13 movimenti rapidi
premi qui, fai luce,
non la prima che fu
luce appena che fu detta
e giorno e tenebra la notte
e che finisca il buio
sul perimetro dei muri
e ti sia dato tempo un giorno
in parti marginali della stanza
distingui firmamenti e terre,
il sopra e il sotto i cieli,
separa dai soffitti i pavimenti,
un solo lembo unito
l’altro lato dello spazio
raduna sedimenti
e rimanenze scure,
le masse senza forma,
reminiscenza vuota
alla parola pronunciata
impasta rugginosi ammassi
e luccicanti scorie, i cumuli
frammisti a colla e smalti
in scorticanti attriti erosi
ai cardini nel legno
fa’ schermo ai sibili
nei giunti degli armadi,
a nugoli e formicolii
di polvere e policromie
ossidate, ai turbini
di pollini prolifici
nei buchi delle porte,
ai gusci farinosi, alla tritura
di elitre e di zampe
tra i plichi delle carte sbriciolate
dividi i grumi dai corpuscoli,
raccogli la poltiglia degli sciami
stratificati secchi dentro i bulbi
illuminati dagli addomi ad arco
dei vortici voltaici degli insetti
da ogni tenebra separa un nome
e a ogni nome da’ una cosa sola
al mondo, un segno, fa’ le parti,
i bordi e bene i pieni e i vuoti
poni l’astrazione delle stelle
nei sei pesi penduli dei bracci
ai lampadari e una fiamma
al centro li accalori
òccupati poi dei superiori vortici
dell’aria, degli inferiori giri
inabissati al peso del tempo
gli spifferi dai vetri frantumati
tempestano la terra, i firmamenti
accesi oscillano concentrici
per quattro, cinque volte
ancora prima di fermarsi,
come toccasse a loro il peso
dell’intera luce, come finisse
lì la gravità dell’Universo
lava via la pàtina, la resina
essiccata che resiste e leviga
le superfici asciutte e tira via
le impronte, i graffi, il peso
che ha lasciato il segno
a mondo fatto
ogni traccia di chi ha fatto il mondo,
o l’ombra del suo scomparire qui,
o il suo moltiplicarsi altrove,
metamorfosi di carne e d’ossa,
ci mortifica la polvere
e non c’è luce
di chi ha fatto il mondo
non lasciando traccia
altro che nel nome della luce,
sola ombra di sé,
poi che non rimane altro
nella luce che scompare
per non stare al mondo
grande sapienza linguistica, intrigante e insieme piacevole, molto apprezzo, grazie.
lui è granderrimo, in tutto quello che fa, dalle storie berlinesi, alle lettere (che sono pagine meravigliose), alle traduzioni (Nika Turbina, ma non solo), alla poesia in senso stretto, alle elaborazioni fotografiche… insomma, un grande. (punto)
Una stanza diventa l’universo, la lingua stessa è luce, dà vita a un groveglio di animali.
Non è la luce reale, affiorando la superficie.
E’ la luce del primo mondo, separazione del legno, del lastrico, del tetto, separazione della visibilità per tornare al mondo invisibile.
Il fracasso
del mondo materiale – a frammenti- fa sorgere la solitudine- la danza
muta delle ombre. L’uomo è solo- dice la poesia- ma inventa il linguaggio,
colma il silenzio dell’universo con la parola.
Molto bello.
Queste poesie devono moltissimo a Giuliano Mesa. Anche le parole sono parole di Giuliano Mesa: altrove patina nome luce ombra.
ecco un “fiat” profondamente “buono”, stretto in necessità di stile e prosodia, e dal quale si potrebbe persino dedurre una certa sacertà delle cose della vita e della morte: sacertà vera, che non produrrebbe mai lo scempio clericale-binettiano più su leggibile in home page. è un testo molto bello, Federico, devo tornarci su con più calma.
un caro saluto,
f.t.
ps.
@elisa:
Mesa ist der Dichter, come direbbe Pieri.
la sua opera probabilmente la maggiore in Italia negli ultimi 30 anni, aggiungo io. sarebbe assai inquietante non dovergli nulla, nulla avere appreso dalla sua poesia!
un saluto, ancora
“luce”, “tenebra”, “nome” sono tre “luoghi” di Genesi, che ricorrono anche nei due testi che seguono questa sequenza, qui non riportati. L’identità cosa-nome, cosa-numero, nome-numero, in un rapporto “cabbalistico” con il linguaggio, fanno parte di un percorso che mi accompagna da anni, coinciso con l’incontro con una figura di mistico metropolitano che viveva (forse vive ancora) nella periferia est di Berlino. La matrice originaria dei tredici movimenti sta nelle prime pagine della Bibbia. All’inizio avevo pensato di ripercorrere fedelmente i passi della “creazione”, suddividendo il parallelismo stanza-universo in altrettante strofe-giorni. Il farsi della scrittura mi ha però portato a un’aderenza meno schematica alla matrice originale. In questo senso ritengo la lezione di Frye (iniziata in occasione di un lavoro su Russell) profondamente ispirata.
Uno degli espedienti più affascinanti (per me) nella scrittura di Mesa riguarda la costruzione di significati attraverso la permutazione di pochissimi termini, spesso producendo un effetto quasi di raddoppiamento del verso su se stesso, in cui l’ombra aggiunge però dettagli alla figura originale. E’ un meccanismo che avvicina molto la scrittura alla pratica musicale e ritengo sia un espediente da provare, forzare, elaborare ulteriormente nel laboratorio della scrittura individuale, perché apre continuamente il verso “a se stesso”, senza renderlo mai definitivo. Con un paragone pittorico, parlerei di “divisionismo” o di qualcosa di simile. Ciò risulta particolarmente utile quando si deve cercare di rendere il profilo inafferrabile di qualcosa: in un testo sulla particella-luce mi ha permesso di evitare ogni inutile, pesante tecnicismo.
Ringrazio tutti della lettura e mi scuso se, in questo commento, sono stato forse poco sintetico.
Una buona serata
F.
bravo federicoi
in ogni piccola parola si nasconde luce che acceca
come tutte le cose scritte viste sentite fatte da te
grazie
c.
[…] inedita già presentata su Nazione Indiana a cura di Andrea Raos e su […]