VISIONI in TRALICE [VI] di perle e rospi
Adriaen Van Utrecht [ 1599 – 1652 ] Vanitas
CLAUDIO MONTEVERDI [ 1567 – 1643 ] E’ questa vita un lampo
[mottetto a 5 voci] da Selva morale e spirituale [VENEZIA 1631 in tempo di peste]
È questa vita un lampo
ch’all’apparir dispare
in questo mortal campo
che se miro il passato è già morto,
il futuro ancor non nato
il presente sparito
non ben anco apparito.
Ahi, ahi, ahi lampo fuggitivo,
e si m’alletta
e dopo il lampo,
pur vien la saetta.
[ appunti inattuali ]
di Orsola Puecher
e come scordarsi quella fiaba della figliuola – una Cenerella maltrattata in casa – che
per la dolcezza dei modi e per la bontà del cuore, era tutta il ritratto del suo babbo […]
a cui dalla boccuccia a ogni parola uscivano petali di rosa e perle e pietre preziose – per premio – perché aveva aiutato a bere da una fonte una fata – sempre ricordarsi che fate in incognito passano per caso – ovunque – travestita da povera vecchiarella curva
Quand’ebbe bevuto, disse la nonnina: “Tu sei tanto bella, quanto buona e quanto per benino, fligliuola mia, che non posso fare a meno di lasciarti un dono […] Ti do per dono che ad ogni parola che pronunzierai ti esca di bocca un fiore o una pietra preziosa.”
La ragazza arrivò a casa con la brocca piena, qualche minuto più tardi; la mamma le fece un baccano del diavolo per quel piccolo ritardo.
«Mamma, abbi pazienza, ti domando scusa…» disse la figliuola tutta umile, e intanto che parlava le uscirono di bocca due rose, due perle e due brillanti grossi.
«Ma che roba è questa!» esclamò la madre stupefatta. «Sbaglio o tu sputi perle e brillanti! O come mai, figlia mia?» Era la prima volta in tutta la sua vita che la chiamava così, e in tono affettuoso.
e come – parimenti – scordarsi della di lei sorella maggiore – invece – che
somigliava tutta alla mamma di lineamenti e di carattere. […] Tutte e due erano tanto antipatiche e così gonfie di superbia, che nessuno le voleva avvicinare.
e che questa sorella maggiore – a quella stessa fata – benché travestita stavolta – per facilitare un poco la schifiltosa superba – magnificamente e da gran signora – sempre alla medesima fonte mandata a forza dalla madre che sperava per lei lo stesso dono di sputar perle e petali fatto alla minore bistrattata – l’acqua – invece – aveva negato in malo modo e così per dono le sboccarono fuori dalla bocca vipere e rospi a ogni parola – a fiotti e viluppi
“Avete poca educazione, ragazza…”, rispose la Fata senza adirarsi punto, “e giacché siete così sgarbata, vi do per dono che ad ogni parola pronunziata da voi esca di bocca un rospo o una serpe.”
⇨ Charles Perrault LE FATE
traduzione di Carlo Collodi
da “I racconti delle fate“
Paolo Porpora [ 1617 – 1673 ]
Natura morta con un serpente, rane, una tartaruga e una lucertola
e la frale carta velina dei petali – il freddo vetroso e molato dei minerali lucente fra le labbra – la sferica delicatezza delle perle – il viscido vibrante di bolle globulose sulla lingua – di squame di pelle rettile – a premere – per l’urgenza di uscirsene – sono le parole – il dono duplice delle parole – e tocca sputarle tutte e due – ché siamo – noi tutti – la caritatevole e la schizzinosa insieme – perle e rospi – e l’armonia è anche nel dissoanante sputar rospi e non è solo nel privilegio di ritmi ben dosati – o nel seminare pezzettini di cuore trafitto negli spazi vuoti e negli a capo – o nel vuotare l’anima dolorante rinchiusa in ampolle di vetro opaco con tappi di ceralacca rosso sangue dei mille dolori e nel traslare su carta l’essenza lamentevole di rinnegati dal mondo – ché la catarsi – la cura – non sempre è scegliere parole distanti – significati astrusi – insensatezze fra allitterazioni – metafore e similitudini per non mai dire le cose come stanno e come sono
Dove cominciare? Osip Ėmil’evič Mandel’štam |
ché – sì – anche ai rifiuti e ai rospi e ai serpenti – al premio per la mala grazia nascosta dentro – che si devon contare le sillabe e quante sono le misure fra le toniche – sulle punte delle dita delle mani – appoggiandole leggere al labbro inferiore – che così fa chi non sa scrivere e fare sottrazioni con gli zeri e divisioni a due cifre – l’ignoranza – beata l’ignoranza – abbia sempre dita per contare e memoria per ricordare.
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ed è arte antica comporre parole perché vengano recitate o cantate e ricordate a memoria – memoria che in questi tempi di digiuno e quaresima è solo la sorellina orfana e scalza del passato
MEMORIA. Noi italiani diciamo “conoscere a memoria” oppure “conoscere a mente”. I francesi dicono “Connaître par coeur“, gl’inglesi: “To have by heart“. Che dedurre? che l’italiano è più “mentale” del francese e dell’inglese? Piace in ogni modo la forma francese, che la cosa che noi conosciamo a memoria, ossia senza bisogno di strumenti o documenti intermedi, la conosciamo “per mezzo del cuore”, ossia l’amiamo; quasi il ricordare sia amare – come infatti è. Anche più preciso in questo senso l’inglese, perché to have by heart letteralmente significa: “Avere nel cuore”, cioè che la cosa ricordata noi la custodiamo nell’organo stesso degli affetti.
Alberto Savinio
Nuova enciclopedia [pag. 257]
Adelphi, 1977
e un testo di Shakespeare filava via in due ore anche se nella fossa del teatro O tondo di legno c’erano poveracci che mangiavamo cartocci unti e puzzavano di sporco – dei secoli passati chi sa l’odore – ma avevano menti e memoria che un testo in versi gli scivolava via liscio – ché oggi ci parrebbe un refolo di vento soffiato in un istante – senza poterne cogliere che solo una vaga impressione – arrancando – e quel testo stesso oggi inciampa greve nel doppio di tempo per un pubblico che tossisce disattento e a cui ci vuole spazio e tempo e vezzi e strabuzzìi d’occhi d’attore dopo ogni frase per raccogliere un senso – oh torpida intelligenza smemorata – e anche il principe di Danimarca allora non indugiava pause ad ammiccare alle orbite vuote del teschio spleen esistenzialista – ma tirava via veloce le parole in ritmo perfetto – e non c’erano scenografie – solo assi di legno e palizzate – e bastavano le parole colte al volo – il pubblico era analfabeta e quelle parole – non avrebbe saputo scriverle – ma aveva memoria vivida e pronta e fantasia per veder quel che non c’era – quel che evocavano – e ricordarlo
The Life of King Henry the Fifth
ACT I
PROLOGUE
Enter Chorus
Chorus
O for a Muse of fire, that would ascend
The brightest heaven of invention,
A kingdom for a stage, princes to act
And monarchs to behold the swelling scene!
Then should the warlike Harry, like himself,
Assume the port of Mars; and at his heels,
Leash’d in like hounds, should famine, sword and fire
Crouch for employment. But pardon, and gentles all,
The flat unraised spirits that have dared
On this unworthy scaffold to bring forth
So great an object: can this cockpit hold
The vasty fields of France? or may we cram
Within this wooden O the very casques
That did affright the air at Agincourt?
O, pardon! since a crooked figure may
Attest in little place a million;
And let us, ciphers to this great accompt,
On your imaginary forces work.
CORO: Oh avere una musa di fuoco, con cui ascendere al cielo più luminoso della fantasia; un regno per palcoscenico, principi per attori, e monarchi a contemplare la scena ingigantita! Allora il valoroso Enrico assumerebbe il portamento di Marte a lui consono, e fame, ferro e fuoco gli striscerebbero ai piedi chiedendo impiego, al guinzaglio a mo’ di segugi. Ma perdonate, signori miei, gl’ingegni bassi e pedestri che hanno ardito portare un tanto soggetto su questo palco indegno. Può quest’arena da galli contenere i campi sterminati di Francia? o possiamo noi stipare in questa “O” di legno anche i soli cimieri che atterrirono l’aria di Agincourt? Perdonateci! e come uno sgorbio può rappresentare un milione in poco spazio, così consentite a noi, zeri di questo conto immenso, di agire sulle forze della vostra fantasia.
Enrico V
W. Shakespeare
Atto primo, Prologo
traduzione di Masolino D’Amico nell’Introduzione di
Scena e parola in Shakespeare Einaudi, 1974
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L’inchiostro simpatico reversibile |
“Il sale idrato perde col calore l’acqua di cristallizzazione e si converte in una sostanza azzurra che è il sale anidro. Se colla soluzione rosea diluita di cloruro di cobalto si scrive in un pezzo di carta si ottengono dei segni appena visibili, che solo col calore divengono nettamente azzurri (inchiostro simpatico).” |
oh si potesse scrivere in modo che un foglio fosse per le parole scritte solo rapido stato e passaggio ed esse vi fossero impresse con un inchiostro speciale antipatico e irreversibile che si cancella man mano che l’occhio le legge – ogni lasciata è persa – è ciò che resta fosse quel che deve restare – che si riesce a ricordare – come sarebbe se si fosse Robinson in un’isola deserta naufragato e senza nemmeno il conforto di un Venerdì – o Nadežda che imparò a memoria le poesia di Osip Ėmil’evič Mandel’štam – scritte durante l’esilio di Voronež – perché gli sopravvivessero – prima di sparire nel gulag di Vtorajarečkae [ e sia maledetto sempre e per sempre il regime stalinista che uccise i poeti e ⇨ Vsevolod Ėmil’evič Mejerchol’d ] o come se d’improvviso mancasse l’energia elettrica che da anche a queste inutili parole su schermo acceso un restare fugace
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e se si pesasse il foglio scritto – prima e dopo – il peso dell’inchiostro sarebbe soltanto quei pochi microgrammi così essenziali ma leggerissimi – leggeri come sono leggere e taglienti le parole che contano – sì – che potessero sparire via man mano che l’occhio le inquadra e che fosse impossibile rileggerle – chi ha avuto ha dato e chi ha dato ha avuto
EXPERIMENTO GALILEIANO I segni d’inchiostro aumentano solo di pochissimo il peso di quel che si scrive e si potrebbe determinarlo, quel peso, con esattezza scientifica confrontando un numero uguale di fogli bianchi con quelli scritti e stampati. Occorrerebbe solo una bilancia di precisione: un esperimento semplice che, con metodo galileiano e strumenti facilmente reperibili, permette a chiunque di pesare le parole e di dar finalmente corpo all’abusata metafora.
La formula è elementare: PESO LORDO – TARA = PESO NETTO FOGLIO SCRITTO – FOGLIO BIANCO = PESO DELLE PAROLE
Così calcolando la zavorra con una rapida sottrazione le parole sarebbero solo la piccola cosa del volume del liquido usato per scriverle e per stamparle, fuliggine di pece d’abete, ché evkauston significa bruciato e impresso a fuoco, o cinabro, o reseda, o estratto di galla di quercia, o succo di mirtillo che fosse. A quel che avanza ci pensi La scimmia dell’inchiostro, ovviamente.
Jorge Luis Borges |
⇨ VISIONI in TRALICE [I] I can’t hide you the rock cried out
⇨ VISIONI in TRALICE [II] But doth suffer a sea-change…
⇨ VISIONI in TRALICE [III] … e abito sempre nel mio sogno…
⇨ VISIONI in TRALICE [IV] Cum dederit dilectis suis somnum
⇨ VISIONI in TRALICE [V] Lascia ch’io pianga
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E’ un incanto, Orsola
Il peso delle parole è la linea invisibile di una farfalla.
al di là della bellezza di questo insieme di parole, racconti, poesia e musica, la dolcezza di essere tornata per un momento nel lettone con mia nonna e le sue fiabe prima di dormire. (memoria par coeur)
veramente grazie.
Noi postiamo, Orsola compone.