La società incivile e il diritto come campo di neutralizzazione
di Daniele Ventre
Racconta Erodoto (Storie, I, 96-98) che i Medi, da poco liberatisi dagli Assiri, erano devastati dalla più totale anomia. Fra di essi si sarebbe distinto però un certo Deioce (il futuro fondatore mitico di Ecbatana, Hangmatana, il “Punto di incontro”), il quale, a differenza degli altri notabili e capitribù vicini, spiccava per equanimità e giustizia, virtù che indussero i Medi a eleggerlo re, così da non essere più soggetti all’aleatorietà destabilizzante di un mondo senza leggi.
Come tutti i miti, la leggenda di Deioce (nessun dato induce a identificarlo con il Daiukku che certe iscrizioni di VIII sec. a.C. dichiarano essere stato vassallo degli Assiri e amministratore della Media per loro conto) contiene in sé una verità metastorica che trascende l’aspetto evenemenziale del racconto preso di per sé stesso: in una situazione di anomia che mette in pericolo la comunità, l’argine che immediatamente la comunità stessa trova è il riconoscimento di un’autorità giudiziaria.
In questa situazione qualcuno riconoscerà a tutta prima la condizione di eccezionalità (Ausnahmezustand) teorizzata nel controverso pensiero di Carl Schmitt: in uno stato d’eccezione, diviene organo sovrano quell’entità politica (che possa o meno identificarsi con una persona fisica) in grado di farsi garante della legalità -e talora accade che le condizioni di uno stato di eccezione siano precostituite ad arte. Da questo punto di vista, l’intero, precario equilibrio sociopolitico ed economico sembra destinato a reggersi unicamente sul controbilanciarsi reciproco di minacce di ritorsione, o di coazioni ricattatorie più o meno velate, in un rapporto distorcente, e intercambiabile nei ruoli, fra persecutore-salvatore e ribelle-iperadattato.
In realtà nel mito di Deioce, narrato da Erodoto, lo stato di eccezione, per quanto embrionalmente concettualizzato, ha un ruolo marginale. Il racconto erodoteo parte da una situazione di effettiva, endemica instabilità socioeconomica iniziale, legata a una situazione di anomia (fra i Medi, ribadisce sempre Erodoto, sarebbero stati fenomeni comuni le malversazioni, le razzie, le iniquità). In un simile contesto, Deioce diviene garante di legalità per la sua naturale autorevolezza di giudice equanime. La comunità dei Medi decide allora di tutelarne gli interessi per offrirgli la necessaria serenità e autonomia di garante al di sopra delle parti. Mancano, nel racconto Erodoteo, due connotati della tipica situazione d’eccezione schmittiana: l’anomia, o la disnomia, è una condizione originaria, endemica, non viene messa in evidenza nei suoi connotati di immediato, eccezionale, pericolo emergente; soprattutto, l’organo che infine diventa sovrano non appare delineato sin da subito come autorità che per sé stessa, pur emergendo dalla storia, si pone quasi come estranea e superiore al corpo sociale: Deioce, di quel corpo sociale, è piuttosto parte, e il suo riconoscimento come referente giudiziale primario è espressione della comunità stessa. Per altri versi estraneo al racconto erodoteo è anche l’insieme di connotati che nella dottrina politica moderna definiscono, per un certo aspetto, la figura del Leviatano di Hobbes, per un altro l’idea spinoziana dell’equilibrio politico basato su una sorta di diritto di guerra: non vi si può rinvenire al principio il quadro di un astratto bellum omnium erga omnes, ma quello di una concreta instabilità sociale, e non c’è nessun processo logico-additivo delle particole di potere sottratte ai singoli perché confluiscano nello Stato; non si assiste infine all’emersione di un mero equilibrio paritario di forze, ma alla mera convergenza, per convenienza operativa, attorno a una persona fisica che svolge la funzione di fonte animata del diritto (nomos émpsykhos). Soprattutto, lo scenario di partenza del mito può essere definito, da diversi punti di vista, apolitico: sia nel senso schmittiano (manca l’opposizione di fondo fra amici e nemici e i Medi puntano piuttosto, scegliendo Deioce, alla neutralizzazione); sia nel senso hobbesiano e spinoziano, per i motivi che si sono detti; sia, soprattutto, nel senso greco, visto che non c’è fra i Medi un nomos, cioè un modello condiviso di relazione sociale, rappresentanza, comportamento affermatosi come legge in quanto consuetudine distintiva dell’identità di un corpo sociale, un ordine socioculturale identificato e identificante il cui rispetto è la condizione essenziale per attuare la propria eleutheria, libertà responsabile nella comunità, all’interno dello spazio pubblico. Quella che Erodoto delinea col mito storico di Deioce è l’evoluzione di una società apolitica i cui membri, per sfuggire agli inconvenienti dell’anomia, o meglio, di una disnormatività fonte di squilibrio, si mettono nelle mani di un organo magistratuale che neutralizzi i conflitti. La dimensione primordiale della leggenda storica narrata da Erodoto trova perfetto rispecchiamento nella dimensione della regalità originaria per come viene delineata da uno dei testi giuridico-politici più antichi della storia, il Codice di Hammurabi, iscrizione regale (insieme propagandistica e promulgatoria) in cui la sovranità si identifica per la capacità do “dare giustizia” al popolo, o meglio di “reggerlo, indirizzarlo, farlo procedere diritto, raddrizzarlo, definirne la direzione, stabilirne i diritti”, secondo le molteplici connotazioni della voce accadica esheru che contraddistingue tale funzione come propria e specifica del sovrano*. Allo stesso modo, nella Grecia pre-politica o proto-politica della tarda età geometrica (fra Omero ed Esiodo), il ruolo dei basileis, residuo di autorità venuto fuori dal naufragio delle monarchie micenee piombate nell’età buia, è quello di stabilire una itheia dike, una “giustizia diritta”, o meglio, andando all’etimologia dei termini, una “indicazione retta” sul piano della norma. La stessa radice di termini italici e celtici come rex e rix (dalla radice i. e. *Hreg-, “reggere”, “dirigere”), mostra come, per convergenza evolutiva, nella politicità ancora in fieri o di là da venire delle società tribali arcaiche fra Europa e Medio Oriente, la sovranità intesa come punto di riferimento primario rivestisse questo ruolo di indicatrice della norma, in un sistema sociale dominato dalla sopraffazione, dalla a-norm-alità, dall’imporsi del più forte.
La situazione della Media di Deioce, il contesto per cui membri di un gruppo sociale impolitico e anomico rinvengono nella figura ipostatizzata del giudice l’unica ancora di salvezza, fornisce uno schema interpretativo abbastanza calzante circa la situazione dell’Italia del berlusconismo -intendendo il berlusconismo non tanto nella sua accezione ristretta, come pensiero della maggioranza di centrodestra, ma piuttosto nella sua accezione ampia, e più vera, di orientamento comune, per vari tratti, alla classe dirigente del periodo 1994-2011, al di là dello schieramento partitico. Un connotato essenziale dell’Italia berlusconiana, un fattore distintivo i cui sviluppi hanno radici lontane, è essenzialmente l’impoliticità. Non è nemmeno un caso che i due eventi scatenanti dell’entpolitisierung italica possano in larga parte individuarsi in due momenti tesissimi della nostra storia giudiziaria, il detonare del caso P2, al principio degli anni ’80 del secolo scorso, e ovviamente l’esplosione di “mani pulite” -l’ora in cui parve, per riecheggiare alla lontana un noto articolo di Cesare Garboli, che l’ufficiale di Sua Maestà potesse davvero arrestare il nostro canceroso Tartufo. E ancor più banalmente, non è un caso che la risposta della classe dirigente (che continuo a non chiamare classe politica per evidenti ragioni), sia stata, di fatto, l’attuazione, sia pur in forma parzialmente attenuata, di quell’autoritarismo che serpeggiava nei progetti di sovversione più oscuri (piano di rinascita in testa), più o meno eterodiretti, della storia d’Italia fra la fine della seconda guerra mondiale e la fine della guerra fredda. Al configurarsi della svolta autoritaria morbida che il berlusconismo rappresenta, e che introduce una cifra comportamentale (prevaricatoria e prevaricatrice) riconoscibilissima, e deteriore, della socialità italica, hanno contribuito in egual misura quasi tutti gli schieramenti in cui la classe dirigente si divide: ovviamente la “destra”, come esplicito propulsore diretto del momentaneo riassestamento egemonico (che impropriamente alcuni chiamano cambiamento politico), ma anche la “sinistra”, che ha barattato la vecchia teologia negativa del potere, che le era propria nel contesto dell’antica dialettica DC-PCI, con l’acquiescenza (-complicità) fattuale ammantata di critica arguta (d’ora in poi gli orientamenti partitici italiani apparranno qui adorni, per evidenti motivi, di attenuative virgolette). In un simile contesto, l’emissione di norme e la loro attuazione non ha connotati di attività politica legislativo-esecutiva, ma si pone semplicemente come intermediazione economica di secondo livello: è un’attività dirigente di carattere meramente gestionale, che agisce sulle strutture economiche e culturali della società civile ammantandosi di una presunta infallibilità conferitale in rebus dalla congiuntura e dalla sua interpretazione unidirezionale secondo la forma della ragion tecnica. In questo senso la gestione delle forze socioeconomiche sul territorio (perifrasi che d’ora in poi sostituirà il termine “politica”, che non vi si identifica) produce una peculiare neolingua, centro e cardine della quale è l’espressione “azienda Italia”, che deve essere rimessa in pari o dismessa o smembrata, o anche abbandonata per le Bahamas con sbottamenti di turpiloquio, ove si ostini, misteriosamente, a non seguire muta e ossequiosa le indicazioni imposte dal direttore generale. Corollario: noteremo anche, incidentalmente, che come accesso all’attività-funzione di intermediazione economica di secondo livello, o di supergestione interaziendale sul territorio, o di regolamentazione economica di secondo ordine, la collocazione nella classe dirigente è stata in gran parte la via italiana al terziario avanzato. Altrove, per esempio negli USA, in bene come in male, certe attività di carattere gestionale di secondo livello, pur fortemente interfacciate con la politica, non vi si identificano. Non è un caso -e spero di sbagliarmi- che su larga scala il post-industriale italiano, se si esclude forse solo la telefonia cellulare, sia sostanzialmente abortivo: in realtà il nostro (feudal-)capitalismo postindustriale siede in parlamento, o nei consigli regionali, provinciali, comunali (se si esclude qualche eroica eccezione), e ai fini del benessere dell’intera società civile è un (feudal-)capitalismo postindustriale pletorico, e nella sostanza improduttivo. Quale sia poi, sul piano decisionale, l’efficacia dell’azione di un simile comitato di pietra (scheggiata), è evidente dal contraddittorio sull’ultima finanziaria, che certo non pareggerà il bilancio, ma sicuramente si mangerà un altro pezzo più o meno sostanzioso dei nostri “diritti” di “cittadini” (ancora una volta, in un tripudio obbligato di virgolette).
La gestione-regolamentazione delle forze socioeconomiche del territorio non conosce reali divisioni fra schieramenti, ma solo tensioni fra gruppi di interessi in perpetua cerca di riassestamento egemonico. L’input politico delle elezioni, dominate da una superficiale propaganda di colori, viene mediaticamente indirizzato (per dirla con Dahrendorf e con Chomsky) e viene poi ridotto e normalizzato da un output non lineare -così che l’elettore “conservatore”, votando a “destra”, potrebbe vedere non attuata la sospirata secessione dal sud degenere o potrebbe assistere al governo di un lenone vagamente pedofilo, mentre l’elettore “progressista”, votando a “sinistra”, potrebbe veder sancito il precariato e la depauperazione della scuola pubblica -ma c’è da ricordare che il più delle volte l’output per l’elettore è indifferente. La gestione-regolamentazione non concepisce nemmeno la divisione montesquieuiana dei poteri. Il supremo gestore mediatico, chiunque egli sia, crea il suo partito-azienda, o meglio, il suo staff di pubbliche relazioni, detenendo l’esecutivo e neutralizzando il parlamento. Al di là della gridata gogna, le dinamiche di congiuntura e riassestamento lo hanno di fatto, per lungo tempo, posto al riparo della pur blanda confutazione elettorale. L’unico fattore residuale, non ridotto, della vecchia tripartizione dei poteri, è la magistratura, in particolare la magistratura penale, che il cast gestionale non è finora del tutto riuscito a rendere “innocua”. Accade così che nella società impolitica, e sostanzialmente in-civile, dell’Italia contemporanea, la “riforma della giustizia” sia il salto dell’asino di ogni riassestamento egemonico incompiuto, e nello stesso tempo sia, in determinati periodi, ipostatizzata, quasi mitizzata, una sorta di redivivo Deioce per tribù iraniche in coma disnomico. Ed è perciò che l’ultimo fronte violento di lotta interna, l’ultimo vero e proprio bellum civile, sull’alto piano istituzionale, con morti e feriti, è sorto intorno alla magistratura, con i suoi eroici nomi (da Livatino, a Falcone, a Borsellino), insteriliti e sviliti nella stanca ripetizione delle pubbliche commemorazioni, che consegnando l’eroe al passato, lo riuccidono nei fatti celebrandone nel nome l’apoteosi -considerando per di più che nel nostro tempo la memoria o è un optional o è, nella migliore delle ipotesi, un’interpretazione funzionale all’oggi. Questa ipostatizzazione nasce da un dato di fatto: dei vecchi poteri, quello giudiziario-magistratuale è l’unico a non essere stato (in senso filosofico) ridotto, è l’unico rimasto nella sostanza autonomo, per quanto corruttibile esso sia. In pratica, è l’ultimo organo istituzionale che, per quanto sia spesso degenere e inefficiente e brontosaurico e corruttibile nella prassi, si oppone ancora di principio al cast gestionale con l’inquietante imprevedibilità di un interlocutore ontologicamente autonomo, che per sua natura non può essere totalmente ridotto, né de iure, né de facto, né in re, né in dicto, ad alcuna componente economica sul territorio, sia essa industria o banca o mafia o religione.
L’ipostatizzazione della legge, e del magistrato in specie, non è ovviamente un rimedio. Prima di tutto, corruttibilità, inefficienze, arbitrii, rimangono a ferire il cittadino comune, che non può scatenare il potere dei media -che anzi, in presenza di un processo penale diventato spettacolo, lo travolgono, disinterpretando ogni dettaglio privato e reinserendolo nell’ottica del crimine a cui l’ipotetico colpevole è ormai associato, morta la presunzione d’innocenza del diritto penale moderno. Soprattutto, la magistratura, nella sua residuale autonomia, è sì irriducibile, il che è irrinunciabilmente un bene, ma è anche potenzialmente fuori controllo. Appare evidente a chiunque il degrado giuridico di una società in cui una pletora di dispositivi normativi (chiamarli “leggi” è improprio) spesso in potenziale contrasto fra loro, apre sovente la via, nella contingenza del dibattimento civile o penale, all’interpretazione della norma e della procedura (uso i termini con voluta, parziale, improprietà, in senso metaforico) -e la proliferazione di leggi e la pericolosità dell’esercizio del diritto penale sibi permissus emergeva per esempio, sotto altri cieli, per altri problemi, in tempi e luoghi non sospetti, o meno sospetti dei nostri, almeno per certe questioni, (Francia, 1966), in un aureo libretto di denuncia dei magistrati Denis Salas e Antoine Garapon, La république penalisée, nel quale si stigmatizzavano le potenziali storture di cui è capace una legislazione minuta che abbia l’occhio alla discrezionalità, sia pur socioeconomicamente non “ridotta”, del magistrato, e che trasforma il cittadino nell’ospite mal sopportato di una casa di correzione. Tornando a noi, e ai nostri sospettissimi tempi, nella sostanza dei fatti, se la società italiana degli anni ’10 del XXI secolo è regredita, fra governo e parlamento, “federalismo” ed “autonomie” locali, alla dimensione prepolitica che vigeva agli albori della protostoria, prima del codice di Hammurapi e della civiltà che lo ha prodotto, il massimo che questa società in-civile è riuscita a darsi, come orizzonte ideale, è l’ipostatizzazione discontinua di una figura di magistrato-giustiziere che soggettivamente decide nella contingenza del giudizio. Un giudizialismo improprio che invoca l’intervento ex machina (iuridica) di una divinità bifronte, i cui poteri, di fatto fuori controllo, si sperano astrattamente limitati a un certo ambito -e non possiamo nemmeno parlare di deriva giustizialista, che è un fenomeno diverso, meno ibrido, più netto, tipico di civiltà giuridiche di prassi e credibilità sociale più mature. Così, nello spazio pubblico lacerato da mille singolarità, il cittadino abdica alla sua responsabilità politica, mentre il magistrato diventa, per altri aspetti, l’auspicato censore cosmico di quelle singolarità, il tecnico del sociale sforacchiato, la figura a cui si richiede, su varia scala, il riparo del pubblico guasto.
I paradossi dell’assenza del politico, che nascono da questa situazione, sono molteplici e tutti suscettibili di pericolosi sviluppi. Al fondo, rimane il paradosso dell’autorità, additato già nel 1921, alla vigilia dell’avvento fascismo, da un maestro defilato del diritto italiano, Giuseppe Capograssi, che in un’opera a suo tempo misconosciuta (Riflessioni sull’autorità e la sua crisi), identificava la matrice della politica nell’autorità come espressione positiva della partecipazione responsabile dell’individuo al costituirsi della comunità. Sia il cast gestionale sia la massa degli uomini comuni, intimamente impolitici, incivili, alieni anche solo all’idea di assunzione autorizzante di responsabilità, cercano piuttosto autoritarismi deresponsabilizzanti -di qui la dialettica impropria fra il presidente criminale e la magistratura senza qualità. E da questa dis-assunzione di responsabilità, la dimensione umana ne esce es-autor-ata, sul piano cognitivo (avere autorità significa poter dire auctor sum, sostengo in buona fede e in buona fede lotto per ciò che sostengo, pronto ad accettare la smentita) e sul piano etico-politico -al punto che è possibile il rovesciamento di ogni coordinata assiologica, così che il precario che lotta per il suo diritto al lavoro diviene, nelle parole di Brunetta, “la parte peggiore d’Italia”, la cultura diventa, nelle parole di Tremonti, un’attivitià voluttuaria con cui “non si incartano panini” (non sarà mai stato nei ristoranti danteschi del centro di Firenze), un mafioso pluriomicida diventa, nelle parole di un Dell’Utri, addirittura “un eroe”, il pluralismo e il pensiero laico diventano, nelle parole di Woitila e Ratzinger, “pericoloso relativismo” e “false luci del mondo”. Espressione pubblica del paradosso dell’autorità è il paradosso della comunità. Vi sono certo uomini e le donne che, magari a partire dai cosiddetti movimenti “antipolitici” (che a questo punto sono in realtà genuinamente politici, la vera antipolitica essendo truffaldinamente e saldamente attestata nel palazzo, a “destra” come a “sinistra”, dall’impero mediatico alla tecnostruttura bancario-burocratica, passando per la dirigenza FIAT), sostengono con più sincerità e coscienza, fra gli altri temi di punta, l’azione della magistratura contro il premier criminale: ma anche così, non bisogna mai dimenticare un dato. C’è il serio rischio che il punto di riferimento per la ricostituzione di una com-munitas, cioè di una società in cui ognuno è titolare di un munus, contributo-remunerazione sociale (per seguire alla lontana Roberto Esposito), sia una delle tante cerchie di im-munes, di membri di un ordine professionale riverito e forte che ha, ben ritagliato nello spazio pubblico, il suo témenos di prerogative di casta. A un livello più ampio, mentre i più diversi centri di potere (grande capitale, classe dirigente, chiesa cattolica, mafie) si ritagliano a vario titolo e in vari contesti spazi sempre più larghi di immunità, e lo spazio vitale dell’homo com-munis viene così svilito, sminuito e diminuito sempre di più, insieme alla sovranità e all’autorità pubblica, si cerca diffusamente nell’ambito del diritto (inteso in senso ampio di funzione giuridica e godimento di diritti irrinunciabili) quello che con Schmitt possiamo chiamare un campo di neutralizzazione dei conflitti storico-sociali, un ambiente socioculturale dove riparare, a cui ricondurre ultimativamente i conflitti, perché siano risolti e neutralizzati -Schmitt vedeva nella tecnica come dominio sulla natura il campo di neutralizzazione dominante nell’età contemporanea. Fatto sta che mentre la tecnica è di per sé un campo di neutralizzazione cieco (come Schmitt stesso nota), in pratica non è un vero campo di neutralizzazione, ma solo un insieme di apparecchiature prostetiche, nel frattempo ognuno dei sullodati centri di potere ha la forza di tutelare i suoi privilegi a danno di tutti, almeno fin dove cominciano i privilegi di un altro centro di potere; ogni centro di potere cerca di legittimarsi a partire dal suo pacchetto di non negoziabili diritti; ogni centro di potere definisce il suo specifico campo di neutralizzazione, avendo la forza di piegare almeno in parte a proprio vantaggio il diritto in senso giuridico; ogni centro di potere, nella crassa materialità della sua deriva storica e della sua riduzione economica, ha abdicato alla sua autorità (significherebbe altrimenti riconoscere l’autorità altrui in un clima di valorizzazione dell’altro), in nome di un autoritarismo particolare; ogni centro di potere (partito chiesa impresa cosca) non concepisce l’altro nella problematica dialettica di interlocutore-avversario (iustus hostis), ma cerca di ridurlo a termini nulli, fagocitandolo, o di annientarlo (mediaticamente economicamente fisicamente), se si dimostra irriducibile, consumandosi in una guerra di dissipazione sociale senza uscita qualora l’avversario non sia eliminabile.
In questo contesto, il diritto è un concetto vuoto, senza autorità, la moltiplicazione dei diritti si traduce solo in moltiplicazione delle tutele, e dunque dei controlli, la società incivile oscilla fra la situazione somala della disintegrazione tribale, la situazione algerina dello stato d’eccezione permanente e un totalitarismo strisciante perché, ancora una volta, in rebus, la libertà diviene semplicemente una libertas senatoria, tutela dell’immunitas di alcuni a danno della communitas svilita di tutti gli altri (“libertà della chiesa”, “popolo delle libertà” etc.), il ricorso all’ipostasi decentrata del magistrato essendo ormai solo più l’invocazione incerta e asfittica di un Cesare ancora di là da venire, o di un altro Deioce, fondatore di una nuova Hangmatana, di un nuovo Punto di Incontro.
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*Rimando a tal proposito all’articolo Il “codice” di Hammurabi: promulgazione di norme o celebrazione del buon regno? di Giovanni B. Lanfranchi
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Leggo: “Come tutti i miti, la leggenda di Deioce […] contiene in sé una verità metastorica che trascende l’aspetto evenemenziale del racconto preso di per sé stesso”.
Domando: è vero che tutti i miti contengono in sé stessi una verità metastorica che trascende l’aspetto evenemenziale del racconto preso di per sé stesso?
Se questo è vero, allora è lecito estrarre anche da questo mito una “verità metastorica”. Se questo non è vero, allora tale operazione non è lecita.
Ventre, evidentemente, ritiene che sia vero. E non si perita di dimostrarlo: ovvero, ritiene che l’affermazione “Tutti i miti contengono in sé stessi una verità metastorica che trascende l’aspetto evenemenziale del racconto preso di per sé stesso” sia un luogo comune, ritenuto vero da tutti o almeno dai più. Ma è così?
Ventre passa poi a estrarre dal mito la seguente “verità metastorica”: “In una situazione di anomia che mette in pericolo la comunità, l’argine che immediatamente la comunità stessa trova è il riconoscimento di un’autorità giudiziaria”.
Sarebbe ovvio aspettarsi un passaggio argomentativo, nel quale si spieghi (se non addirittura si dimostri) che da quel mito si deve, o almeno si può, estrarre quella “verità metastorica”. Ma Ventre non si perita di farlo. Il passaggio, presumo, gli sarà sembrato evidente. Ma è vero che è evidente? Non si potrebbero estrarre, da quel mito, considerando il modo in cui Ventre lo riferisce succintamente, “verità metastoriche” un po’ diverse? Del tipo: “Quando mancano leggi, i popoli si dotano di un re”; o: “Un uomo equanime e giusto ha più probabilità di essere elettore che un uomo non equanime e/o non giusto”, eccetera.
“La “sinistra”, che ha barattato la vecchia teologia negativa del potere, che le era propria nel contesto dell’antica dialettica DC-PCI, con l’acquiescenza (-complicità) fattuale ammantata di critica arguta”. Non credo che nell'”antica dialettica DC-PCI” fosse predominante la “teologia negativa del potere”. C’era semmai una competizione per il potere, condotta secondo la vulgata machiavelliana del “fine che giustifica i mezzi”, ossia dell’inserimento degli uomini di partito in tutti gli ambiti statali, pubblico impiego,amministrativi, imprese a partecipazione statale, ecc. per rafforzare il partito (il fine) giustificando così clientelismo, corruzione, opportunismo (i mezzi). Ed è proprio questa “dialettica” che ha portato oggi al livellamento di specificità politiche dei partiti attuali, eredi in qualche modo di quelli. Il potere non veniva demonizzato, semmai criticato quando era in mano ai partiti avversi, ma ambito quando presentava opportunità di entrata.
Gentilissimo Ventre,
una rana che salta rende strabici. Un’anguilla, invece, sguilla. Il suo testo scappa dal lettore. Ha buona lingua, e dotta, ma proprio, proprio rischia di fare solo rumore. Un letto a venti piazze risulta in gran parte inutilizzabile per fare fronte ad un’amante insaziabile.
Io, che pure sono studiato, ho capito poco il fondo. Ho capito che tratteggia una similitudine tra Deioce e l’Italia del berlusconismo, sulla base del giudice “come ancora di salvezza”, di un “organo magistraturale che neutralizzi i conflitti”. Se ho inteso bene (ma non è facile, mi creda), la magistratura è l’unica a sfuggire alla normalizzazione. Nella gestione “impolitica” del potere, la magistratura è l’ultimo organo istituzionale che “si oppone ancora di principio al cast gestionale”.
Detta così, la trovo una fanfaronata. Ma sospendo il giudizio, non avendo capito il peccato. Sono distratto come un Dio?
La seduzione manca al suo testo. Lo copre una nebbiolina insistente e molto garbata. A parte alcune boutade, alquanto inspiegate (una sola mi permetto: la “peculiare neolingua” che ha al suo centro l’espressione “azienda Italia” è, in realtà, antica quanto il capitalismo; se lo vorrà, ne troverà tracce in Gramsci), mi sfugge l’anima.
Non essendo Dio, mi ci posso abituare. Ma anche l’inferno è una cosa seria.
Lei dice che si cerca nell’ambito del diritto “un campo di neutralizzazione dei conflitti storico-sociali” … Le dico io: quando mai non è stato così? Solo che il diritto arriva sempre ex post. E allora: cos’è che rende, quali forze rendono i conflitti sociali presenti al di là dell’incombere del diritto? Un conflitto mette in forse la vecchia gestione del diritto; se ne è capace, apre le porte ad un altro diritto, e così via all’infinito …
Il diritto, ad esempio, mi dice che adesso un marito è da qualche parte a fare la guerra. E la moglie è sul mio letto. La seduco al di là di ogni norma. La prassi, questa infame, ignora gli svantaggi del diritto. Pensa solo al suo godimento.
Gentilissimo Ventre, non mi prenda troppo sul serio. Mi liquidi con una battuta. La seriosità – mi creda – uccide più del diritto.
Ah, dimenticavo: dietro il diritto cosa si nasconde?
Non esiste un diritto più diritto di tutti. Esiste solo lo scorrere inesorabile dei conflitti. Storia vuole che si cerchi di regolarli a seconda delle convenienze. Il diritto che si impone è quello del più forte. Sempre.
Ma, davvero, chiedo perdono. Il suo testo è impietoso. E intanto la mia amante è fuggita. Odio la filosofia.
Stan. L.
(stan lo sai vero che l’amante è fuggita per il tenore sessista del tuo commento, e che con tutta probabilità l’ha sparso ai quattro venti, come minimo in venti piazze diverse, tahir compresa, e che un plotoncino compatto di almeno venti compagne, amanti e ululanti ti sta dando la caccia in ogni dove ed è pronta a randellarti in una piazza della prassi del mondo a caso, nord europa compreso? Ocio a uscire dall’harem dei torbidi sussurri privati !(immune e neutralizzante e d’occidente, tipo questo colonnino dei commenti ma anche il pezzo non scherza ).
Gina cara,
come può, un essere senz’anima, dare prova di sessismo? Mi creda, io sono solo una prova letteraria, null’altro. Un esercizio. Una simulazione, se preferisce. Il mio solo cruccio è l’invenzione-in-relazione.
Quand’anche le sue compagne mi trovassero, glielo garantisco: ogni randellata un rèfolo di vento, nulla più. Il torbido, comunque, è impresa altrettanto seria dell’inferno.
Ad ogni buon conto, se proprio vuole colpire il sottoscritto, chieda aiuto al vocabolario. Sessista è colui che discrimina in base al sesso. Il suo rilievo non è linguisticamente corretto. Se proprio deve, mi chiami donnaiolo, lascivo, lussurioso. Mi chiami anche stronzo, se proprio deve. Metta in conto che non risponderò.
Un abbraccio, suo
Stan. L.
Aggiunta: provi a uscire dalla lettera (dal significato letterale): ne trarrà giovamento.
A me pare che questo post soffra di una visione veteroliberale del giuridico, una visione che diviene ingenua e ottocentesca, laddove sembra auspicare il mito da scuola dell’esegesi di un giudice che applichi la legge senza interpretarla (!) e ad essa sia vincolato, come il massimo del garantismo, una visione che mal si presta a inquadrare la situazione italiana attuale e le reali cause della regressione del ‘diritto’ e delle ‘procedure democratiche di decisione’ oggi in atto, di certo non imputabili al potere giudiziario. Oggi il magistrato legibus solutus in Italia non esiste, non esisteva neppure durante il fascismo, era nella Germania nazista, che i giudici (civili) giudicavano in base a concetti valvola indeterminati, in Italia a essere fascista era il legislatore in primo luogo, e in collusione con autorevoli esponenti della cultura giuridica liberale dell’epoca (quanto al diritto civile e alle restrizioni della capacità per razza contenute nel codice civile del ’42, ad esempio. Il padre del codice penale ancora vigente, Rocco, era un fascista che rimproverava a Vittorio Emanuele Orlando di essere poco conseguente circa l’idea della sovranità, che doveva appartenere allo Stato, laddove Orlando difendeva l’idea, recepita poi nella costituzione italiana, secondo cui i parlamentari esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato…Torniamo dunque alla sovranità e al potere legislativo).
A mio avviso esiste oggi, in Italia, una profonda crisi delle procedure democratiche di decisione, e della sovranità ‘popolare’ in favore del proliferare di normative di settore da un lato di derivazione sovranazionale, dall’altro di derivazione estrastatuale.
Nel primo caso la lex mercatoria, ma soprattutto il diritto comunitatio europeo, che bloccano di fatto la costituzione economica di diritto interno.
Nel secondo caso (primato del diritto estrastatuale), succede che le leggi ordinarie dello stato italiano tendano spessissimo a recepire sistemi di regole vigenti in determinati settori della ‘società’ (ad esempi codici comportamentali inerenti a e vincolanti all’intenro di determinate professioni) e a imporne la vincolatività a tutti trasformando le norme di diritto estrastatuale in ‘diritto di fonte legislativa’.
Quindi è vero che sussisite un proliferare di normative ‘autovincolanti’ prodotte da ‘gruppi’ e ‘sistemi di potere’, corporazioni interne alla società ‘incivile’, ma l’effetto antidemocratico di tutto questo dipende proprio dal riversarsi di queste regole di settore sul ‘cittadino’, dalla frantumazione del sistema delle fonti di produzione del diritto oggettivo. Esempio: è una quasi trascrizione di una regola contenuta nel vigente codice di deontologia medica la norma del ddl sulle direttive anticipate di trattamento che vieta al medico di interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiali fino a che esse siano idonee a tenere in “vita” il corpo, ammettendo di fatto la liceità penale della sola ‘Indirekte Sterbehilfe’ come effetto non voluto delle cure palliative. Invece i giudici civili italiani, attraverso l’interpretazione del diritto (che non si riduce certo a interpretazioen della legge statale) erano giunti in modo assolutamente equilibrato, e valorizzando peraltro le norme del codice di deontologia medica relative al consenso informato, oltre che la convenzione di Oviedo, ad affermare la possibilità di interrompere la prosecuzione di un trattamento medico in base alla volontà presunta del paziente incapace.
Saluti
Un secondo ordine di problemi, non di minore importanza, riguarda infine la frantumazione del soggetto di diritto ed essa è imputable proprio al primato del ‘politico’ e alla sua ‘autonomia’ in senso schmittiano. Si ritorna a modelli di sovranità di cui è titolare non tanto lo stato quanto la classe politica, e si elide la separazione fra potere legislativo e potere esecutivo, nella nostra epoca. pensiamo alle costituzioni parallele redatte per i migranti dalle leggi penali vigenti. Cosa c’entrano qui i magistrati e il pericolo che giudichino senza il vincolo della legge? E’ ‘ il ‘politico’ qui che lungi dal deresponsabilizzarsi, ha scelto in modo macabro di farsi ‘legge’, creando norme penali attraverso il parlamento italiano (o meglio le sue commissioni).
(ottocentesco stan, se avessi voluto dire donnaiolo lascivo lussurioso(?) avrei detto donnaiolo lascivo lussurioso. HO DETTO sessista. posso persino ripeterlo. per quanto mi riguarda stai pure alla lettera. E ai numeri)
Risposte varie.
@ giuliomozzi
La sua osservazione sul fatto che non avrei dimostrato la verità metastorica del mito mi lascia freddo ed è abbastanza inutile, come tutto il suo commento. Sarebbe assurdo se per ogni parola che uso dovessi fare un trattato dimostrativo (di mitografia, di logica, di quel che vuole): tuttavia le rispondo, per metterla di fronte alla vera caratura della sua domanda per il tono malevolo con cui lei me l’ha posta. In primo luogo, lei ignora, dato che è ignorante in materia o finge di esserlo, la vecchia frase del tardoantico Salustio Secondo Saturnino, nel suo De diis et mundo, 4,9: parlando dei miti, teogonici ed eroici, questi afferma, com’è noto: “Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre”. Il che vuol dire semplicemente: le narrazioni su dei ed eroi che chiamiamo miti e leggende non collocano i loro eventi in un tempo definito della storia, ma sono verità sempre presenti, al di là del passaggio delle stagioni della storia. A ciò si aggiunga, relativamente alla verità del mito, Raffaele Pettazzoni, “Verità del mito”, ripubblicato in Rivista di Storia della Storiografia Moderna, 17, 1996, p. 74 s.: “il mito è storia vera perché è storia sacra… Raccontare la creazione del mondo giova a conservare il mondo; raccontare le origini del genere umano giova a mantenere in vita l’umanità, cioè la comunità…” Questo non vale solo per i miti espressamente cosmogonici, poiché ogni mito, di fatto, è cosmogonico, come affermano Giorgio de Santillana ed Hertha von Dechend, in Il mulino di Amleto, ed. ital 1996, p. 75: “il tentativo di ridurre il mito a storia è la cosiddetta tendenza “evemeristica”… una moda… troppo semplicistica e ingenua per durare. Il mito è essenzialmente cosmologico: poiché nel cosmo il cielo è tanto più importante della nostra terra che non dovrebbe destare sorpresa scoprire che le funzioni principali derivano dal cielo. Identificarle sotto le più svariate manifestazioni significa esercitare un giudizio mitologico” e p. 391, dove si descrive la dinamica antropologica per cui il mito finisce per riplasmare, al di là del tempo dell’origine, la storia del mondo (l’esempio è dato da come nelle tradizioni orientali Alessandro Magno venga interpretato come un nuovo Gilgamesh). E più in generale si potrebbe ricordare Lucien Sebag e il suo “Mitologia e realtà sociale (ed ital. Bari 1979), che riflette su come il pensiero mitico finisca per generare, letteralmente, i rapporti sociali concreti, non solo interpretandoli, ma anche plasmandoli. E del resto non ci vuole una cima di intelligenza filosofica per vedere la vitalità metastorica di un mito (ad esempio la guerra di Troia) che nasce come poema epico, si fa lirica e dramma, influenza il romanzo nella sua fase aurorale e arriva fino a Virginia Woolf. Dunque, per definizione, il mito (mythos, dalla radice indoeuropea *mudh- “bocca”, riconoscibile fra l’altro nel gotico muddjan “parlare” e nell’inglese mouth “bocca”), è racconto orale che al di là della sua origine storica fonda i valori non transeunti e metastorici, o ultrastorici, della cultura che lo tramanda. Ed è racconto, linguaggio e struttura cognitiva propria di tutte le civiltà, specialmente nella fase orale ed aurale. Quanto alla sua seconda obiezione, circa il fatto che un popolo anomico cerca un giudice, forse lei non ha letto bene tutto l’articolo. Se l’avesse fatto, si sarebbe reso conto che tutta la parte, immediatamente dopo l’incipit da lei bistrattato e mal compreso, tutta la sezione con citazioni greco-accadiche (fatte allo scopo di documentare un minimo quel che si afferma) stabilisce, per tutte le civilità antiche, almeno nel Mediterraneo, la seguente equivalenza: “re”-“indirizzarìtore”-“indicatore della norma”-“giudice”. Insomma, si sarebbe accorto che mezzo articolo è servito solo a stabilire l’equivalenza “re primitivo”-“giudice”, e per instaurare il rapporto fra “pre-politica tribale”-“esigenza di una sovranità giudicante”. La prossima volta che fa un commento simile sotto qualunque articolo in qualunque contesto, lo ponga nei termini di una richiesta di delucidazioni, piuttosto che atteggiarsi a spigolatore di presunte incoerenze.
* * *
@ robertobugliani.
L’espressione da me usata per il PCI, teologia negativa del potere, aveva un senso, volutamente ambiguo, diverso da quello che sembra a prima vista: indica l’atteggiamento di una opposizione a oltranza che di fatto si pone come il negativo fotografico del potere democristiano, esercitando con esso una gestione consociativa dello Stato. Mi rendo conto che avrei dovuto essere più chiaro e mi scuso con lei per l’equivoco interpretativo suscitato.
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@stan:
non è che la nebbiolina e il rumore sono soltanto forme pure a priori della sua percezione del mio articolo? Ovvero, fuori della metafora neokantiana, non me ne voglia neanche lei (quella che segue è la battuta), non è che nel caso di questo articolo la nebbia e il rumore fossero solo nella sua testa? Gentilissimo stan, lei sa che cosa significa campo di neutralizzazione, nella filosofia di Schmitt, che per quanto controverso e inquietante era un grande pensatore? In Der Begriff des Politisches, al paragrafo 1086, Schmitt afferma che ogni epoca della storia europea ha rinvenuto nella sua dimensione normativa o nella sua organizzazione un centro di riferimento (Zentralgebiet) a partire dal quale i problemi di tutti gli altri settori potevano essere risolti, e i conflitti superati. Per esempio, nel medioevo il centro di riferimento è la religione. Risolti i conflitti religiosi, l’uomo medievale ha l’impressione che tutti i conflitti siano risolti almeno in prospettiva. Più tardi nel XVII secolo, il centro di riferimento è metafisico-scientifico; successivamente, nel XVIII secolo, il centro di riferimento è l’ambito morale-umanitario; nel XIX secolo è l’economia; nel XX secolo, la tecnica. Si può discutere nel merito sulle osservazioni di Schmitt, ma resta il fatto che nel suo pensiero, che ho in parte usato come traccia, ogni centro di riferimento definisce un ambito neutrale, o meglio un campo di neutralizzazione del conflitto (e un implicito comando metodologico di tecnica sociale: se riusciamo a tradurre la nostra controversia in sede [religiosa, metafisica, morale, economica, tecnica] e a risolverla lì, siamo salvi). Io ho avanzato la proposta che oggi, rivelatasi la tecnica un campo di neutralizzazione illusorio, il vero campo di neutralizzazione sia dato dalla definizione del diritto e dei diritti. Dunque l’espressione “campo di neutralizzazione” ha una valenza precisa in riferimento alla tesi storiografica di un filosofo. Non è una mia invenzione terminologica.
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@ marcomantello
Quando mi sono lasciato andare a riflessioni sull’interpretabilità della norma, mi sono premunito di avvertire fra parentesi l’avveduto lettore che usavo i termini tecnici in modo volutamente non tecnico e metaforico. E’ ovvio che il giudice, se parliamo in senso veramente tecnico, non solo può, ma deve interpretare la norma in base alla sua valutazione obbiettiva, alle sue qualità professionali e umane etc. Non sono mica un veteroliberale. Qui sopra mi hanno dato del fastidioso e dell’ignorante in fatto di miti, di logica e di filosofia, ma veteroliberale non me l’ha davvero mai detto nessuno. Io non affermo che esista un magistrato legibus solutus. Affermo che esiste la possibilità che in una situazione di anomia endemica (che mi sono sgolato a identificare nello strapotere e nella riduzione della classe politica a cast gestionale economico ed economicistico marcio, corrotto e ignaro di divisioni di poteri), l’uso improprio del potere giudiziario, ultimo residuo di autonomia sopravvissuto al naufragio dello Stato moderno, finisca per diventare una forza fuori controllo. Non è certo mia intenzione dire che la colpa è del magistrato. Ho detto che la colpa è del cittadino comune che non vuole assumersi responsabilità e dell’uomo di potere che non si riconosce responsabile di fronte a nessuno. Quello che ho indicato io è il rischio che in presenza dell’abdicazione del legislativo e della degenerazione dell’esecutivo, ci si affidi a un giudiziario deforme. Forse non ci siamo capiti, perché il mio modo di parlare è astruso, noioso e infelice, ma sembra che lei abbia solo detto con parole diverse e da un altro punto di vista le stesse cose che ho detto io. Lei cita Orlando, io ho citato Capograssi, che vedeva in Orlando uno dei suoi punti di riferimento.
Oltretutto, mio buon marco mantello, quando lei mi cita il caso del testamento biologico, offre altre frecce al mio arco: la politica anomica ha mutato in legge un dispositivo extragiuridico, a fronte della saggezza di “Deioce”, rappresentata nella fattispecie dall’equilibrata interpretazione del diritto ad opera dei giudici. Ma questo mostra appunto il fatto di cui parlavo: di fronte al vuoto politico, si è tornati a una forma primordiale, sia pur ammantata di aura pluralistica e civile, di basileus-giudice -poi vanificata dal potere fattuale della classe dirigente impolitica.
Quanto al “politico”, non ha scelto di farsi legge, ma solo di esprimere autoritariamente una regolamentazione interessata, essendosi sciolto da ogni redde rationem. In questo senso la classe dirigente è deresponsabilizzata. E Schmitt, che ha tante altre pecche, con questa menda non credo che c’entri.
Saluti.
Gentile Ventre,
le dirò di più: nebbia e rumore sono la mia testa. E gli occhi accompagnano le parole di conseguenza. Sarà per questo che non ho trovato il paragrafo 1086 del libro di Schmitt da lei citato, proprio non l’ho trovato nel libro “Le categorie del politico”, Edizioni Il Mulino, 1972. Forse il sole non è ancora sveglio.
Ho seguito le sue tracce nel capitolo “L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni”, da pagina 167 in avanti. Sono un tantino rincitrullito dalla notte di bagordi e, in tutta onestà, seguirla non è stato facile. O meglio, lei ricalca lo Schmitt in più passi, io, invece, mi sono fermato subito sul finire della pagina 171, ove è riportata una frase che dimostra l’assoluta insipienza di questo pensatore. Me ne sto nel mio buio.
Mi perdoni anche di ciò: parlare di diritto citando Schmitt mi rende nervoso. Per quanto sia un pensatore complesso, i miei fantasmi mi consigliano prudenza nel maneggiare concetti che, alla fine della baraonda, arrivano da colui che si è compromesso col nazismo, fornendone una giustificazione “scientifico-giuridica”. Mi viene male allo stomaco. Mi perdoni, se le parrà.
In ogni caso, la sua proposta è parziale. Molto, troppo parziale. Se lei crede che oggi “il vero campo di neutralizzazione sia dato dalla definizione del diritto e dei diritti”, libero di crederlo. Io, nel mio reumatismo filosofico, sono propenso a credere che i “cRampi” siano tanti, non uno solo, e ben più pregnanti del suo. Ma io sono solo un apprendista.
Ma è l’idea stessa di “campo di neutralizzazione” che è foriera di nebbie. La trovo del tutto infondata. Se la premessa è infondata, il sillogismo è inadeguato. Comunque tranquillo, mi riconosco indegno.
Ora mi concedo al riposo.
Stan. L.
Caro Daniele Ventre
Al di là del fustigarsi su presunte astrusità del suo linguaggio ( non l’ho trovato affatto astruso, leggendo il pezzo), credo che siamo in accordo sul tema centrale della deresponsabilizzazione della società ‘civile’, che è poi il tema enorme dell’opinione pubblica e del trapasso da quello che Habermas chiamva il consumo di cultura al ‘consumo della politica’ al partecipare spingendo tasti sul computer dicendo si o no a petizioni on line o cambiando canale dal tg di rai uno a Mentana, per manifestare mutamenti di rotta politica dopo l’ultimo scandalo locale.
Restiamo in parziale disaccordo sulle chiavi di lettura dei mali della classe politica, e sarebbe un discorso lungo, perché è vero che la recezione legislativa di istanze corporative estrastatuali sembra implicare a prima vista (e in aprte implica) deresponsabilizzazione del politico e sua scarsa autonomia, ma essa può essere vista al contempo come il proprium del politico di un epoca colluso con centri di potere privato, e di un politico molto autoritario e centralizzato -ripensiamo alle leggi corporative del ventennio, quelle si, tese in modo programmatico a eliminare il ‘conflitto’ fra classi sociali in un’ottica di cooperazione verso interessi nazionali- .
Il suo discorso originario sul potere giudiziario era e resta a mio avviso fuorviante, anche dopo le ultime precisazioni. Esiste una capacità tecnica del potere giudiziario di autolimitarsi, una sua minima autonomia dal legislativo e dall’esecutivo e perfino da se stesso. Il giudice di common law, ad esempio è vincolato nelle sue decisioni a qualcosa di molto simile a un ragionamento analogico attraverso lo stare decisis, non è che una società in cui la giurisprudenza goda di qualcosa di simile a un potere normativo sia in sè una società antidemocratica, per quanto non sia certo un fan dell’Inghilterra o degli Stati Uniti. In ogni caso, quello che mi premeva mettere in luce è che in Italia esiste invece una tradizione novecentesca di ferite inferte al parlamentarismo e al potere legislativo (vedi il modo con cui il partito fascista prese il potere: quella legge elettorale votata da quasi tutti -un tema quello della legge elettorale e della sua centralità al fine di evitare deragliamenti , che la costituzione italiana non ha affrontato e che si è riproposto negli ultimi anni in modo sfacciatamente attuale)
Ritiro il veteroliberale, parliamo allora di una sorta di velato positivismo giuridico sul tema dell’interpretazione del diritto, e di un fuorviante richiamo ai giudici, laddove si parla oggi di rischi per la democrazia in Italia.
Gentile Stan, lasciamo stare il paragrafo, che un mio refuso da citazione (ho letto il libro di Schmitt in una biblioteca anni fa, durante gli studi, e non avendolo sotto mano l’ho ricitato nel sonno da una storia della filosofia del ‘900 -di qui la mia confusione -prometto che la prossima volta farò il bravo e metterò sempre e solo citazioni assolutamente precise nei commenti, per non far rabbrividire nessuno): in ogni caso il riferimento era a das Zeitalter der Neutralisierung und Entpolitisierung, che tocca argomenti in qualche modo collegati a Le categorie del politico e ci siamo capiti. Emanata da lei, la nebbia avrà toccato anche me (tanto per ripetere la battuta), visto da come ho risposto una volta tornato a casa a tarda notte. comunque, il riferimento ci era chiaro e questo basti.
Per il resto, nemmeno io amo molto Schmitt (di frasi insipienti, se non pericolose, se ne trovano in lui parecchie, dalle prime opere più tecniche fino al Nomos della terra), come non amo tantissimo i vari pensatori tedeschi che si trovarono, o per convenienza o per equivoci, a fiancheggiare il nazismo (fra questi l’onnipresente Heidegger, che per certi aspetti, secondo alcuni, è affiancabile a Schmitt). Quanto a Schmitt stesso, trovo però che determinate figure teoretiche (e non di altro tipo) del suo pensiero, siano efficaci, almeno per inquadrare certi problemi.
Quanto all’idea di centro di riferimento, ambito neutrale, campo di neutralizzazione, non mi sembra così nebbiosa. Si tratta solo della visione in base alla quale nella storia dell’occidente determinati ambiti di problemi sembrano essere identificati come la sede del problema fondamentale (ammesso che ci sia) e tutti i conflitti possono esservi ricondotti, in un modo o nell’altro, nella concettualizzazione filosofica o nella propaganda o per altre vie. Non è una realtà oggettiva, ma una percezione dei problemi che una società ha in un determinato momento. E non credo sia così foriera di nebbie come lei paventa.
L’idea dell’articolo è che oggi i conflitti e i problemi vengono ridotti, propagandati, esplicati in termini di godimento e difesa dei diritti o del ristabilimento dello Stato di diritto (lo scontro con la chiesa è uno scontro sui diritti, il dibattito “politico” è un dibattito sui diritti negati o riconosciuti, si fa la guerra in nome dei diritti umani -anche se poi per quelli nessuno che possa scatenare una guerra ha sincera attenzione- o per l’esportazione della democrazia e del diritto), salvo poi non riuscire a definire, nel marasma dei molti, falsi centri di riferimento, un vero punto di incontro sui diritti, perché ognuno dei centri di potere che si accampa a centro di riferimento stende arbitrariamente, solo in virtù dell’accidentalità storica della tradizione o dei fattori disposizionali, la propria tavola di ipotetici valori con accluso elenco di diritti e doveri. Questa visione del problema non mi sembra foriera di nebbie.
Buon riposo. Io torno nella mia nebbia, come lei è tornato alla sua.
Daniele Ventre
Caro Marco Mantello,
Sul rischio per la democrazia siamo assolutamente d’accordo. Quello che mi premeva dire è che il problema non è nel giudiziario in sé, ma nel giudiziario, pur con tutte le sue forze autolimitanti, per come viene percepito nel contesto di degrado istituzionale della nostra epoca.
Quanto al potere politico colluso, quello che mi premeva affermare è che ora siamo in una fase di involuzione successiva. Si poteva parlare di politica collusa e di classe politica corrotta e corruttrice (ma pur sempre di politica e di classe politica) fino a un certo periodo. Quello che mi preme ribadire è che dal mio punto di vista la fase di degrado della politica è stata superata, e siamo ora in un momento in cui i parlamentari sono quasi integralmente gemmazioni dirette dei poteri extrapolitici (legali o illegali) agenti nella società. Il politico corrotto è un interlocutore di per sé autonomo che si piega ad agire, in cambio di illecito compenso, secondo gli interessi extrapolitici di qualcuno. Oggi c’è un’altra situazione: esiste la dimensione formale di una posizione istituzionale che garantisce l’accesso a certi ambiti di azione legislativa o esecutiva o genericamente amministrativa, e il proposito di poteri extrapolitici di occupare direttamente quella posizione istituzionale per attuare interessi particolari nel contesto di una gestione dell’immediato, senza altra preoccupazione neppure nel termine medio-breve -decisioni last minute per salvare l’azienda o scappare di galera. Se la legislazione ha una qualche radice nella congiuntura storica, l’immissione di norme extrapolitiche ed extragiuridiche nella legislazione si spiega perfettamente in quest’ottica. La scarsa lungimiranza è stata propria di molti vecchi politici. Ma adesso lo stato delle cose è ancora peggiore. Ci sono istituzioni svuotate occupate da individui che sanno di non essere legittimati se non dal denaro e dalla visibilità mediatica, senza nemmeno l’aura di una linea d’azione organica in cui riconoscersi. La società percepisce, come un corpo unico con una mente coordinata emergente (a mo’ di stormo d’uccelli migratori) questa illegittimità, ma non c’è la coscienza forte per ribellarsi e non ci sono alternative, ché le une e le altre sono state eradicate sapientemente nei decenni, con una scaltra arte di desocializzazione e disacculturazione (una Verfuehrung diffusa). La delegittimazione strisciante produce un risentimento sordo: parlamentari e ministri si comportano con l’idiozia prevaricatrice di capiufficio ignoranti, esprimendo un autoritarismo perfino più lercio di quello fascista.
Il caso dei paesi anglosassoni è diverso. Lì (ma potremmo dire lo stesso di Germania e Francia) la situazione politica (stavolta senza virgolette) è forse difficile, ma almeno è ancora civile. Il caso Italia è ormai da inserirsi nel contesto delle democrature est-europee.
Ventre, lei scrive rivolgendosi a me: “La prossima volta che fa un commento simile sotto qualunque articolo in qualunque contesto, lo ponga nei termini di una richiesta di delucidazioni, piuttosto che atteggiarsi a spigolatore di presunte incoerenze”.
Cado dalle nuvole. Non ho segnalato nessuna incoerenza.
Ho solo segnalato che l’affermazione su cui è basato tutto l’articolo è offerta come luogo comune, e non argomentata. Le citazioni che ora lei fornisce sono semplici ri-affermazioni del luogo comune.
Daniele, lascia perdere, non hai speranze! L’Arcangiolo Gabriele ha versato direttamente nel timpano del nominalista scettico il catalogo dei luoghi comuni terrestri.
P.s.
Torna alla mente un noto passo gaddiano, non trovi?
L’astronomo Carducci, nato a Pian Castagnaio, presso Castagneto di Bolgheri frazione del comune di Valdicastagna, in contrasto con Tolomeo, pensò che il sole potesse “rider calando” dietro il Resegone. Egli si riferiva probabilmente ad immagini astronomiche e geofisiche dell’emisfero australe, dove possiamo precisamente riscontrare che il sole tramonta alla sinistra di chi lo guarda.
Credo che l’articolo di ventre c’entri in qualche modo il problema di questo paese laddove afferma:
“Sia il cast gestionale sia la massa degli uomini comuni, intimamente impolitici, incivili, alieni anche solo all’idea di assunzione autorizzante di responsabilità, cercano piuttosto autoritarismi deresponsabilizzanti -di qui la dialettica impropria fra il presidente criminale e la magistratura senza qualità.”
Finalmente qualcuno che comincia a stabilire un fatto certo da cui bisogna partire: Berlusconi non viene da Marte nè è stato imposto dai marziani.
Questo è un paese che non ha mai avuto una vera rivoluzione borghese e una piena egemonia della classe borghese come avvenuto negli altri paesi europei.
La classe dominante ha quindi dovuto sempre cercare alleanze con forze economiche e sociali portatrici di interessi locali, parassitari, corporativi e anche criminali (le mafie).
Ne è derivato uno stato debole terreno di caccia di quegli inetressi parassitari, locali e criminali, permeabilissimo alla corruzione e alle clientele.
Uno stato che le masse hanno sempre rappresentato e sentito come ostile e vessatore (ci fa pagare le tasse ma non ci da i servizi ) sentendosi leggitimiti in cio’ ad assumere comportamenti clientelari, incivili, dannosi per il bene comune.
Questo situazione e’ stata sostenibile fino agli anni ’80 grazie al meccanismo della spesa pubblica che garantiva il consenso anche delle classi subalterne.
Il sistema di potere berlusconiano in poche parole ha di fatto ancor di più svuotato lo stato di autorità e autorevolezza e le istituzioni del principio di responsabilità. Tutto questo lo ha fatto con il consenso della “massa degli uomini comuni, intimamente impolitici, incivili, alieni anche solo all’idea di assunzione autorizzante di responsabilità
ed riuscito a farlo legittimando la parte più oscura della cultura del nostro paese, piu’ oscura e latente: mancanza di senso dello stato, di senso del bene comune. Ha dato l’illusdione che ad ogni individuo tutto è concesso (dal non pagare le tasse al costruire abusivamente, dallo scopare una minorenne, a frodare la cosa pubblica); ha insomma dato visibilità e legittimità a tutte le pulsioni da basso ventre che ognuno di noi ha;
Opporsi a questo sistema significa opporsi a questa parte oscura di noi stessi, della nostra cultura.
volevo dire un’ultima cosa
E’ vero che il linguaggio di Daniele Ventre è complesso, ma di sicuro non è banale, ma quello che più importa e credo tutti debbono apprezzare è la sua disponibilità al confronto e le sue puntuali risposte.
Lui ha delle competenze di alto livello che mette a disposizione di tutti e lo fa mantenendo un certo rigore nel linguaggio, dando la possibilità a tutti noi, magari con un po’ di sforzo, che quelle competenze non abbiamo, di arrichire e approfondire il nostro pensiero e le categorie con le qaule cerchiamo di analizzare e capire la realta di questo astruso paese
@ Domenico,
Sì, Dome’, putroppo il passo gaddiano ci sta anche troppo, sigh!
Evidentemente il nominalista scettico scambia per luogo comune una nozione comune parte di un patrimonio comune di conoscenze. Tanto peggio.
@ carmelo
In effetti è come dice lei. E aggiungo che storicamente è un problema fondamentale di tutti i marxisti appena un po’ seri il dato per cui in Italia non si può superare il capitalismo, semplicemente perché non si è ancora superato il feudalesimo.
Ma, Daniele, secondo te è davvero vero che ogni mito “contiene in sé una verità metastorica che trascende l’aspetto evenemenziale del racconto preso di per sé stesso”?
Con tutti i miti che ci sono al mondo…
Ma, Giulio Mozzi, te lo chiedo con sincera curiosità: ci sèi o ci fai o cerchi sull’ovvio il contraddittorio fine a sé stesso?
Anche un mito degli Yanomamo ha una simile connotazione: 1) contiene oggettivamente dei tratti archetipali comuni ai miti di tutte le altre civiltà; 2) per gli Yanomamo il mito vale al di là dello scorrere del tempo.
Se il mito non fosse meta-storia e ultra-storia, capace di condizionare la superstoria dei grandi eventi e l’infrastoria della cronaca, non sarebbe mito, non credi?
No, Daniele: è che ciò che a te pare ovvio, a me non pare ovvio per niente.
Davvero tutti i miti contengono “oggettivamente dei tratti archetipali comuni ai miti di tutte le altre civiltà”?
Non sono un antropologo, ma nelle mie letture antropologiche ho visto spesso porre questa cosa come (assai utile) ipotesi; ma non mi risulta di averla mai vista dimostrata.
Il fatto che per gli Yanomamo il mito valga al di là dello scorrere del tempo non è rilevante. Non stiamo discutendo delle opinioni degli Yanomamo, mi pare.
Il mito è un contenuto di conoscenza che va oltre la forma d’espressione del mito stesso, in quanto tale, quindi è comune, nell’esperienza, a tutto il genere umano, sotto ogni latitudine, in qualsiasi epoca.
Mi sfugge il sequitur. Ovvero: non capisco come dall’essere il mito “una forma di conoscenza che va oltre la forma d’espressione del mito stesso” derivi il suo essere “comune, nell’esperienza, a tutto il genere umano, sotto ogni latitudine, in qualsiasi epoca”.
Mi sfugge peraltro il senso della frase: “Il mito è un contenuto di conoscenza che va oltre la forma d’espressione del mito stesso”. In particolare mi sfugge il senso dell’esperssione “va oltre la forma d’espressione del mito stesso”.
Avanzo dunque una richiesta di delucidazioni.
Non credo sia necessario avanzare alcunché: il “sequitur” le sfugge perché potrebbe aver anche ben motivo di non sussistere: dipende dal valore che si dà al termine “conoscenza”.
Quanto a me, non mi riesce di pensare che il concetto possa essere declinato se non in un modo, e quel modo, sempre a mio parere, è, ed è stato, uguale per tutti.
Voi indoeuropei siete da troppo tempo presi dalle vostre parole per potervene liberare efficacemente, ma ierofania, ad esempio, spiega molto di quello che intendevo. Ma siete poi voi a definirla come forma di conoscenza particolare (del sacro, nella fattispecie, o nel concetto che ne avete). Io la chiamerei conoscenza e basta.
In ogni caso se proprio dovessi risultare ancora “incoerente”, userò, per buona misura, le parole di uno dei “vostri” (Emmanuel Anati, “L’ ‘homo religiosus’ e il sacro”, Milano, 1989, p. 48): “Su un percorso parallelo a quello di Otto, Eliade ha fatto l’analisi della ierofania. […] In realtà, Eliade e Otto conservano la parola “sacro” proprio per dimostrare che non ci troviamo in una sfera concettuale, ma nella linea della percezione simbolica del mistero e della trascendenza. Questo è il primo elemento di ogni ierofania. Un altro elemento è l’oggetto o l’essere per mezzo del quale il divino (il sacro), si manifesta: poiché infatti, la manifestazione del sacro non avviene mai allo stato puro, ma attraverso miti, [..] in breve per mezzo d’altro che il sacro stesso.
non sono esperto di miti anche se mi hanno sempre affascinato.
Mi pare che Levi Straus che ha studiato a fondo i linguaggio dei miti abbia affermato che questi presentato una struttura comune.
Detto da ignorante quale sono in materia, oil mito è la prima forma di rappresentazione del mondo e nello stesso tempo veicolo di trasmissione di tale conoscenza. Il tabu dell’incesto presente a tutte le culture della specie umana viene rappresentato e imposto attraverso il mito. La cui narrazione è diversa a secon da della civiltà ma il cui contenuto è comune.
o no?
Noto che il discorso è partito per la tangente.
Appare come un dato di fatto che i miti non offrono mai esplicite indicazioni di date, non si ancorano dunque alla congiuntura storica, anche se sono all’origine fatti storici. Semmai, quando sono miti astronomici, possono essere riferiti a una certa epoca in cui il cielo è grosso modo configurato secondo le immagini che il mito nasconde. Se non credete a quanto appena ho detto e lo considerate un arbitrio indimostrato, leggetevi tutto il sullodato Mulino di Amleto (saggio sul mito e sulla struttura del tempo) di De Santillana-Dechend.
Tutti gli studi di mitografia comparata, siano opere di respiro generale o siano opere dedicate a problemi particolari, rinvengono nei miti delle simbologie costanti. Queste simbologie costanti, anche questo non l’ho detto io, si diffondono a partire dall’Africa e dal medio oriente per tutta l’Eurasia, passano lo stretto di Bering e le troviamo variamente ricombinate in tutti i luoghi che l’uomo ha raggiunto. Popolazioni arcaiche che hanno in comune determinate forme sociali di base (poi variamente plasmate dall’evoluzione culturale successiva), la caccia e la raccolta e più tardi l’agricoltura e l’allevamento hanno in comune anche gli archetipi legati alle tecnologie di base che permettono tutte queste attività di sostentamento. Non cito bibliografia a dimostrazione: ci vorrebbero sei chilometri di commento; ma se appartenete tutti alla stirpe di Giulio Mozzi, e se ne volete, potete sempre consultare il seguente link, recarvi nell’istituzione culturale a cui il link rimanda e leggere circa metà dei libri di antropologia culturale che contiene (non senza aver pianificato di clonare voi stessi almeno una decina di volte):
http://www.loc.gov/index.html
Oppure, se volete fare prima, potete leggere Noi primitivi di Remotti (ed. Bollati Boringhieri) e l’inizio del primo volume della storia delle religioni di Mircea Eliade, nonché il libro di Eliade su fabbri alchimisti e maghi, dove scoprirete quanto siano ricorrenti in civilità diverse e lontane, al di là delle circostanze storiche particolari, i miti e i riti legati alle tecnologie fondamentali delle civiltà preindustriali, il che già basta a proiettare quei miti, pur nati nel grembo della storia, in un mondo al di là delle contingenze storiche.
Se poi non vi interessa cosa pensano gli Yanomamo (che peraltro erano solo un esempio) e siete malati di eurocentrismo e oggicentrismo mozziano, peggio per voi.
Poi potreste sempre considerare quanto sia persistente sin dal primo neolitico delle civiltà orticole il mito del re sacro figlio e sposo di una dea madre vergine, e destinato a essere immolato e a risorgere in primavera: tanto persistente da essere, per esempio, calato addosso a un riformatore religioso nato intorno al trentunesimo anno del regno dell’imperatore Cesare Augusto e crocifisso sotto il suo successore Tiberio… Forse è un mito ultrastorico in cui vi riconoscerete.
Ah, se credete ancora che il mito sia un raccontino facilone e mendace, siete in profondo errore. Quello che sta scritto negli ultimi due commenti prima del mio resta sostanzialmente vero, sia per noi indoeuropei, sia per lor signori camito-semiti, koisan, bantu, dravida, sinotibetani, na-denè, eschimidi, e amerindi.
Daniele, scrivi: “…se credete ancora che il mito sia un raccontino facilone e mendace…”.
Ti faccio notare che, in questa discussione, nessuno ha sostenuto questa opinione; né opinioni simili.
(Certo: quello degli Yanomamo era solo un esempio: in quanto tale, non rilevante. Il fatto che un popolo creda che “il mito valga al di là dello scorrere del tempo” non è una ragione sufficiente perché altri credano la stessa cosa).
Gigi: non ho notata nessuna incoerenza nel suo intervento.
L’esempio degli Yanomamo era uno dei tanti. I greci, i romani, i celti, i germani, i cinesi, gli indiani, gli egizi, gli khmer, gli incas, gli aztechi, i maya gli anasazi e tutte le altre genti umane sono sufficienti?
Tutta la tradizione etnografica ed etnologica degli ultimi venticinque secoli di storia, da Erodoto ai moderni antropologi culturali: i dati che fornisce sono sufficienti?
Se non sono sufficienti, la tua resta mera provocazione.
Fra l’altro l’articolo non è sul mito.
Anche se mi rendo conto che centrare la discussione dei commenti nel tema principale dell’articolo proposto è chiedere troppo.
..peggio della signorina Rottenmeier
L’articolo non è sul mito, certo. Ma usa il mito per dare forza alla propria tesi.
Quanto alla tradizione etnografica ed etnologica degli ultimi venticinque secoli, io ci andrei un po’ cauto. Un po’ perché l’etnografia e l’etnologia sono discipline che hanno dato i primi vagiti nel Settecento. E un po’ perché ho letto svariate opere etnografiche ed etnologiche dedicate a popoli che ritenevano i loro miti – così riferivano gli autori – portatori in sé stessi di verità metastoriche trascendenti l’aspetto evenemenziale dei racconti presi di per sé stessi; ma non sempre – anzi, raramente – gli autori condividevano tale convinzione.
E comunque: se i greci, i romani, i celti, i germani, i cinesi, gli indiani, gli egizi, gli khmer, gli incas, gli aztechi, i maya gli anasazi eccetera tenevano per vera una certa cosa, questa è forse una buona ragione perché anch’io tenga per vera quella certa cosa?
Temo di no. Basta pensare a quante cose tutta questa brava gente teneva per vere, e oggi nessuno nemmeno si sognerebbe.
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Mai sentito parlare dell’etnografia di Erodoto, dunque. Non è così ingenua come si crede di solito.
In ogni caso, questa discussione sul mito è diventata oziosa.
Ora farò io la sua parte.
Mi citi gli antropologi che non condividevano una determinata idea del mito, e i luoghi in cui affermano di non condividerla e che questa non condivisione è metodologicamente proficua.
Unica esclusione: Frazer. La sua visione, gratta gratta, è mero positivismo.
che dibattito evenemenziale
Per gli ultimi scampoli delle disquisizioni improprie sul mito, io lascerei il -menziale e metterei un de- davanti al posto di eve-. Sigh!
Eppure non mi sembra così assurdo dire che una fiaba tradizionale può contenere una morale che vale al di là del certificato di nascita storico vero o presunto.
Se posso esprimere una valutazione le affermazioni del sig giulio mozzi, non si basano su libero esercizo e pratica della ragione, del pensiero, dell’intuito e perfino della sensibilità artistica, che sono le forme di conoscenza concesse a noi comuni mortali.
Sono semplicemente i corollari di un atto di fede.
Spiegare ad un evoluzionista che l’uomo non discnde da adamo ed eva è tempo perso.
Tornando alla discussione e prendendo spunto dalla risposata di daniele ventre (ti ringrazio per le citazioni bibliografiche preziosissime) vorrei dire che sì, le strutture medievali non sono solamente osservabili nella nostra economia (un piccolo esempio potrebbero essere le corporazioni farmacie etc…) e nelle sue relazioni (selezione delel classi dirigenti a carattere clientelare ereditario, come dimostrato da nuemrose ricerche nel settore medico, universitario parlamentare etc..) ma anche nei comportamenti e nelel relazioni sociali.
la frase che si dice spesso: sono tutti uguali in realtà è un lapsus freudiano che sottindende una realtà rimossa ma devastante:
siamo tutti uguali
creativista sta per evoluzionista ovviamente, chiedo scusa
Per ogni evenemenzia, rivolgersi a Mozzi
A Daniele Ventre. Scrivi: “Eppure non mi sembra così assurdo dire che una fiaba tradizionale può contenere una morale che vale al di là del certificato di nascita storico vero o presunto”.
Non è per niente assurdo. E condivido: sono convinto che una fiaba tradizionale può contenere ecc.
Faccio però notare che dire questo è molto diverso dal dire che “tutti i miti […] contengono in sé una verità metastorica che trascende l’aspetto evenemenziale del racconto preso di per sé stesso”. E’ diverso perché
– “una morale che vale al di là del certificato di nascita storico vero o presunto” mi pare una cosa piuttosto diversa da “una verità metastorica che trascende l’aspetto evenemenziale del racconto preso di per se stesso”.
– è ben diverso dire che una cosa può esserci, e dire che c’è sempre.
Carmelo sostiene che le mie affermazioni “non si basano su libero esercizo e pratica della ragione, del pensiero, dell’intuito e perfino della sensibilità artistica”.
Mi farebbe piacere se questa affermazione, anziché essere solo buttata là, venisse un po’ argomentata.
Tanto per aiutare un po’, specifico che:
– sono convinto che questo mondo sia stato creato;
– sono convinto che ciò che oggi viene chiamato “creazionismo” (“quelle posizioni che rifiutano una spiegazione scientifica dello sviluppo della vita escludente un qualsiasi intervento sovrannaturale, ed in particolar modo la teoria dell’evoluzione, adducendo a sostegno del loro rifiuto motivi principalmente religiosi”, Wikipedia) sia un’idiozia;
– considero quello di Adamo ed Eva uno di quei miti che contengono “in sé una verità metastorica che trascende l’aspetto evenemenziale del racconto preso di per sé stesso” (non mi pare tuttavia che contenga “una morale”).
Caro giuliomozzi, si rende conto che nel seguire il suo dubbio iperbolico, partendo dalla contestazione (evenemenziale) della dubitosità presunta del mio asserto, è giunto (sulla lunga durata) a ribadirlo?