le alterazioni semantiche del nostro tempo
di Elisa Ruotolo
Esiste un’Italia di cui si parla spesso, ma per la quale – finora – si riesce a far poco. Un’Italia fatta di persone che vivono le normali ambasce quotidiane con un’inquietudine in più: quella di non potervi far fronte. A questa Italia, denominata precaria, eppure spesso innominabile, costretta negli spazi angusti delle statistiche, dei dati calcolati in percentuale, si è oramai attribuito uno statuto ontologico, o una preesistenza così arretrata e remota da non sapere quasi più quando sia cominciata (figuriamoci poi quando dovrebbe finire).
La sperimentazione di questa realtà lascia ben poche persone vergini: c’è sempre un amico, un parente, un vicino, ci siamo noi stessi che firmiamo contratti che arriveranno a darci pane fino a un certo punto, e poi? La chiamano flessibilità, adesso, quella capacità di spolverare con una dose di stoicismo il rallentamento innaturale delle nostre vite, e devi stare attento: a guardare in prospettiva, a procreare prendendo le dovute misure (nonostante si continui a vivere in uno Stato fondamentalmente non laico).
Il presente ci ha cambiato le carte in tavola troppe volte: ha modificato i profili delle strade in cui viviamo, ci ha fornito di merci e mezzi e tecnologie, talvolta con un surplus quasi imbarazzante, poi però ci ha impedito di raccontare i nostri giorni se non con una semantica snaturata: queste nuove accezioni grondano sangue. Perché c’è una guerra in atto nel nostro paese, una guerra a tutti gli effetti, con i vinti, i feriti, i caduti. Solo dei vincitori non si ha notizia, forse perché in uno Stato non laico si è tenuti al riguardo, o perché il benessere totale dello stesso dovrebbe essere tutto lì, nell’armonia delle sue parti come quella di un corpo in buona salute. Tuttavia le metafore vanno utilizzate con cautela o comunque precisate a dovere: i feriti, i vinti, i caduti non sono la parte malata di questo corpo, sono semplicemente l’arto tenuto forzatamente a riposo da pastoie insensate. Un arto che a lungo andare comincia a patire, a diventare lento, a stancarsi per eccesso di immobilità o per una mobilità che non ha rispetto delle sue competenze e perizie. Per rimanere nella metafora, ci sono braccia a gambe che potrebbero fare e dare molto, ma che vengono continuamente mortificate dall’ozio, tarpate perché non si sa come e dove impiegarle.
Questa non è malattia, ma semplicemente uno spreco intollerabile – eppure troppo spesso tollerato selezionando delle scuse plausibili. Con una buona dose di lungimiranza e con un minimo di pomeriggi domenicali ad ascoltare il catechismo, si potrebbe ribattere che a questa presunta novità tutti, costituzionalmente e ideologicamente, dovremmo essere preparati; che l’eternità (intesa semplicemente come continuità, durevolezza) ci è stata sottratta da un pezzo: quando nel giardino dell’Eden Qualcuno ci condannò alla vita che ben conosciamo. Sì, in uno Stato non laico si potrebbero anche azzardare questi argomenti per minimizzare il nostro inferno, le nostre quotidiane trincee. Ma sarebbe un colpo basso, perché alle giornate senza scampo di chi non sa come arrivare a fine mese, di chi per sentirsi chiamare madre o padre dovrà aspettare tempi quasi da nonno, di chi non riesce a guardare oltre la data in calce al proprio contratto a tempo determinato, ecco, a tutto questo nessuno, nemmeno chi abbia avuto il più rigoroso e persuasivo dei catechisti, può essere preparato. A queste persone impreparate credo sia dovuto almeno rispetto, ascolto, non fosse altro che per coprire la vergogna di non sapere fare altro.
Ricordo che ero bambina quando seppi d’un amico di famiglia che ci aveva lasciato. Da piccoli si fa presto a incasellare gli eventi secondo ottiche elementari. L’amico era “morto di lavoro”, mi disse qualcuno con la voglia di semplificare un concetto troppo grande per me, che non sapevo nemmeno cosa fosse esattamente scomparire. Pensai subito alla sicurezza e al pericolo, alle ragioni da vendere che aveva mia madre a dirmi di fare attenzione. Solo in avanti capii che non era stato il lavoro ad ucciderlo, ma la sua mancanza o per meglio dire la sua insufficienza. Lavorava a giornata lui, e ci fu un periodo fatto di molte giornate di riposo, troppe per la sua vita avviata.
Forse è per questo che mi capita di pensare alla questione del lavoro precario in termini di conflitto silente, e la rabbia maggiore è quella di assistere alla voglia di semplificare e minimizzare, neanche fossimo tutti ancora e di nuovo bambini. Gli atteggiamenti più frequenti, i rimedi avanzati offendono spesso l’uomo, prima ancora che il lavoratore. A entrambi, in virtù dell’intelletto, dell’anima e del sentimento che gli si riconosce, ma soprattutto nel rispetto di uno dei nostri fondamenti costituzionali, si dovrebbe garantire e proporre certamente di più: la vita e non la sopravvivenza.
[questo articolo è stato pubblicato su l’Unità il 18 giugno 2011]
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Leggendo questo bel racconto, mi viene in mente che quello di cui si vuole parlare, piu’ di essere chiamato “precarieta’” (chi non e’ precario a questo mondo?) avrebbe senso essere chiamato “poverta’”. Ma e’ solo una impressione.