Sillabario indiano: P
di Giacomo Sartori (fotografie di Giorgia Fiorio)
caro papà
al dibattito delle diciassette
ho parlato bene
insomma non malaccio
visti gli intimi annessi e connessi
(il costrutto autoassolutorio:
vengo da molto lontano)
non mi sono incrodato
ho riesumato nella testa cava
architravi e capitelli
e perfino una statua intatta
ma eccoti il critico acuminato
con passetti felpati
e ancheggiamenti sinoidali
(felini anch’essi)
del fraseggiare di testa
(le nevrotiche vibrisse
tese pur sempre alle insidie)
beninteso ha stravinto
scimmiottando perfino
l’incresciosa rozzezza teoretica
dell’imperito sottoscritto
seppure con tatto
appena qualche istante
la stoccata virtuosa del torero
i polsi paralleli e leggeri
a mimare un cabrare di uccelli
il pubblico ha riso
solo allora ho capito:
avevo parlato troppo forte
ero stato troppo assertivo
e chissà che altro
sul mio collo fluiva
sangue caldo e pesante
certo anche bello
(coreografico, arcaico)
la vita se ne andava
bevuta dalla sabbia ocra
dell’arena delle allocuzioni
alle cinque della tarde
caro papà
tu non lo sai
ma è per te che faccio questo
intendo gli enigmi dei suoli e i libri
questo furore di superarmi
distinguermi per equipararmi
appartenere insomma a qualcosa
perfino le frasi
e gli sguardi
elemosinano approvazione
schegge di riconoscimento
oboli psicanalitici
proprio da chi ne è più avaro
come appunto tu
affetto sarebbe troppo
o forse sai:
quando scrivevo la tua morte
manco a dirlo fascista
sul tuo ritratto fiammeggiavano
le mie mani ticchettanti
anche fuori traiettoria
e altri inquieti riflessi
mistero impossibile da addurre
ai diktat della fisica
se lo dicessi non lo crederebbero
(mi interessa che lo credano?)
e poi ancora adesso
domato il fascista Ciano
conte dei miei stivali
struggente e porco
scopro che tu
al suo processo c’eri
acerbo miliziano indignato
ebbro di vendetta
non lo puoi negare
me l’ha detto tuo fratello Jijì
(siete andati assieme)
quando il libro era già scritto
quando eri già morto
da un pezzo
davvero un brutto tiro
farmelo dire dallo zio Jijì
inetto a soddisfare
qualsivoglia domanda
(risettata la memoria:
i dettagli inghiottiti dal presente)
ammettiamo che riannodassi
un lavoro su me stesso
(si dice così)
questa volta radicale
pensavo
trascinando verso la stazione
la mia insoddisfazione
tra coni gelato branditi come fiaccole
e primiziali esclosioni di seni
inconcludenze domenicali
fatuo tedio automobilistico
forzandomi a decrittare
come si narra un dolore a un dottore
come ci si confessa
appunto a un terapeuta
ammettiamo che non sia troppo tardi
(economicamente sarebbe possibile)
forse mi lasceresti una buona volta in pace
forse avrei una mia esistenza
forse resterebbe il tempo
forse vincerei io
su quest’altro io
che sei tu
caro papà
facciamo un patto
io non ti darò più del fascista
(nemmeno per scherzo
o dopo gli scacchi più atroci)
e tu lasciati uccidere
una volta per tutte
userò un coltello di cristallo
puro e avvenente
e una crudeltà lieve di bimbo
non ti farò male
[i titoli delle due fotografie di Giorgia Fiorio @ sono: “Roma Eur 2004″ (la prima) e Roma Urbe 2004” (la seconda)]
malgrado la straordinaria «incresciosa rozzezza teoretica», mi pare uno scavo non facile e doloroso assai: pezzo bellissimo.
non so se può interessare, ma io penso esattamente il contrario del signor sparz: è uno scritto rozzo (cioè retorico) dal punto di vista linguistico formale, ed è invece molto profondo dal punto di vista teoretico, trattando la questione del padre, ovvero dell’autorità, ovvero del super io.
bellissima.
Bellissimo testo che mi sembra una versione poetica, luccidente, crudele di “Anatomia di una battiglia”. Il dialogo del poeta narratore con un padre, un dialogo giocoso, crudele, in innocenza falsa. Li nella scrittura brilla un coltello, un’operazione magica del dolore estirpato, un taglio, la memoria.
è puro Franchini delle annate migliori(quello capace di scrivere nell’incipit di gladiatori qualcosa come “Non è facile trovare uomini alti quasi due metri che abbiano voglia di combattere e sappiano muoversi con la grazia che rende accettabile un massacro”.Forse lo stesso di “Quando vi ucciderete maestro?”).Una bella andatura sinusoidale,con veroniche.D’acchito
ringrazio sparzone e gli altri dei complimenti, e prometto a pollere di cercare di essere meno rozzo (sempre che mi riesca; ma in fondo la scrittura non è questo, una lotta contro impari la rozzezza?)