Morte ad Abu Salim / Marco Benedettelli
Sul cortile del carcere di Abu Salim c’è un gruppo di uomini e di ragazzini. Sono sporchi di fuliggine nera, sulle guancie, sulla fronte e anche intorno agli occhi. Nelle pupille hanno qualcosa di feroce, una luminescenza rancorosa che mi fa sentire assediato. Siedono sotto una gigantografia del rais dipinta su un grande pannello di ferro, issato nel mezzo del cortile. Nel penitenziario di Abu Salim venivano rinchiusi i criminali comuni e gli oppositori politici del regime. Oggi è tutto abbandonato e deserto, non si spara più da qualche giorno, ma la guerra qui vibra ancora dentro la luce che avvolge le cose. I colori del ritratto di Gheddafi sono accesi, fosfori: il giallo e il verde dei vestiti, il rosa salmone della pelle. I suoi occhi sono schermati dalle lenti policrome degli occhiali azzurri. Il profilo del raiss è schiacciato, spigoloso. Il ritratto è acido e primitivo e sembra quasi un’opera pop. Qualcuno ci ha passato sopra una sventagliata di mitra, e la fronte di Gheddafi è tutta bucherellata. La sua bocca è stretta in una smorfia fiera e irata che continua ad annunciare l’ingresso nell’inferno di Abu Salim.
Ad Abu Salim sono stati commessi crimini mostruosi. Torture, omicidi, esecuzioni sommarie. Un giorno, nel giugno del 1996, duemila detenuti durante l’ora d’aria si ribellarono contro le loro disperate condizioni di reclusione. In risposta furono tutti massacrati. Vennero presi e chiusi in uno dei cortili del carcere, e lì abbattuti a colpi di mitra. I soldati – raccontano i testimoni sopravvissuti – sparavano dai tetti e dalle feritoie delle porte, i prigionieri cercavano di scappare ma sbattevano tra le mura di cemento tutt’intorno. Urlavano, e cadevano bucati dai proiettili. Secondo alcune stime quel giorno sono morte 1796 persone. Da un giorno all’altro, le famiglie hanno smesso di ricevere da loro notizie o messaggi. Padri, mariti, figli e fratelli erano come caduti in un grande buco nero, risucchiati nel nulla. Quindici anni dopo, il 17 febbraio 2011, la rivoluzione in Libia è iniziata con la grande manifestazione e quel giorno a Bengasi i familiari delle vittime sono stati i primi a scendere in strada per protestare e per chiedere la verità su quelle morti del ‘96. Poi, la mattina del 25 settembre, dopo mesi di guerra e di bombardamenti, la loro domanda ha trovato risposta. Degli ex funzionari del regime gheddafista hanno detto di andare a cercare in uno spiazzo di terreno a fianco delle mura del carcere di Abu Salim. Lì c’era una fossa comune, scavando la terra sono venuti fuori migliaia di teschi, femori, costole, ossa di piedi e di mani.
Quando varco la soglia incustodita della prigione e entro nel cortile spopolato, sono i primi giorni di settembre. Gheddafi è stato deposto da poco e i morti del 1996 sono ancora tutti seppelliti lì sotto, da qualche parte a ridosso delle mura di cinta. Due uomini sulla quarantina si staccano dal gruppetto di gente sporca di polvere e con gli occhi bianchi di odio che siede sotto la gigantografia di Gheddafi. Si avvicinano e parlano in arabo con Saladin, il ragazzo tripolino che mi sta accompagnando. I due salgono nella nostra macchina e partiamo. Sfiliamo davanti a un edificio bombardato dalla Nato nella morsa finale della battaglia di Tripoli. La struttura è implosa, i pilastri e le architravi di cemento sono frantumati e spezzati, le pareti sono tutte schiantate. Il fuoco ha inghiottito ogni colore, è rimasto solo il nero delle lingue di fuliggine impresse sulle rovine, e il bianco spettrale del cemento ustionato dalle deflagrazioni dei missili. Nel quartiere di Abu Salim, intorno al penitenziario, si era asserragliata l’ultima resistenza gheddafista e si è continuato a sparare e a bombardare fino all’ultima ora di guerra. Attraversiamo la strada polverosa che circonda il carcere. Non c’è nessuno, solo un magma di oggetti sventrati e bruciati che la guerra ha disseminato nello spazio. Poi Tarek, uno dei due uomini saliti con noi in macchina, corpulento, calmo, mi dice: «Vuoi vedere un morto?».«Sì», rispondo.
Entriamo nel carcere abbandonato. La luce filtra dalle feritoie in altro e si espande rarefatta nel silenzio. Le celle sono vuote, le porte di acciaio spalancate. Per terra c’è rimasto solo un tappeto di sporcizia, e un odore dolciastro nell’aria. Qualcosa fermenta. Residui organici, acque nere e stagnanti, muffa. Il tanfo è l’unico segno umanoide in quegli androni dove la vita sembra aver smesso di abitare già da millenni. «I detenuti sono scappati tutti durante la presa di Tripoli. Io stesso, che abito qui nel quartiere di Abu Salim, ho aperto le porte delle celle e li ho fatti fuggire negli ultimi giorni di guerra». Guardo quei cubicoli strettissimi, coi materassi sudici sul pavimento e qualche foto attaccata qua e là al muro. Un detenuto ha riempito le pareti della sua cella con un grande graffito a matita: in alto ha scritto a caratteri cubitali il nome della sua città, Misurata, e sotto ha disegnato un ragazzo dai tratti caricaturali, col naso grosso e le orecchie a sventola, che guarda attraverso sbarre incorniciate da dei palmizi. Le celle sono piene di vestiti appallottolati, di tende strappate. C’è anche una stampella gettata lungo i corridoi, e un rudimentale manubrio per il sollevamento pesi costruito con delle bottiglie di plastica piene di sabbia. Le bottiglie di plastica sono ovunque, allineate in tutte le celle. «Qui l’acqua arrivava una volta alla settimana. E appena usciva qualcosa dal rubinetto, i detenuti ne facevano scorta. Riempivano più bottiglie possibile, perché poi l’acquedotto avrebbe smesso di funzionare chissà quanti altri giorni». Continuiamo a camminare, attraversiamo l’infermeria, la sala medica. Tutto è devastato come da un ciclone, da una tromba d’aria che ha frantumato ogni linea logica.
Poi scendiamo in un sotterraneo. «Qui venivano a torturare la gente», mi dice Tarek. Dagli angoli delle stanze pendono fitte ragnatele, i mobili e gli oggetti sono tutti sottosopra. Non c’è nessuno, solo silenzio. E una luce gialla e cavernosa e armadietti di ferro schiacciati sugli angoli, pianali di legno vuoti e bianchi chiusi fra sottili spalliere grigie. C’è una bava di dolore che avvolge le cose. L’aria è stantia, l’odore è denso di una umidità indecifrabile. Sul corridoio non si vede niente, è tutto buio. Ci sono delle porte chiuse e da dietro ho come l’impressione che qualcuno mi guardi. Andiamo via, risaliamo le scale. «Dov’è la persona morta?», chiedo a Tarek. Ho paura che mi ci porti davanti da un momento all’altro. Che me la presenti lì, all’improvviso, entrando distrattamente in una stanza, senza avvisarmi. Invece sbuchiamo in un piazzale. Su un muro, in arabo, c’è una scritta tratteggiata da un ribelle con una bomboletta spray. «Con l’aiuto di Allah laveremo il nostro sangue versato e vendicheremo i nostri morti». Ancora, ci aggiriamo fra quegli edifici vuoti, ci affacciamo su un cortile e c’è un gruppo di ragazzi che scavano il terreno e sradicano dei tubi di ferro dell’acquedotto per rivenderli altrove. Li strappano via legandoli ad un muletto meccanico guidato da uno di loro. Sono sorpresi nel vederci comparire. Vorrei fotografarli, ma mi fanno dei gesti col pugno chiuso, per minacciarmi, e intanto continuano a tirare via pezzi di tubature d’acciaio. Noi risaliamo in macchina e torniamo verso l’uscita del carcere, costeggiamo le mura verdi e scheggiate dalle granate, ripassiamo davanti a quel palazzo arso dal fuoco della Nato e schiantato, imploso su se stesso. Sul cortile, all’ingresso, il gruppetto di adulti e ragazzi non c’è più, sono andati via tutti. Ma ora, parcheggiato proprio sotto la gigantografia di Gheddafi, c’è un pick-up. Un uomo, in piedi sul vano di carico, con un pennello a rullo sta passando una mano di vernice sul volto dell’ex dittatore. Lo sta cancellando via. Già non si vedono più i suoi occhi severi, affossati fra i tratti spigolosi del volto. Sono coperti da uno strato di colore bianco. «Vuoi vedere il morto?», mi dice Tarek, mentre osservo l’uomo in piedi sul pick-up che continua il suo lavoro iconoclastico.
Facciamo qualche metro e usciamo dal cortile. Ora siamo fuori del carcere, sulla piattaforma di cemento che delimita l’ingresso. Scendiamo qualche gradino e intorno, al di là di una fila d’alberi, c’è un blocco di case immerse anch’esse nel silenzio. Sembrano abbandonate. Tre ragazzini che bighellonano per strada parlano in arabo con Tarek, hanno più o meno quattordici anni. Gesticolano, poi si girano e mi indicano, poco più in là, una coperta di lana appallottolata per terra, proprio a ridosso di un muro di cinta della prigione, a sinistra dell’entrata. «Dicono che avvolto lì – mi traduce Saladin – c’è un uomo ucciso dai bombardamenti della Nato». Risaliamo sulla piattaforma d’ingresso del carcere, ci avviciniamo al fagotto e tutti ci tappiamo il naso con la mano per una specie di riflesso condizionato. Forse, più che per non sentire la puzza della putrefazione, il gesto obbedisce al bisogno di creare una difesa, un argine, una membrana divisoria fra me, fra noi, e la morte che stiamo per incontrare. Con un bastone uno dei tre ragazzi discosta un lembo della coperta di lana verde e svela un grosso pezzo di carne marroncino, bruciato. È una carcassa di corpo dilaniato da un’esplosione. È un pezzo di busto umano, lo si riconosce solo dalla rotondità dell’omero fasciato da un brandello di pelle che copre parte della spalla e mezzo braccio. La pelle ha ancora un colore rosato, ma è ustionata, indurita, quel brandello di pelle è scuro e crostoso come la pelle di un pollo arrostito. È una associazione di idea oscena ma il deragliamento è irrefrenabile di fronte alla visone materica della carne squarciata e ai volti e agli spazi onirici intorno. Al di là dell’epidermide ustionata, la carne di quell’uomo, i suoi muscoli, i tessuti, sono ridotti a una poltiglia di ossicini frantumati che spuntano da un magma marrone e i vermi, impazziti di gioia, si rotolano sul fondo della coperta verde. «Nato… Nato», mi dicono i tre ragazzini intorno al fagotto, con una mano si tappano le narici, e con l’altra fendono l’aria e fanno il gesto di chi si taglia il collo e muore. Vogliono farmi paura, hanno schifo anche loro. «Nato bomb, Nato bomb». Poi richiudono la coperta con il bastone, continuano a sibilare «Nato, Nato», ma io ho già voltato loro le spalle. Mi allontano e mi tolgo la mano da sopra il naso, torno a respirare poco alla volta, saggio l’aria a piccoli sorsi perché ho paura che il tanfo sia ancora lì intorno a me pronto a penetrarmi dentro. Salgo in macchina dove Saladin mi aspetta. Passiamo per le strade del quartiere di Abu Salim. Le saracinesche sono tutte abbassate, c’è solo un gruppo di vecchi a prendere l’ombra sotto il ramo di un albero. Mi chiedo a chi fosse appartenuta quella spalla, quel brandello di carne. Di chi era, che cosa faceva quell’uomo. Dove stava qualche minuto prima di morire, prima di essere ridotto in mille brandelli da un’onda di fuoco, quanta paura aveva, quanta paura si ha quando ci si sente braccati e soli davanti alla violenza dalla morte. Urla invisibili e bianche dietro di me squarciano la luce del cielo di Abu Salim.
[Le fotografie sono di Marco Benedettelli]
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grazie.
“Lì c’era una fossa comune, scavando la terra sono venuti fuori migliaia di teschi, femori, costole, ossa di piedi e di mani”.
si tratta di una notizia falsa, come rileva con precisione la cnn:
http://edition.cnn.com/2011/09/25/world/africa/libya-mass-grave/index.html?hpt=wo_c2
la fossa è stata scoperta il 20 agosto.
vi sono stati ritrovati – dopo oltre un mese – solo resti animali.
senza nascondere le atrocità dei regimi totalitari (è credibile – almeno: io ci credo! – che ad abu salim siano accaduti fatti atroci, come nelle prigioni americane di baghdad, come a guantanamo), cerchiamo di non farci megafono letterario delle violenze democratiche velate dalla difesa dei diritti umani, introducendo elementi di propaganda che vanno anche a detrimento della forza poetica dei contributi.
questa informazione viene dall’appassionata ricerca di marinella correggia, una delle poche pacifiste grazie alle quali questo appellativo può dichiararsi ancora valido.
grazie della segnalazione. sulla questione della propaganda, credo tu sia troppo severe nei confronti di marco ma la correzione è preziosa.
Quando la rete viene usata come l’ha usata michele ora, la trovo veramente grandiosa. Uno strumento indispensabile.
Il pezzo di Marco Benedettelli, che avevo appena finito di leggere, è un bel pezzo, scritto bene e con foto notevoli, proprio per questo la segnalazione di michele è doppiamente necessaria, perchè io non avrei avuto alcun motivo di dubitare dell’esistenza di simili fosse comuni, anche se la parola fosse comuni dovrebbe, riguardo alla Libia, subito far suonare un campanellino d’allarme dopo la gigantesca bufala messa in giro da al jazeera e che convinse TUTTA l’opinione pubblica (compreso me) della necessità di un intervento immediato, che avvenne subito dopo e a suon di bombarde in eccesso.
Un grazie gigantesco a michele.
Il pezzo malgrado la non piccola inesattezza rimane interessante, mi ha affascinato soprattutto la descrizione della foto- manifesto, prima sfregiata e poi imbiancata, che rimane nella mente come un reperto artistico pop.
Ho subito pensato alle molte immagini delle statue cadute nei regimi comunisti. Alle teste vendute poi subito nei negozi di Londra. Ho pensato all’mmagine quasi epica immortalata, dal film di anghelopoulos, del gigantesco lenin sul barcone
Non so cosa voglia dire il fatto che in libia (a differenza che in Iraq) statue di gheddarfi non ce ne fossero (o almeno non se ne siano viste), solo gigantografie di carta.
Dalla pietra alla carta vorrà pur dire qualcosa, ma ci sarà tempo per pensarci sopra.
cavolo, mi si è allargato il link! linkato doveva essere solo “del gigantesco lenin sul barcone”.
Mi dispiace,
Se qualcuno può correggere ….
grazie marco
Dialoghetto libico
A – Siamo di nuovo qui.
B – Già; ma l’argomento non è di poco conto, non pensi?
A – Effettivamente … Qual è la tua impressione?
B – Che abbia ragione Michele: quella del “megafono letterario”, tra l’altro, è una bellissima figura.
A – Anche Bortolotti dice che la correzione di Michele “è preziosa”.
B – Però è strano … Bortolotti mi ha irriso per un apostrofo mancato, tirando in ballo quella puttanata del “grammar nazi”; e qui non trova altro da dire che la correzione è preziosa. Preziosa? Qui crolla tutto.
A – In che senso crolla tutto?
B – Quell’errore depotenzia il racconto; lo rende davvero un “megafono letterario” della propaganda a favore della guerra contro la Libia.
A – E con ciò?
B – Con ciò nulla; basta saperlo. E tra l’altro è anche un bel racconto, letterariamente bello. Ed efficace rispetto all’obiettivo di amplificare il senso di disgusto nei confronti del regime di Gheddafi. Però, mi chiedo: a chi giova illuminare la menzogna? A chi giova il disgusto?
A – Fammi capire.
B – Chiunque può capire da sé.
A – Hai letto Georgia?
B – Ho letto, e ho apprezzato. Più di tutto ho apprezzato l’onestà con cui ammette di essersi sbagliata. Chissà se altri, qui su NI, avranno la stessa forza morale. Ricordi Inglese?
A – Ricordo, ricordo. Ne ricordo le parole a giustificazione, oh se le ricordo! Le ricordo, le ricordo; ho dovuto buttarmi nel Tevere per evitare di parlarne.
B – Se continui, però, dovrai nasconderti anche tu.
A – Sì, meglio darsi una calmata. Tra l’altro, visto che siamo in argomento, non è stata raccolta la tua provocazione, quella di pubblicare in Home l’articolo di Ennio Abate sulla Libia …
B – Peccato. Sarebbe stata una buona occasione per fare il punto. Pensali vicini: questo racconto di Benedettelli e l’articolo di Abate: il mondo sotto i nostri occhi: la materia crudele offerta allo sguardo: l’umanità osservata dalle parole:
A – Perché tutti quei due-punti?
B – Così, per omaggiare Sanguineti.
A – Qui, intendo qui su NI, è molto amato.
B – Ah sì? Non si direbbe. Appena possono irridono chiunque si dichiara marxista. E dire che Sanguineti era, e con convinzione, uno stalinista. Valli a capire i letterati! No, credimi: qui amano Saviano, non Sanguineti.
A – Ho sentito che durante il 15 ottobre di Roma ci sarà un vostro volantino contro la guerra in Libia …
B – Vero. E pensa che devo scriverlo io.
A – Uhau! Ti stai gonfiando d’orgoglio!
B – Siamo davvero fragili. Comunque, la traccia è la seguente: in Libia il vento soffia senza ragione; piove senza motivo; e anche il sole splende solo se ne ha voglia. Però c’è il Buco Nero (coordinate: 32°07′00″N 20°04′00″E) che è pieno di tutte le Materie Bestia; ed ecco che i Volenterosi danno luce alle tenebre. Che te ne pare?
A – Stonato, se così posso esprimermi. E poi mancano le fosse comuni e i torti di Gheddafi.
B – No, ci saranno. E altri oggetti in cartapesta e taffettà, ci saranno. E l’allucinazione guerrafondaia della sinistra, ci sarà ben sottolineata. E i sassi e i crani e Obama con la maschera di Bush, ci saranno.
A – Attento, mio caro. Qui Obama ha molti estimatori, molti di più di Sanguineti.
B – Pregherò per loro.
A – Ti ho cercato, stamane.
B – Ho seguito alcuni miei studenti. Volevano raggiungere Viale Trastevere, ma sono stati fermati dalla polizia. Poi mi sono tolto la benda da cieco e li ho visti lanciare uova contro una banca. Ragazzacci!
A – Pubblicherai le foto su Facebook?
B – Devo dare ordini a qualcuno dentro di me per aprire un profilo.
A – Ai Volenterosi non frega nulla della Libia.
B – Non lo dire troppo forte. Se ci hai fatto caso, i bastoni anticipano sempre la parola.
A – ??
Ringrazio Michele per la precisazione, che davvero, colpa mia, mi era sfigguta. Ho appreso la notizia del ritrovamento della fossa comune dalla stampa nazionale. Ho letto dei reportage di giornalisti inviati di guerra che apprezzo molto e mi sono fidato. Ho ritrovato la notizai rilanciata sul sito di una associazione umanitaria che giudico imparziale e mi sono fidato ancor di più. d’altronde non mi risulta che in italia, sui giornali, sia arrivata la smetita dopo questa precisazione della CNN sempre da parte dei giornali. Solo alcuni blog, vedo ora, l’hanno rilanciata. Resta il fatto che tutte quelle persone, comunque, nel 1996 sono state uccise, e i loro corpi non si sa dove siano seppelliti, o siano andati a finire.
Ora capisco che avrei dovuto specificare che apprendevo la notizia dai giornali. E scrivere una cosa tipo: “nei giornali di tutto il mondo, oggi è comparsa una notizia.. ecc”
Detto ciò però dissentisco totalmente sul punto del “megafono letterario delle violenze democratiche”. Nel mio racconto ho cercato di mettere in primo piano anche i morti ammazzati dalla Nato. Ho visto un cadavere, l’ho raccontato. Ho cercato di descrivere lo scempio che ho visto. Ho scritto che era un uomo ucciso dalle bombe della Nato riportando le parole dei ragazzini -queste si le ho sentite con le mie orecchie- che mi dicevano che quell’uomo era stato ucciso dalla Nato. Mentivano? Forse. Oppure No. Come chi mente, o cade in continui errori perché è ossessionato dal bisogno di trovare una giustizia, chi indica continuamente delle fosse comuni.
Insomma quel che voglio dire è che il mio racconto non vuole essere strumentalizzato nè da una parte nè dall’altra. Perché lì si è morti e basta di morte violenta. Perché basta andare lì per vedere come le cose sono complicate, aggrovigliate. Quanto è impossibilie tracciare una linea tra buoni e cattivi. E che la morte, in un posto come Abu Salim è ovunque. PErché quello è come un lager, un gulag, un luogo simbolo della malvagità umana.
accolgo la correzione di Michele, nemmeno io sapevo della smentita.
mi pare però che, se posso permettermi di interrompere il monologo di Stan, tutto il racconto sia un avanzamento per gradi verso il cadavere e anzi resto di cadavere dovuto ai bombardamenti Nato. con quella immagine nauseante e le grida dei tre ragazzini (“Nato bomb, Nato bomb”) Benedettelli accerchia e fissa il suo punto; se apre il racconto con un evento dubbio (il che rispecchia, credo, anche la paradossale difficoltà di reperire informazioni corrette, verificate, da parte del nostro cantuccio di mondo iperconnesso e plurimistificante), lo chiude su una figurazione che a me pare inequivocabile, da cui difficilmente (ma posso sbagliarmi) è deducibile l’intenzione propagandistica di giustificare un orrore come quello che noialtri abbiamo aggiunto, con la consueta e becera ipocrisia, a quello del regime di Gheddafi.
non avevo letto l’intervento di Benedettelli, mentre scrivevo il mio. apprezzo e approvo.
Resta il fatto che tutte quelle persone, comunque, nel 1996 sono state uccise, e i loro corpi non si sa dove siano seppelliti, o siano andati a finire
[…]
Detto ciò però dissentisco totalmente sul punto del “megafono letterario delle violenze democratiche”
Premesso che è verissimo che nel 1996 ci fu una carneficina di regime, Premesso che il tuo pezzo mi è piaciuto, capisco però anche l’avvertimento a non fare il megafono delle violenze “democratiche”, perchè tu, forse inconsapevolmente, partendo dalla prigione, dalle fosse comuni e dai morti del 1996 arrivi al morto della nato, il tragitto sembra quasi una giustificazione per il civile bruciato dalle bombe, quasi come se quel morto fosse la conseguenza naturale dei morti del 1996, mentre credo tu sappia benissimo che se francesi e inglesi e americani (di malavoglia questi ultimi) hanno bombardato in do cojo cojo non è stato certo per vendicare i morti del ’96 (altrimenti si sarebbero mossi prima) ma solo per motivi di neocolonialismo, per i giacimenti di uranio ai confini del ciad (indispensabili ai francesi per le centrali nuclaeri) per il solito petrolio e per le falde aquifere e per cento altri motivi come l’avanzata economica della cina in africa, cento motivi che non riguardano i morti del 1996.
Ora io non dico che l’intervento in libia non andasse fatto, non lo so, so ancora troppo poche cose. Dico solo che non è giusto far passare i bombardamenti come terribili, ma necessari e indotti dai comportamenti feroci dei dittatori … ormai è chiaro a tutti che delle vittime dei dittatori e dei civili che muoiono sotto le bombe non interessano a nessuno.
Ho approfondito un attimo la questione della presunta fossa comune con le notizie che sono riuscito a trovare in rete.
La segnalazione di Michele resta preziosa. Però, purtroppo, devo aggiungere che è imprecisa.
Le cose sono andate così: Il Cnt il 25 ha annunciato il ritrovamento della fossa comune. Ad Alcuni giornalisti della Cnn che sono riusciti a recarsi sul posto quelle ossa “sembrano” ossa di animale.
Il che è differente, dal dire, come si scrive, forzando, che:
“… vi sono stati ritrovati – dopo oltre un mese – solo resti animali”
Con l’emergere delle varie incongruenze dopo il ritrovamento, Ben Noor, il senior official del ministero della giustizia e dei diritti umani libico, ha dichiarato che quei ritorvamenti “potrebbero essere qualcosa di diverso” della fossa comune dei martiri del 1996.
L’annuncio del ritrovamento della fossa comune è probabilmente una bufala usata a scopi propagandistici dal CNT (La dinamica degli eventi me lo fa sospettare). Per dovere di cronaca però, va segnalato che non è vero che si è giunti, ancora, alla comprovata certezza che si tratti di ossa animali o di soli animali.
Amnesty, per esempio, si agura che il CNT chiami a raccolta degli esperti per approfondire la questione e analizzare scientificamente i resti per scoprire la vierità e non illudere i parenti delle vittime
Dal mio errore traggo molti insiegnamenti. Mi sono fidato di reportage scritti da giornalisti presenti il 25 settembre, lì ad Abu Salim, che raccontavano di aver visto le ossa dei morti. E ho sbagliato. Condivido le osservaiozni di Teti: ci illudiamo di capire la verità dal nostro piccolo angolo di mondo iperconnesso ma in realtà finiamo per fare il gioco della ipermistificazione.
Cara Giorgia. La visione del cadavere, o di ciò che ne resta, è avvenuta alla fine di questo mio giro all’interno del carcere di Abu Salim. Diciamo che la consequenzialità della scoperta, dell’incontro, è arrivata davvero in base al caso. Non c’è nessuna costruzione narrativa a posteriori. Detto ciò, nel mio racconto non c’è, o ti assicuro che non vuole esserci nessuna volonta – magari insconaspevole – di “giustificare” un morto ammazzato. Se ciò fosse devo farmi un serio esame di coscienza. Anzi, quando nel carcere mi annunciavano della presenza di questo cadavere, io confusamente credevo che fosse di un ribelle morto, o di un detentuto morto. Solo alla fine ho scoperto che si trattava di una persona uccisa (forse) dalla Nato. E questo ha, come dire, ancora di più alzato il grado di disorientamento che si apre in noi davanti a eventi storici cosi complessi (La guerra è sempre una voragine) Dopo aver visto i luoghi dove la dittatura di Gheddafi compiva i suoi massacri, mi sono ritrovato davanti a un martire (un civile, un miliziano di Gheddafi?) ucciso dal fuoco democratico della Nato. Alla morte si è aggiunta morte, come in un incubo che non trova uscita o risoluzione, dove chi perde è solo la vita umana schiacciata da un male assoluto. O questa quantomeno è la mia idea, l’idea che mi sono fatto, e che ho cercato di insinuare nel mio racconto.
hai notato che quando si inizia la mitologia di “nuovi” stati nati da rivoluzioni (vere o presunte) si usa sempre il topos del carcere … del resto ancora oggi la rivoluzione francese è legata soprattutto alla caduta della bastiglia anche se dentro la bastiglia non c’era quasi più nessun prigioniero da tempo.
Ora però mi domando quanti carceri di NON dittatori reggerebbero ad una visita? pochi, visto che neppure luoghi transitori, e non di pena, come quelli per immigrati, non reggono mai alle visite improvvisate dei giornalisti, un po’ meglio va quando sono visite guidate.
La tua da quello che capisco era una visita guidata (ma all’opposto).
Io sono certissima della tua buona fede, ma ancora non capisco bene il significato della visita al carcere, quasi fosse ormai un posto turistico.
Non puoi negare di aver un po’ aderito acriticamente al legame ufficiale (e forzoso) tra i fatti del 1996 e la “rivoluzione” del 2011: “Quindici anni dopo, il 17 febbraio 2011, la rivoluzione in Libia è iniziata con la grande manifestazione ….”.
Io ad essere sinceri non so ancora quando, come e perchè sia inizata la “rivoluzione” libica, mentre so come sia iniziata in tunisia e in egitto.
Non so neppure se sia stata una rivoluzione, a me, comunque andrà a finire, non sembra proprio (e questo non vuol dire che sia stata una cosa sbagliata), ma posso sbagliare.
ah …mi chiamo gEorgia
Ciao Georgia, (scusami!). Ecco il motivo della visita ad Abu Salim: Al carcere ci sono andato per motivi giornalistici. sono stato a Tripoli qualche giorno con una nave di aiuti umanitari. Quando riesco parto e poi scrivo articoli che pubblico da frilence in qualche testate. Gli stessi giorni ho avuto modo di incontrare i ribelli di zintan e di Tripoli, di visitare il Bunker di Gheddafi e il suo compound, l’ambasciata Italiana distrutta, di vedere i parenti dei morti uccisi dai ribelli chiedere ai funzionari del nuvo governo dove fossero i corpi dei loro figli e di essere trattati da loro come degli idioti, e di girare Tripoli in lungo e il largo. Sempre per motivi giornlistici ho visitato vari centri di tentenzione per Migranti, a Malta e a Lampedusa (e quelli spagnoli e greci)e forse sono posti che fanno anche fanche più rabbia e schifo di Abu Salim.
Detto ciò non sono un “interventista”, anche se non nego che ho sempre sperato che Gheddafi finisse presto in rovina. Poi la guerra (la guerra civile e non rivoluzione) che c’è stata in Libia è stata una cosa tragica. Sempre in veste di giornalista, ho visiato anche la Tunisia, ho visitato sidi bouziz e parlato con le famiglie dei martiri di kasserine. Poi sono stato nei campi profughi siriani al confine con la Turchia, sempre per capire da dove viene il vento della primavera araba.
Forse ho aderito, come dici tu, acriticamente al legame morti del 96-proteste. So dai giornali-ma a questo punto sarà vero? -che le porteste negli anni non sono mancati, che a Bengasi c’è una piazza con tutta la foto dei martiri del 96 dove la gente, liberata la città, si riuniva a commemorare e pregare, che i membri delle associazion delle vittime sono stati i primi ad essere arrestati durante la manifestazione del 17 febbraio (quella che ha dato il nome poi a tutta la rivoluzione o guerra civile). Insomma, mi pare innegabile che quell’episodio abbia lasciato uan ferita profondissima e che è uno di quegli episodi che dimostrano quanto gheddafi fosse un sanguinario, oltre che il capo di un governo che garantiva ai libici l’università gratis, che compiuti i 18 anni ti ragala la maccina (te la compravi per 1800 euro), che garantisce sussidi di disoccupazione ai giovani o alle famiglie da 4’00 euro al mese, che regalava zucchero, farina, caffè a tutte le famiglie ogni trenta giorni? ecc
Ma non voglio parlare di politica. Odio la guerra, l’interventismo, le torture e le violenze su donne e uomini. Questa è la questione.
oltre che il capo di un governo che garantiva ai libici l’università gratis, ecc ecc.
ah beh, su questo almeno concordiamo in pieno:-) anche perchè il famoso libretto verde è una boiata colossale che non ha mai funzionato (per stessa ammissione di gheddafi) per il semplice motivo che NON poteva funzionare.
Gheddafi era un dittatore come molti altri (forse un po’ più folkloristico e meno guerrafondaio) e che cercava di avere un briciolo di consenso quindi usava prudentemente i proventi del petrolio ecc.ecc.
Certo che mi auguravo pure io che schiattasse, ma certo non a prezzo di bombardamenti ad opera degli “ex” colonialisti che hanno approfittato biecamente dei sommovimenti dei paesi vicini dove era invece avvenuto qualcosa di molto diverso.