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LE CHIAVI DELLA FELICITA’
[ letteratura e bigodini retorici ]


Tekla Badarzewska-Baranowska [ 1834 – 1861 ]
Le Rêve d’un Ange

diAnna Tellini

    Vorrei mettere subito le mani avanti: anche se non numerosissime, non sono di certo mancate le voci femminili nelle lettere russe, almeno a partire da Caterina II, che si dilettava di filosofia (celebri i suoi carteggi con Voltaire e Diderot) e di teatro, oltre a comporre satire e cronache storiche, seppur mediocri, per arrivare al Novecento, che vanta nomi grandi (Sejfullina, Šaginjan, Forš, Petruševskaja) e grandissimi, come Cvetaeva e Achmatova. E tuttavia ho scelto, spero non troppo cialtronescamente, molto, certo, per la mia pavidità, una sorta di timore reverenziale di trovarmi faccia a faccia con queste espressioni così alte, e un po’ per resistere a quell’alone di seriosità, di granitica monoliticità che pare inevitabilmente circondare la nostra idea delle cose russe, ho scelto di fare qui delle divagazioni molto poco serie su quello che anche per me a suo tempo è stato un fenomeno del tutto sorprendente e inaspettato, ovvero l’incontro con quella pleiade di scrittrici – Nagrodskaja, Zinov’eva-Annibal, Lappo-Danilevskaja – che per alcuni anni ha tenuto banco nel mercato librario russo, surclassando con squisita, e solo apparentemente candida nonchalance, i campioni della letteratura patria, nostri abituali punti di riferimento.
Un primo dato di autentico, ammirato stupore è stato il constatare come, se ancora negli anni ’60 dell’Ottocento Černyševskij, ed altri con lui, si interrogavano, annaspando, sull’esistenza o meno di un pubblico, di una committenza, a distanza di soli 50 anni, con meravigliosa accelerazione, queste dame della letteratura dimostrano una sbalorditiva conoscenza del proprio uditorio, tanto da poter affermare per bocca della Verbickaja, loro madre spirituale, nonché trionfatrice del mercato:
 

“Mi leggono studenti e studentesse e intellettuali in genere; ma mi leggono anche operai, artigiani, commessi e i democratici tutti.”

E ancora:

“Ho un legame forte e indissolubile col mio lettore. Tutta questa enorme folla mi scrive, e mi ringrazia in modo commovente, e mi confida le sue gioie e le sue sofferenze….”

 
Attrezzatasi, forte di una schiera di segretari personali che affrontavano questa corrispondenza non tralasciando di dividerla per categorie di scriventi, alla domanda sul perché la leggessero rispondeva senza falsa modestia:
 

“Chi ha sete di bellezza segue chi la bellezza ricerca. Io cerco il nuovo, lo cerco con passione e con dolore. Io sento l’alito della nuova morale veniente.”

 
    Parleremo quindi di un decennio del Novecento, collocabile all’incirca tra il 1907 e il ’17, che nel 1934 Gor’kij avrebbe definito “il più infame e svergognato nella storia dell’intelligencija russa” – lo stesso Gor’kij che era stato il primo a liberare il realismo russo dalle sue precedenti caratteristiche “aristocratiche” e “puritane”, da quella schiva e delicata moralità che gli aveva sempre fatto evitare le crudezze e le esplicità dei romanzieri francesi. Le brutture e la sporcizia della vita, come pure l’aspetto fisiologico dei rapporti sessuali, erano in generale argomenti tabù per il vecchio romanziere russo. C’era stata, sì, un’ondata di pornograficità negli anni ’80, anni di reazione e di sbandamento seguiti allo zaricidio, ma essa non aveva comunque abbandonato i retrocortili letterari, e non aveva inquietato più di tanto i detentori del gusto.
    Due fatti di ben più grande momento, due fatti letteralmente dirompenti erano però avvenuti: Tolstoj per primo parlò degli orrori fisici della malattia ne La morte di Ivan Il’ič (1886) e della carnalità dell’amore ne La sonata a Kreutzer (1889), e ancor prima (1865) con Le memorie del sottosuolo Dostoevskij non aveva esitato a mettere in primo piano l’intimità dell’anima brutalmente e prepotentemente violata: una vera rivoluzione, con cui irrompeva una sincerità, una espansività di marca propriamente francese, del tutto estranea alla letteratura russa.
    E così, per ritornare al nostro decennio “infame e svergognato”, mentre il mercato si allarga e il gusto, non ancora educato, di questo nuovo lettore del demos reclama, e sono in gran voga non solo Zola e Maupassant, ma Mirbeau e Przybyszewski, e Sherlock Holmes degenera in rozze storie fatte in casa di “Nat Pinkerton poliziotto”, si afferma per così dire una linea Dostoevskij-Stirner-Nietzsche, prima di tutto come grande forza emancipatrice dalle pastoie del dovere civico. Si era all’indomani di una rivoluzione fallita, e il lato oppresso della vita personale si tendeva e doleva, e nell’anima divampavano le cattive scintille dell’esasperazione contro ciò che impedisce di vivere.
    Nietzsche pare proporre agli intellettuali russi proprio ciò di cui avevano bisogno: una combinazione di nichilismo sociale, questa disdegnosa sfiducia nei destini dell’uomo collettivo, e di estetismo erotico.
    Spezzato in schegge di paradossi, in Russia Nietzsche fu costretto a svolgere la funzione di eccitante, di salvacondotto per l’egoismo estetizzante e raffinato, per l’autodeificazione dell’io.
Pochi dati ancora per meglio approssimarci alle dame della letteratura di cui si diceva: sono gli anni in cui si moltiplicano pubblicazioni come “I segreti della vita”, “Notti di follia”, “La posta di Amore”, in cui gli abbonati a “Il mondo dei segreti” ricevono una ricchissima letteratura sul problema dei segreti dell’amore in tutti i secoli e in tutti i popoli, illustrati da noti artisti; anni di successo sensazionale per Otto Weininger col suo tentativo di stabilire una filosofia dei sessi applicata anche alla vita sociale, all’antropologia, alla psicologia delle religioni; anni di vasta diffusione della Psicopatia sexualis di Krafft-Ebing, lugubre bestiario, catalogo di nefandezze, archivio di perversioni stilato con scrupolosità da copista; anni in cui nelle opere di scrittori di vario talento acquisiscono diritto di cittadinanza temi come la pederastia l’uranismo l’ermafroditismo la necrofilia l’incesto, e non è raro il sentimento della fine della cultura, dell’ultimo limite, del declivio verso il nulla. Accennerò soltanto a due di questi, in egual misura affascinati dal sesso: Rozanov, fautore di una santificazione del sesso, le cui parole strologano, bisbigliano, accarezzano, e tutte vengono dal sesso, il rigoglio del sesso, lo scompiglio del sesso; e Arcybašev, gratificato di un successo travolgente per il suo romanzo Sanin, un’incessante predicazione della libertà dai vincoli e dalle convenzioni, condotta però per cliché e locuzioni morte o moribonde, per lo più per contrastare con colori troppo sgargianti, colori che gridano, il terrore della morte. Un romanzo dello spreco – spreco di situazioni, di organi, di spasmi, di discorsi-, che ricorda, anche per il suo stile da cancelleria, in cui i periodi escono sbiaditi, si attaccano, per così dire, ai denti, le pagine delle nostre dame. E il rimando non è forzato, visto che in un risibile dialogo tra l’eroina della principale opera della Verbickaja, Le chiavi della felicità (ben 6 volumi tra il 1909 e il 1912!), e uno dei suoi tanti partner, l’anarchico Jan, – da premettere che ogni giorno, dalle 2 alle 4, parlano di letteratura -, leggiamo:

 

Lei] “Leggete Sanin?”
[Lui] “Oh, sì, con enorme interesse. E voi?”
[Lei] “Anch’io un po’”
[Lui] “In questo libro c’è una vivida protesta contro i decrepiti valori morali! E come tale, questo libro ha un significato sociale. Sanin rispettava le donne. Qui è detto in difesa della personalità più che in tutta la letteratura europeo-occidentale”
“Posso?”, chiede Manja, e gli mette la testolina sulla spalla. Jan permette.
“Jan, baciatemi!” [lo fa]
Manja con un grido cade nell’erba, e lacrime di felicità corrono dai suoi occhi.

 


Tekla Badarzewska-Baranowska
La Prière D’une Vierge Op.3 [1856]

    Ora che una sorta di genealogia è stabilita, e stabilito è anche un contesto, si può forse aggiungere con maggior distensione che di quest’opera, capace di attirare all’uscita di ogni tomo lunghe file di acquirenti davanti alle librerie, si vendettero ben 500.000 esemplari, e che nelle biblioteche pubbliche era richiesta molto più di Dostoevskij e di Čechov. D’altronde, afferma la Verbickaja nella pref. alla sua pièce Bezplodnyja Žertvy:
 

“Čechov e Gor’kij hanno esposto una sorprendente meschinità dei loro ideali. Che hanno dato Čechov e Gor’kij, non dico di prezioso, ma almeno di fresco e di originale nelle loro opere migliori? Sono stati forse nella loro concezione del mondo almeno di un veršok al di sopra della folla? No! Quali sono i loro ideali, la loro filosofia? Ci hanno fatto dono solo di tipi consunti e di eroi da compatire. Non hanno un ideale vivido. Non hanno dato neanche un’allusione alla lotta di classe. Hanno manifestato un’ignoranza totale nella comprensione dell’anima femminile. Hanno portato con sé un intero mare di trivialità”.

 
    Padrone, loro sì, della trivialità, la Verbickaja e la Lappo-Danilevskaja ne sanno trarre però tutti i succhi più appetibili e ridondanti attualizzandola, intellettualizzandola: tra un amplesso e l’altro saltano fuori i nomi di Spencer e di Wilde, e la lotta di classe non manca (Jan, come abbiamo visto, è un anarchico), e in quanto alla Lappo-Danilevskaja, nella prefazione al suo Razval (1916-17), che definisce un “romanzo-cronaca” in cui vengono raffigurati gli autentici accadimenti della Russia, aggiunge:
 

“a parte la fabula romantica, qui non c’è neanche una parola di finzione. Sono stata partecipe e testimone di quanto esposto, inclusi gli avvenimenti al fronte, dove ho trascorso tre mesi nel 1917.”

 
C’è la fuga dell’armata, ci sono uccisioni e saccheggi e pogrom, e personaggi storici reali, mentre l’eroina, Veronica, non fa che parlare della guerra e della rivoluzione:
 

“Tutto sta assumendo una piega così triste, così sfortunata per la povera Russia! A corte non si danno ricevimenti.”

e

“Il nostro modo di vita sta diventando assolutamente impossibile: la chiusura dei ristoranti alle 11 mi rattrista proprio.”

 
    Volgarizzandoli e semplificandoli, le nostre non trascurano nessuno degli elementi della letteratura a loro contemporanea: ci sono scioperi, l’amore, le barricate, l’inseguimento del piacere. E’ questo ad attirare – meglio: ad adescare – il lettore. Senza contare che seguendo le peripezie di queste Sanin in gonnella il lettore non solo legge il romanzo, ma origlia e spia. Si afferma una sorta di “voyeurismo di massa”: contemplare e annusare, ideologizzandosi, abbeverandosi alle fonti della nuova morale:
 

“Bisogna amare l’amore, l’amore in genere, e non un singolo uomo. Uno se ne andrà, ne arriveranno altri. Salve a voi, nuove donne! Prendete l’amore, ridendo e gioendo. E’ la vostra ricompensa, il vostro riposo. Né giuramenti, né patti, né domande. Prendete, e procedete verso nuovi incontri, verso un nuovo amore. Ricordate una cosa soltanto: non ci si può fermare. Non bisogna guardare indietro! Salute, nuove donne! A voi, che avete osato, a voi che avete rigettato il giogo dell’amore!”

 
    A dirlo è la stessa scrittrice che per anni aveva pubblicato su gloriose riviste onesti racconti con tendenza, dove l’emancipazione delle protagoniste passava attraverso il rifiuto di vivere non del proprio lavoro, o di portare il corsetto, fare la civetta e guardarsi allo specchio, o di indossare abiti eleganti; spesso si andava anche alla ricerca del “gesto”, e poteva essere l’abbandono della ricchezza e la scelta di una vita difficile, magari prestando la propria opera in un ospedale di campagna. Ma con questi onesti racconti anni ’60, con questi tardi epigoni degli “uomini nuovi”, la Verbickaja aveva non più che vivacchiato, finchè, già padrona del linguaggio marzapanesco e iperbolico di cui sarà maestra, decide – sono sue parole – di
 

“abbandonare l’angusta valle dell’ascetismo, l’oscurità della cripta in cui non ci sono vivide albe né tramonti fiammeggianti, in cui soffia il vento della rinuncia”

per rispondere alla voce sediziosa della personalità che si ridesta e

“salire e salire sui monti per inebriarsi del fulgore del sole e gettare uno sguardo agli abissi e alle voragini e riflettere nelle pupille lo scintillio delle nevi eterne”.

 
    Ed eccoci così alla Manja-Verbena delle Chiavi della felicità, che, dopo aver capito ancor giovinetta che ci sono tre tipi di donne: le cuoche, le governanti e le principesse, opta per quest’ultima soluzione, confortata, tra l’altro, in questo, dall’ammirazione universale, soprattutto quando, al ginnasio, in pantaloncini corti e sottile tunica di battista balla, spumeggiante e inafferrabile, la “sonata al chiaro di luna”. Lo stesso entusiasmo circonda Veronica, che “reca in sé l’armonia e la gioia di un essere cosciente”, e che ammiratori, e non, definiscono una “natura molto forte, in cui c’è molta individualità”. Inutile dire della bellezza di entrambe, di cui, d’altronde, sono consapevoli osservatrici allo specchio: in Veronica tutto era “armonico, plastico e bello”, in quanto a Manja-Verbena è lei, nell’offrirsi ad un amante che aveva trepidamente atteso nel chiostro del giardino ad esclamare:
 

“Volete rapirmi? Il mio corpo è magnifico, Mark! Lo so. Quante volte ne ho studiate le linee. Vi amerò eternamente. Danzerò. Devo spogliarmi. Mi sento una dea…”.

 
Veronica, però, può contare su un topos del decadentismo, occhi verdi, senza fondo, enigmatici, e magnifici capelli rosso-cuprici, e su vibrazioni – delle corde del cuore, di ogni suo nervo, di tutto il suo essere – e su titillanti accordi; lei stessa, del resto, “era un gioioso e trionfante accordo della natura”.
In questo trionfo del riciclaggio di un trovarobato pruriginoso, in un’atmosfera estenuata e risucchiante assistiamo spesso, di contro allo spregiudicato e attivo inseguimento del piacere da parte di Manja e Veronica, a spettacoli di femminile ritrosia, o femminile svenevolezza, dei loro partners virtuali: nella Lappo-Danilevskaja, il ministro Protopopov “ha il volto cereo, ed è vestito con cura raffinata”, mentre il generale Duchonin, “bellissimo brunetto”, si confonde in presenza di Veronica e il generale Brusilov, preparandosi ad un incontro con lei, “corre allo specchio, si lava le mani con eau de cologne e liscia zelantemente i baffi con uno spazzolino”; e nella Verbickaja l’anarchico Jan, capo e profeta del suo partito, in clandestinità per evitare la forca, “ha un delicato volto di razza e piccole mani bianche da gran signore, e fa il giardiniere, per nascondersi, sì, ma anche perché sta studiando le orchidee: “I fiori hanno un’anima misteriosa. Avete letto Maeterlinck?”, mentre il milionario Stejnbach ha la pelle color avorio, una barbetta alla moda, e, irresistibili per Manja, delle sorprendenti sopracciglia che tracciano sul suo volto un misterioso arabesco, e Nelidov ha un volto fine e di razza, e narici tremanti. La fisicità sembra essere di esclusiva pertinenza delle donne e non è un caso, forse, che siano loro a corteggiare, inseguire, prendere comunque l’iniziativa. Con qualche eccezione: un certo Astašev, monocolo, smoking inappuntabile, scarpe di vernice, chiarisce a Veronica:
 

“Amore, passione, simili parole non trovano posto nel mio dizionario. Solo depravazione, classica depravazione, calcolata e non limitata da alcun pregiudizio”.

E poi:

“Sono pronto a spogliarmi. Ed anche di più… benché il numero di aspiranti sia tale, che ho stabilito ci si prenoti per il turno”.

Quindi le chiede:

“Vorrei sapere: siete, o no, dissoluta?”.

E, dopo che lei ha ricusato nomi e marchi per le proprie passioni, lui le incide una mano con uno stiletto, e ne beve il sangue:

“Sono un sadico di calibro raffinato. Amo il corpo dei morti e il sangue dei vivi”.

E Nelidov, al loro terzo incontro, chiede a Manja-Verbena:

“Amate i cavalli?”

La sua voce è trepidante, e il tono tale che è come se le chiedesse:

“Mi ami?”.
“Follemente!”

risponde Manja. E nella voce di lei arde la confessione.

“Forse, desiderate fare una corsa?”

– fa Nelidov.

“Sì. Manja col terrore della felicità osserva i suoi occhi feroci e subito si abbandona sul suo petto. Egli la bacia in silenzio, avidamente e rapacemente. La prende come una preda tra le braccia e va nel bosco. Rozzamente e dolorosamente accarezza le sue spalle, il seno, le ginocchia. Ella, come una schiava, ubbidisce al suo desiderio. Dopo mezz’ora lui le chiede di perdonarlo. ‘Niente, niente’, risponde Manja, malgrado Nelidov le abbia morso le mani, le labbra, dolorosamente, tanto da far apparire il sangue”.

 
E le pagine si accumulano in un delirio di iterabilità e di inconsequenzialità senza riposo, di dissennato e inconsapevole umorismo: chiudiamo qui, col conforto, però, delle parole dell’anarchico Jan, che, dopo aver sognato di fondare una comune, regno dell’amore e della pace, incontra però prematura morte, e al momento dell’addio riesce comunque a indottrinare Manja:
 

“Stiamo vivendo l’epoca della liberazione della carne! E’ l’alba del veniente giorno! Solo gli istinti non mentono. I nostri desideri sono sacri. Non invano i greci hanno raffigurato Eros alato. La passione viene e va. Si può amare una e desiderare un’altra. In questo non c’è tradimento, né trivialità, né sporcizia. C’è un solo tradimento, Manja! Il tradimento di se stessi. Se ora cesserete di amarmi, e domani amerete un altro, non tenete conto delle mie sofferenze. Vi darò le chiavi della felicità, Manja. Essa giace ben custodita da sette serrature. La povera umanità ha smarrito il cammino che porta ad essa. Ascoltate, Manja. La cosa più preziosa in noi sono le passioni! Che vada pure in rovina per l’amore che vi porta colui che cesserete di amare. E’ lo stesso se avrà il nome di marito o di amante. Andate oltre, seguendo la voce del sangue. L’importante è che non vacilli la vostra anima, per la vergogna o il pentimento. Se il mattino avete baciato me, e la sera il desiderio vi spinge negli abbracci di un altro, ubbidite al vostro desiderio. In questo è tutta la verità della vita. Baciatemi, Manja. Vi ho regalato un tesoro. Della vostra vita fate un poema….”

 
 

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12 Commenti

  1. non ho mai capito niente delle cose che pubblica la Puecher con i suoi collage eppure sono anni che la seguo quindi giocoforza mi attira se pure per versi mi annoia con certe sue insistenze leggiadro- femministe a lungo andare. però la seguo se pure ci capisco niente. una sorta di perversione dolce? lievemente masochista… forse… come un genere(il masochista) che cerca il bello per il soggettivo suo… insomma un bell’ outing represso da un po’:-) insomma ho celiato ma anche no.
    un saluto.
    paola

  2. Suonerà estemporaneo certo,ma pensavo che forse tu Orsola puoi aiutarmi a risolvere un enigma che mi tiene sul filo.Secondo un’enciclopedia cartacea degli anni 50 ereditata dai miei genitori sarebbe esistito un certo Helfy I.,rivoluzionario ungherese e biografo di Kossuth,nato nel 1730 e scomparso nel 1897.Dimmi che si tratta di un refuso,fammi entrare nell’incubo della storia,o riscrivi le tesi della fisiologia,a tua scelta

  3. Grazie delle letture e ad Anna Tellini con cui accadono spesso queste leggiadre sinergie di visioni.

    Grazie alla cara polvere con cui mi complimento, in primis, per una delle rare volte in cui, invece, ella esprime un parere senza circonvolvere e aggrumare lemmi e anacoluti.
    E poi perché mi piace molto questo:

    non ho mai capito niente delle cose che pubblica la Puecher

    La scrittura chi ha detto che debba per forza spiegare&insegnare ed essere capita?
    E’ già molto se regala la presenza di un mistero, di una soggettività oscura, nella mancanza di spiegazioni, obbligando non a una qualche illusoria comprensione ma alla mera lettura dell’esperienza di chi scrive, che di solito, tanto più nelle forme può apparire ironicamente (cogliere ironia è spesso cosa non facile) leggiadra, tanto più nasce dal dolore, anche se non si manifesta con le forme di quel dolorismo che affliggono in gramaglie e veli neri molta prosa&poesia. Questa esperienza di chi scrive si mette in corrispondenza d’amorosi o rancorosi sensi con quella della persona che legge, altrettanto soggettiva e lacerata. Si confrontano, si sfiorano, duellano e l’una all’altra devono restare irriducibili.
    Cosa accade quando Orfeo non resiste e si vuol volgere e poi si volge a guardare Euridice?


    _______________,\\’_______________

    eh i refusi son parenti dei lapsus
    esiste il pianeta ERRATA in qualche segreta partizione del disco arduo di ognuno
    sarà un luogo affascinante e pregno di valori rovesciati, dove, ad esempio, uno sfuggito aceto per accetto assume inconsapevolmente l’agro sapore di ogni accettazione
    cosi come la più lunga distanza possibile fra le due date di nascita e dipartita è, oltre che un aspirazione assi umanamente condivisa, sempre letterariamente molto fruttuosa

    ,\\’

  4. @Orsola
    ti quoto tutta che tutto mi si accorda è appunto per me notevole il pezzo spronato sulla scrittura. cammeo dal più grande cammeo ben congeniato e inserito nel giunto giusto. ed infatti proprio non capendo apparentemente ci trova a più alti riscontri vivendo(lo). partizioni che affiorano, usando la tua parola.
    quindi grazie a te. e ciao.
    paola

    ps: aggrumo. mi piace.

  5. Un pagliaccio sui lecci si straccianla la miccia.
    Il nostro modesto omaggio enfant-terrible (l’uomo) da parte dello scrittore ignoto che adora voli e fanfaluche.

  6. p.s. molti auguri a chi ha disegnato la tastiera dei tablet che mettono sempre quell’appiccicosa “n” al posto dello spazio fra le lettere. Gli si incollassero i denti.

  7. e appunto: provocazione – il non capire niente –
    ecco come per incanto il succo da empiti scossi.
    meritava far(mi) di “outing” per leggere succo.
    ritornoti sul luogo dell’ errore comprensibile
    proprio perché errore di cui avere cura.
    ancora ciao

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orsola puecher
orsola puecherhttps://www.nazioneindiana.com/author/orsola-puecher/
,\\' Nasce [ in un giorno di rose e bandiere ] Scrive. [ con molta calma ] Nulla ha maggior fascino dei documenti antichi sepolti per centinaia d’anni negli archivi. Nella corrispondenza epistolare, negli scritti vergati tanto tempo addietro, forse, sono le sole voci che da evi lontani possono tornare a farsi vive, a parlare, più di ogni altra cosa, più di ogni racconto. Perché ciò ch’era in loro, la sostanza segreta e cristallina dell’umano è anche e ancora profondamente sepolta in noi nell’oggi. E nulla più della verità agogna alla finzione dell’immaginazione, all’intuizione, che ne estragga frammenti di visioni. Il pensiero cammina a ritroso lungo le parole scritte nel momento in cui i fatti avvenivano, accendendosi di supposizioni, di scene probabilmente accadute. Le immagini traboccano di suggestioni sempre diverse, di particolari inquieti che accendono percorsi non lineari, come se nel passato ci fossero scordati sprazzi di futuro anteriore ancora da decodificare, ansiosi di essere narrati. Cosa avrà provato… che cosa avrà detto… avrà sofferto… pensato. Si affollano fatti ancora in cerca di un palcoscenico, di dialoghi, luoghi e personaggi che tornano in rilievo dalla carta muta, miracolosamente, per piccoli indizi e molliche di Pollicino nel bosco.
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