in base al quale riconoscere un plagio da una nuova creazione, e questo limite, che sarà sempre e comunque oggetto di dibattito, non può che essere ambiguo, come del resto è sempre stato. L’unico metro di giudizio è il nuovo, il nuovo che un’opera sa apportare rispetto alla precedente. Se, socialmente, questo nuovo è riconosciuto, l’opera acquisisce un proprio valore di unicità e artisticità dovuti all’artista in questione.
L’assumere questa posizione mi porta inevitabilmente ad assumerne una seconda, indissolubilmente legata: un’opera non trasmette un significato preciso (con buona pace dell’autore), ma comunica piuttosto quali NON devono essere i suoi significati, lasciando una grande libertà all’interprete. La differenza tra opera d’arte e comunicazione quotidiana potrebbe anche essere ridotta a questo. La comunicazione giornaliera cerca di descrivere il mondo riducendo quanto espresso ad un solo significato plausibile, al fine di far passare un determinato messaggio, e solo quello, alla controparte. Al contrario l’opera d’arte, pur mantenendo dei forti vincoli riguardo quello che non vuole dire, lascia al proprio pubblico una libertà molto maggiore, lasciando che, all’interno delle interpretazioni non contraddette dal testo, ciascuno possa attualizzare quella che ritiene a lui più congeniale. L’opera d’arte contemporanea dunque non soltanto è aperta nei termini preventivati da Eco, ma è anche sostenuta solo debolmente dalla presenza della figura autoriale. Essa è dunque ancora più fragile che in passato dal punto di vista della rappresentatività di un pensiero particolare, e proprio per questo credo sia molto più vicina all’universalità del pubblico cui essa è proposta. Questo mi pare ancora più evidente proprio nel mondo digitale, in cui stabilire la provenienza prima di qualsiasi documento è estremamente complicato, in cui le modifiche si sovrappongono e spesso di sostituiscono alle precedenti, in cui restano solamente l’opera (sarebbe forse meglio dire “le opere”) e il loro pubblico.
Questo processo di perdita: perdita di direzione sociale, perdita del ruolo autoriale, perdita dell’originalità stessa dei prodotti, perdita, spesso, del fine ultimo della produzione artistica e purtroppo, delle esistenze, non è un qualcosa di obbligato, non deriva macchinalmente dalle modificazioni tecnologiche e sociali cui siamo sottoposti. Alla domanda che mi ero posto in principio, ovvero come teorizzare una possibilità di modificare il corso delle nostre vite, di come riprendere un ruolo attivo nel corso degli eventi, mi sento, in piccola parte, di poter dunque rispondere.
A livello artistico e intellettuale un ruolo attivo può essere recuperato passando dal rapporto tradizionale tra artista o intellettuale e pubblico ad un nuovo rapporto tra questi due poli. Tradizionalmente infatti questo rapporto è sempre stato mediato da strutture create appositamente. Strutture che si basavano su un rapporto di fiducia univoco da parte del pubblico nei confronti della struttura produttiva. Il “è vero, lo ha detto la televisione” per intenderci. Oggi credo si senta la necessità della creazione di un rapporto di fiducia reciproca, di un doppio patto fiduciario, come scriveva poco tempo Antonio Sofi pur in tutt’altro contesto. La frequentazione diretta tra l’artista e il proprio pubblico attivano un rapporto diverso rispetto a quello precedentemente instaurato tra il pubblico e gli organi sociali dediti alla riproduzione culturale. Un doppio patto fiduciario è più difficile da attivare rispetto alla fiducia che viene data per abitudine (spesso diamo fiducia per pagamento, il biglietto, un prezzo ci bastano per questo) al soggetto già socialmente riconosciuto, ma una volta attivato, proprio per via dello sforzo maggiore richiesto, è più forte. Più forte perché viene a legarsi, in maniera doppia ai contenuti e alla persona in questione, più forte perché si nutre di tutto il processo che è stato necessario all’attivazione, e che potremmo considerare alla stregua di una conversazione, di un dialogo che è sempre base necessaria.
In un momento storico dunque, in cui la riproduzione materiale del sapere non è più legata a grandi enti, né per motivi economici (la produzione seriale ha ormai costi equiparabili alla produzione on demand) né per motivi fiduciari, credo sia giunto il momento che sia gli intellettuali, sia gli artisti, prendano maggiormente in mano la propria produzione, distribuendola il più possibile in maniera autonoma e mantenendo e cercando il dialogo con il proprio pubblico di riferimento. In un momento storico in cui le istituzioni sociali sono in crisi, nuove istituzioni hanno la possibilità di nascere e di guadagnarsi sul campo la propria rispettabilità, andando a colmare quelle lacune che le prime non riescono più a scorgere, perse alla ricerca della citazione aggiuntiva, dell’utile ad ogni costo.
Non si tratta di mettersi a fare proclami utopici o di lanciare crociate contro l’establishment culturale, si tratta semplicemente di prendere atto che una comunità come Nazione Indiana, o chi al suo posto, potrebbe produrre direttamente quanto i suoi autori pubblicano in mille altri luoghi, potrebbe gestire autonomamente la propria produzione, non semplicemente in versione digitale, ma anche nel tradizionale formato cartaceo. Le capacità intellettive e manuali necessarie sarebbero certamente presenti e se qualcuno potrebbe rivestire la figura di editor, qualcuno avrebbe le capacità per esserne l’illustratore e via dicendo. Ogni scusa di impedimento da parte del mercato verrebbe meno e la maggior spesa del prodotto finale sarebbe compensata da un lato dalla produzione secondo le richieste (non produrre più di quanto si vende effettivamente, eliminando o quasi l’inquietante termine di magazzino) e dall’altro dalla non necessità di produrre un utile il più alto possibile. Ad ogni costo.
Sono fermamente convinto che il dialogo che precederebbe, che sarebbe alla base della stessa produzione culturale, creerebbe le condizioni necessarie al successo del prodotto e che questo modello, intendiamoci complementare e non sostitutivo di quello editoriale classico, dovrebbe in breve tempo essere preso in considerazione anche dai distributori tradizionali e finirebbe in libreria, nel negozio di cd, nelle esposizioni, esattamente come succede attraverso il metodo convenzionale.
L’autore che si ritrova a produrre nel mondo digitale delle arti deve quindi fare professione di umiltà, ammettendo chiaramente di non sapere, di non poter gestire quanto quotidianamente gli piove addosso dal mondo, ma continuando a tracciare ipotesi e vie possibili per la ricerca dell’essere, continuando a saggiarlo, cercando di coglierne le aperture senza sosta.
L’autore che si ritrova a produrre nel mondo digitale delle arti deve quindi ricostituire quel contatto con il proprio pubblico, farlo in maniera diretta e personale, cercando nel dialogo la soluzione alla crisi di affidabilità che la società gli pone davanti. E deve farlo perché se crea, crea sempre per qualcuno e ogni atto non può che fare parte di questo.
L’autore che si ritrova a produrre nel mondo digitale delle arti deve quindi porsi il fondamento etico della ricerca per ridare un senso al proprio ruolo e sapere che esso non prenderà forma in base al riconoscimento di qualche accademia, ma più semplicemente in base al riconoscimento dei propri lettori.
Oggi un intellettuale, un artista non sono più tali in quanto pubblicati o esposti da qualcuno di noto proprio perché queste istituzioni ormai mancano di senso, un intellettuale o un artista divengono tali quando qualcuno comincia a riconoscerli in questo ruolo, al di là del numero più o meno espanso di chi lo pensa. Questo deve rappresentare il passaggio dalla società unidirezionale dei grandi a quella rizomatica dei piccoli numeri, e non credo si tratti tanto di volontà progettuale quanto ormai, semplicemente, di riconoscimento di uno stato di fatto. Le tecnologie digitali, oltre ad esserne causa, possono anche rivelarsi utile strumento di gestione di questo nuovo sistema.
(Foto A Inglese)
Il principio di autorevolezza è crollato il giorno in cui si è introdotta l’idea di democrazia nelle Università, nel 68. Da allora l’Università è ridotta a diplomificio. L’irruzione del divenire, annunciato da Nietzsche ha fatto del sapere non più un punto fermo. Chiunque ha diritto ad avere opinione su qualsiasi argomento. La doxa invade tutto e il sapere non è più certo.
Parlare oggi ancora di avanguardia sa di romanticismo. Non c’è nessuna avanguardia. Il ruolo dell’intellettuale contemporaneo è quello della sua affermazione, non c’è più una dimensione della polis. Ciò che cambia in bene o male il mondo sono solo le narrative scientifiche. La poesia e la letteratura sono ridotte a diversivo per far passare il tempo, non hanno più alcuna capacità di incidere nella società. Non è un caso che i libri che muovono interesse e mondo sono solo quelli scientifici. Solo quelli scientifici sono capaci e non tutti di spostare la soglia di interessi. Quando l’Adelphi ha pubblicato Konrad Lorenz non c’era un solo libro di etologia in giro. L’etologia non era riconosciuta come una disciplina importanyr, tale da interessare moltissimi lettori. Dopo la pubblicazione di Lorenz le cose cambiano. Cosa fare? allora? Bisognerebbe che i narratori si confrontassero con mezzi adeguati con le narrazioni scientifiche. Non basta la critica filosofica alla scienza e alla tecnica. E’ roba per specialisti. Diverso sarebbe il caso se chi ha abilità di narratore, scrivesse criticamente sulla scienza. Naturalmente uno può continuare a scrivere romanzi d’amore, ben sapendo perà che è un passatempo per se e per il lettori (che non si sposteranno di una virgola dal loro modo, imprinting d’amore).
Quando parlo di mezzi adeguati degli scrittori, mi riferisco alla necessità che le regole dell’induzione ipnotica (che costituiscono la programmazione neurolinguistica) vengano applicate nella stesura del testo letterario. Allora sì che la scrittura verrà trasformata. Chi narra deve prendere consapevolezza di come la scienza crea i contenitori esperienzali e imparare conseguentemente. Occorre che chi scrive si occupi di linguaggio neurrsensoriale e innovi il modo di narrare. In caso contrario continueremo ancora a sentire parlare a vuoto del ruolo dell’intellettuale.
Questo post è talmente semplice che persino un bambino di 5 anni lo capirebbe.
Andatemi a chiamare un bambino di 5 anni!!!
[…] Oggi stato pubblicato un mio intervento sul blog collettivo Nazione Indiana. […]
Innanzi tutto i miei complimenti all’autore perchè è raro leggere un articolo così stimolante e chiaro su questo ordine di problemi. Avrei tuttavia una domanda relativa al passaggio in cui dici che l’attuale situazione sociale e culturale non è guidata da nessun attore consapevole. Ciò è vero naturalmente e da un certo punto di vista questo significa che la situazione è confusa e perciò ottima, ma pure esistono logiche dominanti di mercato nella società che spingono i singoli operatori a comportarsi in maniera molto conformista. Non pensi che queste logiche saranno quelle che determineranno il nuovo giudizio di valore su ciò che è estetico o meno, sostituendo il criterio dell’originalità con quello della comunicatività?
Giorgio Mascitelli
quanto ai procedimenti su materiali “originali” (campionamenti, remix, cut/up, ecc.) di cui parla Morgagni, citando ad esempio “You Tube”, guardatevi assolutamento il lavoro di questo sito francese:
“Polemix et la voix off” : polemix et la voix off
un lavoro raffinato, cattivo, anonimo: che statuto dargli?
Giorgio Mascitelli
Oggi quelli che esercitano il potere non osano esporsi. Mostruosa la loro faccia. Pochi primi piani. Molte scene audaci. Effetti speciali. Girate dalle loro controfigure. Intrattenimento. Viviamo in un mondo di cloni. La sola luce è quella dei riflettori. Televisivi.
Il futuro sarà dell’accessibilità. Morti i grandi vecchi, non saranno girate nuove pellicole con nuovi attori protagonisti. Vivremo del loro mito. Saranno la nostra genesi.
Caro Giorgio, sinceramente penso di no.
Penso che le logiche dominanti di mercato non possano stabilire autonomamente nuovi giudizi di valore per due motivi complementari.
In primo luogo perché i giudizi di valore estetici si basano su una indefinita, inesauribile, molteplicità che non può essere ridotta alla logica della comunicazione essendone l’opposto. La logica di mercato, come quella comunicativa, è riduttiva, tende a minimizzare il numero delle variabili in gioco. Questo significa proporre soluzioni ai fenomeni attraverso un numero ristretto di categorie.
Per fare un esempio pratico e molto stupido sarebbe come vedere una pentola sul fuoco e pretendere di spiegare l’acqua che bolle con il solo fatto di aver posto in quel determinato luogo la pentola (senza considerare il ruolo del calore quindi).
Inoltre parto dall’idea, cara a Lotman, secondo cui gli universi di senso convivono tra loro secondo un’ottica biologica. Questo vuol dire che la significazione umana, ai miei occhi, si basa su un continuo divenire che vede al centro l’ottica dominante e alla periferia quelle rifiutate. L’unico percorso preventivabile è quello dalla periferia verso il centro in fase di ascensione e quello contrario in fase di declino. Ciò significa che appena l’elemento dominante assurge a tale ruolo, entra in declino e sarà presto sostituito da un nuovo paradigma non preventivabile a priori.
Non escludo che in alcuni casi gli “operatori conformisti” possano in parte indirizzare i gusti, ma ritengo che questa azione derivi dalle molto più complesse pratiche di emergenza del senso descritte sopra piuttosto che da un’azione pavloviana di volontà diretta.
Andrea Inglese, in questo paese di sepolcri imbiancati, dove oggi il massimo del brivido per gli Indiani sarà discutere se rimuovere o meno il mio post sulla peretta, il sito francese da te postato è futuribile. Forse è il senso della dissacrazione che manca in Italia. Dove non c’è individuazione, i valori del conforme non possono essere messi in discussione. Dove si vive nel plagio delle suggestioni, il valore dell’autorialità è necessario. Un privilegio.
Mi trovo completamente d’accordo con le tue idee e desidero farti i miei complimenti per quest’analisi ineccepibile. È tempo di maturare, di entrare nell’ “età adulta della rete” e smetterla di di giocare con essa a nascondino.
Non ci sono più scuse per non guardare in faccia il pubblico, siamo tutti di scena se lo vogliamo. Non esisteranno mai più rifiuti editoriali o delusioni o rimpianti per non aver avuto la possibilità, almeno una chance….
La grande alfabetizzazione di massa a dato a tutti la possibilità di saper leggere e scrivere, l’informatizzazione di massa dà a tutti la possibiltà di essere autori.
Il mio blog e il sito di Umberto Eco hanno potenzialmente la stessa capacità di penetrazione nelle case di tutte le persone del mondo.
Ad armi pari. Sta a me, adesso.
Tutti scrittori… La morte della letteratura… Viva una nuova letteratura…
da questo punto di vista è un will hunting che scrive qualche dimostrazione in un graffito, finchè non arriva qualcuno che riconosce cosa c’è scritto gli danno pure la multa…un einstein metropolitano.
un ramanujian….
Effettivamente è un post troppo lungo, che poteva essere diviso almeno in un paio di puntate.
Comunque il punto di partenza iniziale, quello dell’autorevolezza nato dalle discussioni attorno al BlogMeeting di Monfalcone, nasceva da un piccolo fraintendimento: io avevo citato la peer review tipica delle riviste scientifiche, che in un certo senso è il contrario del principio di autorità, in quanto si tratta di controllo “tra pari”.
Certo è che il controllo tra pari funziona all’interno di una comunità chiusa (quella della scienza o più in particolare di ogni subspecializzazione), e non è del tutto adeguato a chi in teoria si rivolge al di fuori, come, sempre in teoria, l’artista.
Sul resto, c’è troppa carne al fuoco; per esempio, non sono d’accordo con “stiamo assistendo ad un decadimento delle élite culturali accademiche poiché la stessa scienza (escludendo forse la tecnica) non è più in grado di fornire modelli che paiano completi e affidabili come in passato per gestire la conoscenza”. O meglio: sono d’accordo solo se mettiamo in grassetto quel paiano, perché è solo questione di apparenza. Abbiamo modelli che sono più completi ed affidabili (nel senso della predizione) dei precedenti, solo che inevitabilmente sono più complessi e difficili da comprendere per i non specialisti (essere nati da Adamo ed Eva è un modello molto più semplice dell’evoluzione, eppure è un modello ben poco affidabile).
Si, Stefano. Ti faccio anche notare che oggi abbiamo perso tutti l’aura dell’impenetrabilità.
Compreso Umberto Eco. Insisto. Il futuro sarà dell’accessibilità. Gli invisibili vogliono solo potersi fare carne. Non più fantasmi. Semplici controfigure che ricordino l’eco di un tempo che generava miti. Non persone.
Vincenzo, il dramma è che oggi gli artisti sono tutti lì a cercare di accrescere le loro quotazioni, fittizie, con l’incubo costante di dover legittimare la loro visibilità. Diverso è il discorso per gli scienziati…
Vincenzo, giusto qualche precisazione.
Non ho toccato le discussioni citate all’inizio, Il blogmeeting di Monfalcone, il numero speciale dell’Attenzione perché non rientravano nel merito dell’intervento. Li ho semplicemente presi come sintomo della tensione stabilitasi tra arte (oltrepassando anche la letteratura) e media digitali. Condivido comunque in parte quanto dici a proposito (anche se il discorso sarebbe, credo, estremamente più complesso).
Sulla citazione che estrapoli tengo invece a chiarire il passaggio, evidentemente non così chiaro nel testo.
Non faccio che riportare la mia esperienza dentro i sistemi universitari italiano e francese: l’impressione è che i modelli non possano più essere visti come esclusivi e come siano, in ogni circostanza, limitati. Questo oggi penso sia molto più evidente rispetto al passato.
Fino alla fine del diciannovesimo secolo c’era una certa tendenza a prendere per “vere” e quindi non contraddibili le risposte ottenute. Se questo era certo per la comprensione che potevano avere i non-addetti ai lavori, in parte avveniva anche per gli scienziati stessi che ancora credevano di poter costruire un sistema logico che ordinasse e spiegasse tutto quanto.
Oggi, e prendiamo magari la scoperta dell’equivalenza tra le equazioni differenziali di Schrödinger e la meccanica matriciale di Heisenberg come momento temporale definito, sappiamo che le teorie possono convivere, sovrapporsi, contraddirsi solo in parte, restando sempre e comunque limitate. Questo relativismo lo si vive quotidianamente, si impiega più tempo a scrivere i limiti che a proporre la teoria stessa, ma sta passando anche nel senso comune in cu sii dubita sempre più della certezza e della veridicità di quanto l’accademia dice.
Abbiamo modelli più complessi e difficili, più completi e affidabili nel piccolo, questo è certo, ma in realtà è il modello di conoscenza stesso a essere messo in dubbio nel momento in cui una seconda, una terza teoria possono dare una seconda risposta non meno “vera” della prima. Mi pare ci si avvii verso la molteplicità, e allora sono proprio i termini di completezza e affidabilità assoluta che vanno abbandonati. E non mi pare ci sia, in merito, una differenza sostanziale neppure tra le scienze umane e le scienze dure.
Professor Simone Morgagni, andiamo al sodo. Sintesi. Il pluralismo dei modelli etici è una realtà da decenni. Non in Italia. Neanche in Francia. Di che morte vogliono morire queste due vecchie baldracche? Nessuna propulsione. Nessuna emancipazione. Solo retroguardia. Stasi.
Vorrei per cortesia sapere qualcosa sul pluralismo dei modelli etici. Quali sono? e specificatamente in ambito laico. Cosa s’intende per etica oggi? quali sono i suoi contenuti ed espressioni? Se si parla di modelli si parla con un linguaggio scientifico. Se ancora le parole hanno un senso e una storia.
Da rileggere almeno un paio di volte. Però certe volte servono testi più lunghi del solito, passaggi sui quali riflettere. Ed è certo che lo scambio, il dialogo, la produzione della Nazione, sono concetti tosti ma buoni.
Ci vedrei personalmente anche altro oltre il rizoma. Per esempio capire chi siamo e chi sono questi autori che si fanno pubblico e viceversa. Wreaders, dicono gli americani.
Se non è più soltanto un fatto di ideologia che cos’è questa natività digitale? Cosa riemerge sotto le idee e gli ideali? Quale cultura, quale identità?
Socrate, l’Accademia, e che altro?
un puzzle di “mescolanza tra le arti”, il tutto filtrato da un ragionevole dubbio, sempre ben accetto nel contesto ‘stilizzato’ di un pensiero che
-chiede -di essere tradotto.
ma sempre coerenza è richiesta, quale identità.
L’artista deve trovare la misura, non sua
universale
@Andrea,
ti intendi di elettronica?
:-)
Vi fate troppe illusioni sulla rete. Altro che rizoma. Il web è spesso invece ricalco. Ma l’aveva spiegato bene Deleuze, spesso utilizzato a sproposito come paladino del web. Ma se uno legge Millepiani e Che cos’è la Filosofia ne emerge un Deleuze che è molto critico con l’informatica (sezione prima. Capitalismo e schizofrenia). Le persone non pensano in maniera rizomatica, ma secondo albero-radice. Dovremo ancora aspettare l’entrata massiccia della realtà virtuale per vedere cambiare la mente. L’idea banalotta che abbiamo della mente. Il cervello è una macchina la cui autocoscienza nasce nel linguaggio e il cui scopo principale è drogarsi. La ricerca del piacere. La sua droga perfetta è l’estasi. Il suo modo di operare è per distinzioni (irreali) compiute dall’osservatore che determinano la nascita di domini d’esistenza (mondi). In realtà, nell’esperienza in sé, non c’è possibilità di distinguere tra un’illusione, un’allucinazione e una percezione. Non esiste nessuna certezza percettiva, anzi è la percezione che genera l’esistente. Le distinzioni sono realizzate solo attraverso operazioni sociali, soltanto mediante l’uso di un’altra esperienza diversa che viene usata come criterio autorevole di distinzione meta-esperienzale. Quando la realtà virtuale sarà alla portata di tutti, le persone capiranno. La trance estatica è la prova della validità euristica della realtà virtuale. Entreremo nell’era dell’autoallucinazione consapevole.
“Bell se ne andrà dopo aver suonato per un’ora, dopo aver visto passare un migliaio di persone che, in gran parte, non hanno riconosciuto il suo talento e con 32 dollari di elemosina in tasca.”
A conti fatti, del riconoscimento c’è stato…
“Entreremo nell’era dell’autoallucinazione consapevole.”
lucinamenti
Allucinamenti suona meglio. L’esattezza non è cosa tua carlo. Due a zero e palla a centro. Riprovaci.
Ogni cosa è lucinata.
Caro Luminamenti,
io dico che in quell’era ci siamo già.
Saluti
Domanda: se io guardo un film e mi appassiono alle vicende, soffro per le sorti del protagonista, provo brividi e tensione, non sono entrato in una autoallucinazione consapevole?
Non è che l’era dell’autoallucinazione consapevole è nata nel 1894, con l’invenzione del cinematografo?
Caro Franz dici bene. Anzi, benissimo. Ci sono infatti studi di neuroscienze che illustrano molto bene quello che accade nel cervello nel caso da te descritto. E accade lo stesso leggendo un libro che “ti prende”. E durante una prestazione sportiva.
Pubblicherò prossimamente sul web un saggio non mio ma di Marco Margnelli che esamina anche da questo punto di vista le proprietà costruttivistiche del cervello. Noi, abbiamo ancora poca consapevolezza di quello che ci portiamo dietro nella testa (e nel corpo). Siamo noi a creare il mondo. C’è un’ontologia dell’osservatore che è ancora in gran parte da esplorare. Sappiamo con certezza che durante l’estasi (mistica, non mistica, atea, non atea) l’autoallucinazione raggiunge un livello qualitativo tale che il cervello e il corpo sono totalmente isolati dall’ambiente esterno sebbene chi la prova giurerebbe che quello che vede, sente, percepisce accada fuori. Invece accade tutto dentro. Occorrerebbe riflettere sulle conseguenze sociali di questo fatto.
Diffiderei del solo approccio costruttivista, se no finiamo come su moodle. C’è anche un approccio mentale informale.
inland empire:)
Gina, Inland Empire è la tappa successiva. Agire sugli accadimenti attraverso l’apertura di spazi temporali, senza indugiare estatici nelle allucinazioni.
Lumninamenti, ogni tanto aziona la ventola di raffreddamento.
Franz, con la Rete siamo entrati in una nuova era. Possiamo agire direttamente sulla realtà. Sulla sua rappresentazione. Il cinema è propaganda. La tivvù è controllo sociale. Specie nei paesi dove i sudditi sono a libertà vigilata.
In Italia le cose non accadono realmente. Sono trasmesse in differita.
In generale nel nostro paese si fa un pessimo uso della Rete. È la libertà di parola che manca. La gente non è abituata a proferire verbo. Delega concessa ai più titolati. Agli sciocchi che si affannano a legittimarsi frequentando funzionari assai discutibili. Guardiani dei cessi. Perché loro valgono. Ed è subito pubblicità. L’Oréal. Pausa. Yogurt.
Oh, Alessandro!
Quante sentenze che spari!
:0)
Lo Yogurt prima di tutto!
Chapuce, sì, sono un telespettatore impietoso.
Anche l’amore è un’autoallucinazione consapevole?
Occhio a non finire da Marzullo.
Prima o poi ci vado da Marzullo, vedrai:-)
sento in questo post la mia mancanza…:-) nel senso che ci mancherebbe giusto un mio monologo.
@Franz. Anche l’amore è un’autoallucinazione. Un’autoallucinazione necessaria. Ma siccome ciò che percepisco è ciò che immagino, vi saranno tante forme di amore quanti sono i modi di autoallucinarmi, esattamente come sono tanti i modi che ho per percepire il mio corpo e farlo vivere della sostanza del mio percepire. Percepire è essere.
Così ci sono stimmate che si formano nelle mani e che hanno natura diversa a seconda del vissuto autoallucinatorio.
Se si comincia la vita come parte di un corpo altrui (la madre), l’indipendenza è uno smembramento. Essere in coppia ci fa tornare in mente che siamo anche qualcun altro, che siamo tutt’uno con lui. Come sa chiunque sia innamorato (o in lutto), ciò che chiamiamo con eufemismo separazione è, in realtà, una mutilazione. Crescere significa diventare un arto fantasma; innamorarsi acquisirne uno.
In quanto all’amare, vi è solo una versione: gioia di donare senza aspettarsi nulla in cambio. La forma perfetta dell’autoallucinazione. Che trova la sua espressione più compiuta nell’estasi mistica (non in tutte, perchè l’abbandono totale è rarissimo)
Come acutamente ha detto Eugenio Montale:
Ciò che viene sottratto all’uomo di oggi – da ogni partito, da ogni tecnica, da ogni conservatorismo o riformismo o rivoluzionarismo – è né più né meno che l’amore.
L’ammore.
Signor Luminamenti, espandersi fuori di sè in comunione con l’Infinito è come affogare in un bicchier d’acqua. Soffoco. Meglio una pasticca. Bisogna andare oltre. Lasciarsi risucchiare da un buco nero. Per poi disperdersi nella pura luce. Senza più percepirsi come tale. Quanto alla mistica dell’utero… Beati siano i fecondati in vitro. Se servono a svecchiare l’inconscio delle masse. Profeti.
Morgillo, conosci l’infinito?
(alessandro morgillo
tra le altre cose, visto anche il supporto: digitale, inland empire è l’apoteosi del qui e ora e, nel bene e nel male:), il best of(f) dei filmini di famiglia)
Je est un artre.
A me questo Carlo mi ricorda qualcuno… Mah…
[Frascella e Morgillo la doppia elle al vetriolo.
Impagabili]
E’ vero. Ma spezzo una lancia. Frascella è incazzato nero. Morgillo è pazzo. Personalmente, li adotto. Mi piacciono. Rompono con classe.
che discussione interessante!
per autoallucinarsi basta poco, basta volerlo.
ma questo intellettuale che deve salvare il mondo e farsi guida a tutti i costi mi suona stonato e anche un po’ vetusto.
ma quando mai la parola ha salvato il mondo.
ha salvato chi voleva “salvarsi” ma questi anche senza “salvatori” si sarebbero “salvati”.
è la nostra di “parola” che ci salva, nelle altre ci specchiamo,cerchiamo conferme a quello che siamo, a quello che cerchiamo.
chi cerca trova, ma quando non si sa cosa si sta cercando, le parole sono solo trappole.
tutto il resto chiacchere di millenni.
e internet non salverà il mondo
sono perchè ciscuno si faccia i cazzi suoi, a tutte le latitudini e a tutte le longitiudini.
tanti baci a lumina e ad alessandro che ci ha la sua bella ventola incorporata:)
je suis un artre tres fatiguè:)) chi mi adotta?
Mordillo: FIGO.
ec:morgillo
F. K.: “A me questo Carlo mi ricorda qualcuno…”
Penso che quel qualcuno sia Luminamenti: io e lui infatti siamo ancora in sospeso al post di Raos su Wollschläger, per una scommessa su Zolla di 100 € da devolvere a NI.
@Cosi&come
“Basta vedere i siti di scrittori e artisti”, giusto. Smandrappate di programmazione neurolinguistica, e magari neppure se ne accorgono.
Invece avrai visitato il sito di Accenture. Lì la musica cambia, e molto.
No, non sono io. Non uso altri nick. Non ne ho bisogno. In quanto alla scommessa l’ho vinta. Non ho sospesi con nessuno. Ma non ho ancora ricevuto i soldi. Ma devolvili pure in beneficienza.
Cmq non sono un lui. Sono luminamenti. C’è differenza dalla confidenza.
“In quanto alla scommessa l’ho vinta.”
Sconcertante Lumi! 2 fanno una scommessa, e 1 dei 2 sbandiera di averla vinta. E la giuria? e la democrazia?!
2 fanno una scommessa? e quando è successo? Mi riporti gentilmente citando tra virgolette mie parole in proposito? quando avrei scommesso? hai fatto tutto da solo (non sapendo cos’altro fare). Cifra compresa!
Beh, hai perso ancora una volta. Anche su questo.
E la giuria? magari la vuoi decidere tu no? Infatti è così che avevi fatto.
La democrazia? Beh, date queste premesse ti consiglierei ti seguire un corso accellerato per informarti.
P.S cmq non sono un democratico, né un aristocratico, né fascista, né comunista. O magari vuoi decidere tu a quale regime devo partecipare!
In ogni caso avevi perso perché avevo citato il passo che ti smentiva, quindi nessun nuovo elemento poteva contraddire (naturalmente secondo me, è ovvio. E il giudicarmi da me stesso mi basta) Ma puoi sempre riversare sul web i tuoi scoop senza scommessa. Per smentire non occorre una scommessa. Non scommetto con nessuno per nessuna cosa. Non appartiene alla civiltà della mia cultura. Mi giudico da solo e vorrei che tutti facessero altrettanto. Non c’è bisogno del giudizio altrui. La verità appartiene al segreto del proprio cuore. Inaccessibile a qualunque estraneo.
bravi, non scommetete più!
-le scommesse avvelenano il gioco.-
Buona domenica.
Come amo leggere NI. Questo post poi e’ meglio del libro che piu’ ho amato quando ero una giovine fisica (“La sfida della complessita’” me lo portavo sempre dietro) pieno di interventi, di citazioni interessanti, di strade da percorrere che portano ad altre strade, di pensieri da meditare, di filosofia.
Stamattina non ho ceduto alla tentazione del computer (ormai irresistibile: e’ vero LUMINA: amo drogare la mia materia grigia) ma a quella della lettura di “Di questo mondo e di altri” di Saramago mi trovavo a rimpiangere che il suo non fosse un blog, soprattutto quando in “Una lettera con inchiostro di lontano” dice “Chi scrive penso lo faccia come all’interno di un immenso cubo, dove nell’altro esiste se non un foglio di carta e la palpitazione di due mani veloci, esitanti, ali violente che di colpo cadono di lato, tagliate dal corpo” e quando si chiede chi leggera’ il messaggio dello scrittore.
Il rizoma ricorda la metafora del cespuglio di Gould a proposito dell’evoluzione. Insomma, mi ritrovo molto nell’analisi di Morgagni e la sua proposta e’ fattibile, se si ha coraggio, tempo, disponibilita’ e amore per le sfide e le scommesse. Scommise anche Pascal, ai tempi in altro ambito (anche se io mi rifiuto di entrare nel suo loop argomentativo, ma questo e’ un altro discorso ancora!).
Il fatto che la scienza non consideri le sue teorie complete e coerenti ma solo modelli della realta’ falsificabili e’ ormai acquisito (mi metto a citare il solito Godel ecc ecc) ma non impedisce alla scienza di continuare a esistere. Anche in teatro non si puo’ lavorare se prima non si stabiliscono dei limiti ben precisi, mi sembra!
Ci sono tante cose da dire e da meditare: ottimo post!!
fem
Per quanto riguarda l’allucinazione dell’amore, avete letto “Il barone Bagge” di A. Lernet Holenia?
P.S. mi scuso per aver usato la parola “loop”
L’ho letto. Di Lernet Holenia ho letto quasi tutto.
Ma la sfida alla complessità non è quel libro curato da Mauro Ceruti?
Saramago lo trovo molto originale. Ma l’unica cosa che penso possa cambiare l’uomo è la scienza
@lumina: o yes: Bocchi e Ceruti, ed Feltrinelli, copertina blu ormai sgualcita…
La scienza sta gia’ cambiando tutti. E pervade sempre di piu’ anche l’arte, mi sembra.
La scienza comunque e’ fatta da uomini e da donne (troppo poche), quindi vale anche il viceversa: stiamo cambiando la scienza, la rendiamo piu’ umana, pensa solo all’ecologia, ma non solo.
fem
credo che non ci sia piu’ nessuno che creda alla divisione fra le due culture o che demonizzi la tecnologia o che la esalti… il sistema della societa’ (digitale) e’ cosi’ complesso che e’ inutile cercare una visione dall’alto che lo comprenda tutto
come ben dice FEM: “Scommise anche Pascal”!
“quando avrei scommesso?”, domanda Lumina – peccato che nel commento prima aveva sbandierato: “In quanto alla scommessa l’ho vinta.” Ora, domand io: se uno ha vinto una scommessa, avrà pur scommesso, o no?
Tornando coi piedi per terra, Lumina dice poi: “E la giuria? magari la vuoi decidere tu no? Infatti è così che avevi fatto.” Semplicemente, avevo proposto che i giurati fossero quelli naturali, ossia il postante e il postato del post Wollschläger sotto cui era nata la scommessa: Andrea Raos e Domenico Pinto. Ma non avrei niente in contrario se venisse designato il commissario Linares.
Mi sembrava evidente che quando dicevo: “in quanto alla scommessa l’ho vinta” intendevo solo affermare la sostanza del discorso ironizzando su una competizione che non c’è mai stata. Stavo solo “virtualmente” al tuo gioco. Se avessi pensato di aver scommesso realmente, stai sicuro che ti avrei fatto pagare certamente. Avrei reclamato anzi tempo il tuo debito. Ma se invece di riportare una mia frase avessi riportato tutto il resto della mia proposizione (“Ma non ho ancora ricevuto i soldi. Ma devolvili pure in beneficienza”), avresti capito che c’era ironia. Mi correggo, non è che non l’hai capito, fai finta di non capire perché non sai dove aggrapparti. Aahahah….
Io non ho vinto una scommessa. Ho semplicemente vinto. Prima di scommettere. Dopo, senza scommessa. Senza Scommettere, perché come mi dice il vocabolario Gabrielli significa: sfida tra due o più persone su affermazioni o previsioni contrastanti, per cui chi perde s’impegna ad assolvere una determinata obbligazione.
Bene, data questo significato, io non ho mai scommesso, tu hai solo proposto. E io ho spiegato che non scommetto per principio con nessuno su nessuna cosa.
In quanto al resto, cioè sulla giuria eccetera eccetera, ho già spiegato le mie ragioni sul giudizio. Non ho bisogno di giudici, mi sono giudicato e ho vinto. In quanto alla tua proposta in termini di nomi, se io non ho accettato neanche la proposta che me ne faccio di un elenco di nomi? Avendo vinto, dato che poi tra l’altro non ha i risposto alla mia affermazione, domanda in cui ti chiedevo se quello che avevo riportato era di Zolla o meno, è evidente che già sai anche tu, non avendo risposto alla mia domanda (veramente te ne ho fatta anche qualcun altra), che avevo ragione.
Non rispondendo alle mie domande, figurati se accetto le tue proposte.
Però mi diverto a rispondere a questi tuoi punzecchiamenti, è sempre interessante fare esperimenti per esaminare i neuroni altrui…
Come vedi io tengo sempre i piedi per terra, mentre tu sì che sor-voli sulle mia domande. Io rispondo sempre alle tue osservazioni, tu solo a quelle verso cui credi di poter competere. Invano. Siamo tre a zero. Palla a centro. Riprovaci. Magari prima o poi la fortuna sarà dalla tua parte. A me basta la ragione.
“Non ho bisogno di giudici, mi sono giudicato e ho vinto.”
A quando: “Mi dichiaro prigioniero politico?”
La questione non è “se quello che avevi riportato era di Zolla o meno”, ma se Zolla in qualche parte sputtanò Joyce. Evidentementi ignori, e in più la logica ti fa difetto. La situazione è disperata?
Alla frutta non si comanda.
Disperato? e perché? hai perso.
Vedo che continui ad aggrapparti sui muri lisci. Cmq la questione non era quella che tu ora tiri fuori non sapendo più cosa dire e inventandoti una nuova versione del problema (che esiste solo per te).
Inoltre, il termine sputtanò appartiene solo al tuo modo di considerare la raffinatezza linguistica della critica di zolla a Joyce che fu compiuta come sempre con il suo stile fatto di chiari e scuri che si mescolano e che ho postato. La tua idea di sputtanò mi fa solo pensare a una sottocultura volgare di considerare il dissenso nei confronti di un altro individuo che è negato dall’articolo di Zolla che postai. Lo criticò, non lo sputtanò, è diverso. In ogni caso questo linguaggio non mi appartiene e te lo lascio volentieri. Tu invece di suo, di Zolla, non hai postato nulla.
Infatti hai detto: “la condanna emessa da Zolla: arte degenerata, scrittura da alienato mentale ecc”.
E non hai mai precisato che queste qui sopra, parole che hai scritto tu, sono parole da intendersi come citazioni di parole pronunziate e/o scritte letteralmente da Zolla oppure sono tue parole che deduci dalle tue letture di Zolla. Te l’ho domandato e non hai risposto, hai evitato. Capisco quindi perfettamente quanto ti piaccia il termine sputtanò. Infatti, a rigore, se uno legge quello che tu hai scritto qui sopra riportato, sembra che sei tu a sputtanare Zolla. Lo nomini negativamente senza citare la fonte. Con chi non risponde non tratto.
Subito dopo quest’affermazione fatta da te alle ore 1,34 dell’1 giugno, io ho scritto l’1 giugno alle ore 6,59: “In quanto a Zolla non si esprime come dice Carlo”
Poi hai detto: Io invece sono sicuro che Zolla si esprime così.
E io alle 16,40 ho riportato un passo di Zolla che nega quando tu avevi affermato e che mostra quanto dicevo del modo di esprimersi di Zolla.
La differenza di stile e forma è che io ho fatto un’affermazione e ho postato una parte di un saggio di Zolla su Joyce, tu invece hai affermato una cosa ma non hai portato elementi originari di Zolla. Io ho postato Zolla senza scommettere. Tu scommetti senza nulla in mano. Non si usa nel poker questa tattica?
Invece della verità t’interessa scommettere. Stili diversi. Non mi confronto con chi considera la cultura roba da scommessa. Ti rispondo solo per educazione e perché mi piace studiare le reazioni cerebrali. Ma ormai sono arrivato alla fine del mio studio.
Come vedi se ti vai a rileggere quanto ho postato di Zolla, la questione non è che lo ha sputtanato, ma che ha espresso un’articolata critica, con tanto di motivi, ragionamenti, osservazioni che vanno al di là della persona Joyce. Un giudizio certo negativo ( a ragione)
Per concludere. Almeno io ho intenzione di concludere. Non scommetto, ritengo di aver vinto e nulla ti impedisce (dato che ti senti democratico e colto sopratutto sugli sputtanati) di postare tutto quello che trovi negli archivi sparsi sul mondo. Se t’interessasse la verità più che i giochi degli allibratori avresti già postato quello che pensi di sapere. Ma sei sempre in tempo per farlo. A me però non interesserà. Mi basta quanto ho postato di Zolla al riguardo.
Ma la questione non è (attenendomi a quello che avevi scritto) quella che tu indichi, piuttosto non è mai stata definita. Infatti, non hai precisato rispetto alla mia domanda se le parole arte degenerata, alienato mentale sono parole scritte da Zolla o se sono tue deduzioni. Ovviamente quindi la questione potrebbe, quando fosse definita avere due opzioni. La prima se Zolla ha scritto quelle parole realmente. Oppure, la seconda opzione: se è possibile trarre dalla parole che tu hai scritto e non appartenendo a Zolla, se è possibile ricavarne un senso, relativamente a tutto quello che zolla ha scritto su Joyce nella direzione di un significato come arte degenerata e alienato mentale. Come vedi la questione non è mai stata definita perché ti sei rifiutato di definirla. Hai quindi perso prima di iniziare a giocare. Il tempo è scaduto.
Cara Francesca, non sono però molto convinto che non ci siano ancora steccati tra le due culture. E poi c’è ancora l’opposizione tra fede e ragione. Un certo modo d’intendere la ragione e la fede. Entrambi non mi appartengono. Sì, l’ecologia si occupa da vicino dell’uomo, ma hai toccato un tasto tra i più dolenti. Siamo in un mondo ormai transgenico. E alla salute, cosa umana, non fa proprio bene. Speriamo cmq
speriamo.
Ovviamente ho letto A BALZI (cioe’ una parola a riga) le lunghe disquisizioni precedenti su scommesse varie, pero’ tanto per fare un OT sugli OT: l’anno scorso ho letto “Il dio dell’ebbrezza” di Zolla e dalla mia totale ignoranza (e’ l’unico libro che ho letto di Zolla) ho trovato il saggio interessante anche per i numerosi testi contenuti sulla storia degli stupefacenti di natura letteraria e antropologica.
Il fatto che il frutto proibito di Adamo ed Eva potesse essere un fungo allucinogeno (esiste anche un quadro non mi ricordo dove) o l’ipotesi del falso ipertress in cui di fronte a una grave minaccia psicologica si sviluppano endorfine necessarie a fornire all’organismo quella stabilita’ interna essenziale per la salvaguardia della vita. Cosi’ David Livingstone azzannato da un leone o Hemingway con 227 ferite di mortaio NON sentono dolore sul momento.
O anche il fatto che il nostro organismo sia predisposto a reagire positivamente a situazioni di fatica prolungata (come un lungo combattimento): piu’ combatto e piu’ il nostro organismo sviluppa endorfine per poter sopravvivere. Un po’ come succede nello sport! Ma il motivo e’ la sopravvivenza della specie!
Chissa’ quante endorfine stanno sviluppando Carlo e Lumina in questa sfida telematica.
e cosi’ anche il mio post e’ troppo lungo (colpa di Zolla?)
saluti
fem
Sempre sul libro di Zolla: gli studi sul popolo dei Ghnaua mi hanno ricordato i Gamuna di Celati!
fem
Ti consiglio di leggere Avvicinamenti di Ernst Junger
Allucinamenti, ci sono volte ti trovo più spicotrop* non dico di Leary o di Robbins o di McKenna, ma addirittura di Hofmann e Metzner!
La questione è sempre stata chiara, e non valgono pizzoni alla Pecorelli a mutarne i termini. Copio-incollo dal post Wollschläger
C “la condanna emessa da Zolla nei riguardi di Joyce: arte degenerata, scrittura da alienato mentale ecc.”
L “Zolla non si esprime come dice C. Basta leggersi (tutti) i suoi saggi critici su J.”
C “Sono sicuro che Zolla si esprime così. Per dimostrarlo, dovrei andare in biblioteca: sarei disposto per una scommessa.”
L “Perderesti la scommessa. E’ certo. Ho il testo accanto.”
C “mettete in palio qualcosa, e io recupero le stupidaggini di Zolla su J.”
L “Hai già perso.”
Ogni lettore accorto avrà notato lo scarto tra “tutti i saggi” e “il testo accanto” (tra il plurale e il singolare)…
Sì, la questione è chiara, non sai più che dire. Quello che hai scritto dimostra che ho ragione, come l’ho già spiegato prima. Ogni lettore accorto può andare a vedere nella sezione dove ho postato le parole scritte di pugno di Zolla, tu invece niente. Solo chiacchere e sopratutto non hai risposto alle mie domande. Hai perso sicuramente. Ma visto che ci tieni tanto a perdere tempo a continuare questa discussione, perché non recuperi quello che sai in biblioteca? Penso che ormai anche a te, che non eserciti molto i neuroni, ti sarà chiaro che non scommetto né scommetterò. Se t’interessa tanto far sapere che hai vinto perché non ti chiudi in biblioteca e fai le fotocopie e ce le spedisci?
fra poco parto, quindi datti da fare.
Infatti basta leggersi il saggio di Zolla che ho riportato.
Il saggio di Zolla che hai riportato è uno dei saggi zolliani su Joyce. Evidentemente ignori (tutti) i saggi su Joyce. Io in biblioteca ci vado spesato. Al massimo, se qualcuno (che non sia tu) me lo chiede, gli do gli estremi, e nulla più.
100 €
Evidentemente ignori l’aritmetica e l’insiemistica. L’uno è contenuto nel dieci. Il particolare è contenuto nel generale. Se uno dice: basta leggersi tutti i saggi di zolla, significa che se ne trovo uno soltanto che si esprime in un certo modo, ciò vale per rendere il giudizio complessivo (dei tutti) di Zolla molto più articolato dal punto di vista di ciò che esprime. Dicendo invece che Zolla ha dato come giudizio: arte degenerata e alienato mentale (e non aggiungi altro) tu fai arbitrariamente una riduzione ad un unicum. Il che è scorretto, inesatto per il ragionamento che ho fatto. Escludi arbitrariamente il resto. Fai finta di non vederlo. E’ come giudicare l’opera omnia di uno scrittore leggendo solo qualche libro dell’opera omnia.
Questo è un fatto. Inoltre, rimane il fatto che io ho postato su NI un testo di Zolla, tu no. Tu sei rimasto nel campo dell’ipotesi, dell’affermazione che non hai dimostrato. Io ti ho subito smentito postando Zolla, da cui tra l’altro emerge, da come scrive, che non dice certo stupidaggini. Si può certamente discutere ciò che esprime, ma riconoscendogli intelligenza e cultura. Io sono d’accordo con Zolla al 100%. In quanto alle tue motivazioni sul denaro mi sembrano delle balle, non sai cosa dire e sopratutto ci dovevi pensare prima di scommettere di avanzare affermazioni che non sei o non puoi dimostrare, dato che non è affatto scontato che uno debba accettare scommesse che sai bene tra l’altro che nessuno accetterebbe. Normalmente chi scrive sul web se sostiene una tesi, cerca di portare elementi concreti alla sua tesi, se vuole rendersi credibili. Io l’ho fatto, tu subordini la tua credibilità all’accettazione di una scommessa in denaro. Cosa alquanto sterile e volgare, oltre che priva di qualsiasi logica. Evidentemente non ci tieni così tanto alla verità, o più semplicemente sai già che hai perso perché non è come hai detto, e provi a insistere solo perché sapendo già che io non scommetterò, questo pensi dia forza a una tua credibilità presunta. Personalmente me ne infischio. Credo solo ai fatti. I fatti parlano da solo. Hai perso.
Cmq quando tornerò dai miei viaggi vedrò se ho il tempo di recuperare tutti il lavori di Zolla su Joyce e li posterò io, con tanto di imprimatur di fonte, numeri pagina, dove sono usciti, articoli, riviste, hai bisogno di una bella rinfrescata. Tutto a gratis. Oltretutto mi è vanuto in mente di farlo per altri motivi. Mi hai dato un’idea. Grazie. Tu, suppongo, continuerai a parlare di voler scommettere. Dico bene? non è quello che hai finora fatto?
In quanto alle stupidaggini di Zolla, evidentemente tu ti consideri troppo intelligente per considerare stupidaggini le note di Zolla. Cmq sono molto più di quello che s’immagina, coloro che si sono espressi negativamente su Joyce. Per esempio, il grandissimo Nicola Chiaromonte.
E proprio ultimamente, nel suo ultimo libro, la geniale Lucìa Etxebarrìa.
Bisogna essere più cauti prima di infangare la memoria di gente che si è dedicata alla cultura, sbagliando o meno questo fa parte dell’errore umano.
Il pezzo che ho riportato di Zolla su Joyce dal titolo Joyce e la moderna apocalisse è del 1952, è il primo articolo in assoluto scritto da Zolla come documento critico dell’autore di Ulysses. Fu scritto molto prima che il romanzo venisse tradotto in Italia (Mondadori 1960). La ripulsa era ribadita quarant’anni dopo in un’intervista a Fedora Giordano: Joyce? Io lo stronco (Mondo operario, 3 marzo 1991) Chiunque è così interessato a un approfondimento è in grado di recuperare i testi e leggersi da solo ciò che esprime e come lo dice.
Sempre in quest’ottica di verità per le persone serie e realmente curiose prima dell’uscita nel 1956 del romanzo Minuetto all’Inferno (Einaudi) che gli consentì di vincere il premio Strega come opera prima, aveva già parecchio stampato negli anni precedenti, sulla rivista “Letterature moderne” di Flora e il “Pensiero Critico” di Cantoni, in seguito sullo “Spettatore italiano” e infine a partire dal 1957 su “Tempo Presente”. Erano saggi sui maggiori autori del Novecento, che egli tentava di riunire in una specie di luogo ideale, distante dalle contaminazioni politiche; escluse la presenza, fra loro, di Joyce. Gli scrissero Eliot e Thomas Mann, per consentire. Uscì così un’altro saggio su Joyce dal titolo Joyce o l’apoteosi del fantasticare su “Elsinore” n.4, marzo 1964.
Leggere per credere.
p.s. Verso la fine del saggio Joyce e la moderna apocalisse, Zolla compie un capolavoro della critica, sovrapponendo quasi alla lettera i bisticci verbali ricorrenti in Joyce con la logorrea di un discorso demenziale tratto dalla dispensa di psichiatria consultata da zolla negli anni universitari. Si tratta di quella che si definisce idorrea amenziale.
Come ha detto Cecchi, Joyce scrisse la bieca teologia della coscienza inferiore, l’apoteosi della nausea.
Tutto nacque da un mio commento sotto il post Wollschläger: “Luminamenti ripete la condanna emessa da Zolla nei riguardi di Joyce: arte degenerata, scrittura da alienato mentale ecc.”. Ora Lu chiude la trilenzuolata con: “Zolla compie un capolavoro della critica, sovrapponendo quasi alla lettera i bisticci verbali ricorrenti in Joyce con la logorrea di un discorso demenziale tratto dalla dispensa di psichiatria consultata da Zolla negli anni universitari. Si tratta di quella che si definisce idorrea amenziale.” Ciò nel ’52: non contento ci ritorna nel ’91, con “Lo stronco io”…
Già solo da qui il lettore accorto vedrà con quale correttezza ho riassunto l’approccio di Zolla sin dall’inizio, con quel mio primo commento appunto.
Segnalo altresì che Lumi, pur senza dirlo, utilizza in tutto ciò Zolla-Marchianò, Il conoscitore di segreti, Rizzoli 2006.
Come volevasi dimostrare non hai nulla in mano.
Sei ormai alla disperazione totale, alla frutta. Il dolce lo posterò io, ma per te sarà come il fiele. Che vuole significare che non ho citato la Marchiano?
Perchè vuoi dire forse che il testo di Zolla (che io ho riportato su NI) inserito nel libro della Marchianò (che era la sua compagna e cura la sua opera omnia) Zolla non l’ha scritto? Ma se ho scritto persino il titolo e che è del 1952. Ti butti la zappa sui piedi da solo. Proprio quel testo ti smentisce! Tu per smentire me non hai portato proprio nulla.
Parli di me come se avessi fatto una scorrettezza. Non credo proprio.
Del libro della marchianò avevo già riportato altro.
Inoltre sei tu che hai iniziato dicendo che zolla dice Joyce: arte degenerata e alienato mentale, senza citare la fonte o il benché minimo riferimento da verificare, e di una persona che è morta e non può difendersi (ma se fosse vivo proprio neanche ci penserebbe a difendersi dal nulla) commettendo un atto poco qualificante sul piano etico, della correttezza, facendo credere (non si chi però) chissà cosa.
Chiunque può controllare e leggerselo l’articolo che ho postato e vedere smentito Carlo che a sua ragione non ha portato NEANCHE UNA VIRGOLA DI ZOLLA e nemmeno una virgola delle fonti.
Inoltre vedo che Carlo ignora il ragionamento.
Essendo un autore postumo Zolla, non indicando in quale testo c’è scritto o si deduce l’espressione arte degenerata, alienato mentale, non riferendosi a un testo contemporaneo uscito adesso di Zolla, trattandosi di uno scrittore morto, se si deve esprimere un giudizio su quanto Zolla ha scritto su Joyce, occorre leggersi TUTTI I TESTI CHE ZOLLA HA SCRITTO SU JOYCE, e articolare a quel punto un giudizio complessivo e se si vuole anche sintetico che esprima quello che Zolla intende dell’opera di Zolla.
Ebbene, chiunque può leggersi il testo di zolla che io ho riportato su NI, può cercarsi l’originale in biblioteca, può leggerselo nel libro della Marchianò e vedere smentito categoricamente il giudizio sintetico di carlo che esprime solo superficialità. Se devo giudicare un libro, mi baso su quel libro. Se devo giudicare i giudizi su Joyce di Zolla ed esprimerne una conclusione mi devo leggere tutto ciò che ha scritto al riguardo. Come avevo già detto.
Io ho riportato un testo che vanifica quanto affermato da carlo e in più ho riportato altri estremi di riferimento che ognuno può controllare e vedere smentito quanto affermato da carlo. Per ulteriori informazioni biobiblografiche su Zolla vedere anche nel testo La Religione della Terra RED edizioni.
Verso la fine del saggio Joyce e la moderna apocalisse Zolla sovrappone quasi alla lettera la logorrea dello psicopatico ai bisticci verbali di Joyce.
Lo si può leggere nell’originale o nel testo della Marchianò.
Non fa differenza.
E leggersi tutto il testo su Joyce (da pag 218 a pagina 232 del Conoscitore di segreti) e rendersi conto della superficialità e inconsistenza dell’attribuzione a Zolla dell’espressioni scritte da carlo.
Sovrapponendo quasi alla lettera i bisticci verbali ricorrenti in Lumina con la logorrea di un discorso demenziale tratto dalla dispensa di psichiatria consultata da me negli anni universitari, confermo che Lumina è affetto da quella che si definisce idorrea amenziale.
Carlo S.
PS. Studiai veterinaria.
Come dicevo, ormai hai perso il controllo, la mancanza di serenità e pervieni, non avendo argomenti sulla questione, al livello dell’insulto gratuito. Veterinaria? Poveri animali Hai perso su tutti i fronti, mi spiace per te.
Cmq è una vittoria che non mi rende allegro, quando si vede l’incapacità di ammettere l’errore e deporre l’orgoglio.
SENZA LUCE
di Luminamenti-Zolla
canta Carlo S.
Han spento già la luce
son rimasto solo io
e mi sento il mal di mare
il bicchiere però è mio
cameriere lascia stare
camminare io so
l’aria fredda sai mi sveglierà
oppure dormirò
Guardo lassù
la notte
quanto spazio intorno a me
sono solo nella strada
o no no qualcuno c’è
(insieme a te)
Sei proprio senza cartuccie se hai spostato l’attenzione da Zolla (di cui neanche l’ombra hai riportato su NI) a me. Da quante settimane cerchi disperatamente in biblioteca quello che non trovi? ahaahaha….
Io dissi: “la condanna emessa da Zolla nei riguardi di Joyce: arte degenerata, scrittura da alienato mentale ecc.”
Lumi riassunse: “Verso la fine del saggio ‘Joyce e la moderna apocalisse’, Zolla compie un capolavoro della critica, sovrapponendo quasi alla lettera i bisticci verbali ricorrenti in Joyce con la logorrea di un discorso demenziale tratto dalla dispensa di psichiatria consultata da zolla negli anni universitari. Si tratta di quella che si definisce idorrea amenziale.”
Diss’io dunque bene di Zolla stroncatore, mentre Lumi si chiude a scatto in sé a mo’ di vongola…
(e ‘Minuetto all’inferno’ è un supplizio che manco S. Ignazio di Motorola)
Vedo che continui nel battibbecco (non avendo nulla in mano di Zolla).
E ormai hai perso quel poco di lucidità.
Infatti c’è differenza palese tra arte degenerata, scrittura da alienato mentale e quello che dici adesso (stroncatore) tirandolo dal cilindro del prestidigitatore.
Su stroncare sono perfettamente d’accordo (sono in tanti che lo hanno stroncato. E senza dire stupidaggini). Vedi che grande scoperta che hai fatto. Perché, forse avevo detto che Zolla ne parlava bene di Joyce? sei proprio comicooooo…
Ma se uno si legge la fine del saggio di zolla ( o se lo legge tutto che è ancora meglio per voler essere più esatti e rigorosi e non parziali) emerge in maniera inoppugnabile che non si esprime con espressione come: ” arte degenerata scrittura da alienato mentale”. Questo mi premeva negare e infatti non è come dici tu che ora cerchi di deviare su una cosa così ovvia (stroncare) che già emergeva da quanto avevo postato di Zolla
Quindi, che parli a fare?
p.s. vuoi che ti indico qualche biblioteca più fornita dove poter continuare le tue ricerche? ma se non ti va puoi sempre cercare altre soluzioni dal cilindro. Ancora per qualche giorno ti posso seguire…ma…non lo vedi che a nessuno interessa? é più semplice dire: mi sono sbagliato, mi ricordo così…eccetera
Cmq visse il premio strega con Minuetto all’inferno. Ma neanche a me entusiasma. Ma per i suoi saggi è per me lo scrittore più importante del Novecento