TQ: Rocco Carbone

Ho incrociato Rocco Carbone a Parigi. Me ne aveva parlato poco tempo fa – era già avvenuto il fattaccio- Fortunato Tramuta della libreria italiana Tour de Babel. C’è gente del sud, i siciliani e i calabresi per esempio, che trasmettono il loro affetto insieme al calore della terra, però senza dispensarlo a pioggia come, per esempio, le genti delle Puglie o della Campania. Quando, poco tempo fa, ho incontrato la casa editrice Città del Sole, dei numerosi e validi titoli in catalogo ce n’era uno che volevo leggere assolutamente. Da poco più di un anno era stata data alle stampe l’antologia “Terra” e l’indice degli autori coinvolti mi aveva assai intrigato.Tredici autori, tredici storie che raccontano una Calabria inedita.- viene scritto in quarta di copertina. Le antologie si sa sono opere difficili, talvolta riescono, altre volte no. Diciamo che lo stesso vale per un racconto, e questo racconto di Rocco Carbone, che potrete leggere qui grazie alla generosità dei nostri editori calabresi, vale, senz’ombra di dubbio il viaggio. Uno scrittore puro, come Sergio Atzeni, per capirci. effeffe

In Montagna
di
Rocco Carbone

Quando avevo dieci anni il nonno mi portò con sé a cercare

funghi. Più di una volta avevo insistito per poterlo accompagna-

re nelle sue escursioni che, con frequenza regolare, cominciavano

all’inizio della primavera e continuavano fino ad autunno inoltrato,

con una pausa estiva più o meno lunga a seconda delle condizioni

del tempo, del caldo della bella stagione o delle piogge estive che,

in montagna, rinfrescano subito l’aria rendendo umido il sottobosco.

A quel tempo il nonno abitava con noi. Sua moglie era morta

quando io non ero ancora nato, l’unica traccia rimasta della sua

passata esistenza era una foto in bianco e nero, incorniciata e appe-

sa in una parete del soggiorno, a lato del mobile con il televisore. Il

nonno era un uomo ancora forte. Si svegliava ogni mattina prima

di tutti gli altri, faceva lunghe passeggiate con i suoi amici e si

occupava della spesa. Era quasi sempre lui ad accompagnarmi

a scuola e a riprendermi all’uscita. I miei genitori erano contenti

che vivesse con noi. In genere il nonno partiva per la montagna

di domenica, prima dell’alba. I giorni precedenti faceva atten-

zione alle condizioni del tempo, all’abbondanza delle piogge e

alla durata delle schiarite, al ciclo lunare e ad altre cose che solo

lui in famiglia conosceva. Ascoltava alla televisione le previsioni

meteorologiche, e quando pensava che fosse giunto il momento

telefonava a un amico che viveva tutto l’anno in un paese a ridosso

della montagna per avere un consiglio.

Avevo molto insistito perché mi portasse con sé. A ogni mia

richiesta rispondeva con un rifiuto. Diceva che c’era da svegliarsi

prestissimo e da camminare molto, che ero ancora piccolo e che

non ce l’avrei fatta a seguirlo, che la montagna era grande e c’era

il rischio di perdersi. È per questo che fui il primo a essere stupi-

to quando una sera a cena, davanti ai miei genitori, mi disse di

mangiare in fretta e di andare subito a letto, perché l’indomani

mi sarei dovuto svegliare assai presto ed essere in piedi, pronto

a partire, per l’ora stabilita. Altrimenti non mi avrebbe aspettato,

e sarebbe andato via da solo.

Andai a dormire che non erano ancora le nove. Mia madre mi

aveva già preparato l’occorrente per il viaggio, gli abiti pesanti, gli

scarponcini e i calzettoni di lana, assieme a uno zainetto. Mi infilai

subito sotto le coperte e spensi la luce sul comodino. Per l’eccita-

zione feci fatica ad addormentarmi, quando ci riuscii dormii di un

sonno profondo e senza sogni. Fui svegliato dal nonno, che era già

vestito. Guardai verso la finestra e vidi che fuori era ancora buio,

ma nonostante l’ora non feci fatica ad alzarmi. Andai in bagno

e mi lavai in fretta il viso e le orecchie, mi pettinai. Consumai la

colazione in cucina. L’aveva preparata il nonno. Aspettò in piedi

che finissi di bere il latte e mangiare i biscotti. Poi uscimmo di

casa attenti a non fare rumore.

Caricammo in macchina i bagagli e partimmo. Faceva freddo.

Il nonno accese il riscaldamento, il tepore dell’area calda riempì in

breve tempo l’abitacolo. Guardavo fuori del finestrino la città de-

serta, le poche automobili in movimento, le luci gialle dei lampioni.

Cominciai ad assopirmi e dovetti lottare contro quella sonnolenza.

Non volevo addormentarmi e dare così al nonno l’impressione

di non essere all’altezza di quell’escursione. Ma dopo pochi chi-

lometri fui vinto dal sonno. Quando mi risvegliai la notte stava

già cedendo al chiarore del giorno. Il paesaggio attorno a noi era

cambiato. Stavamo salendo per una strada di montagna, piena di

strette curve e tornanti. Guardai verso il nonno, che guidava lenta-

mente cercando di mantenere la stessa andatura. Gli feci qualche

domanda, soltanto per sentire di nuovo la sua voce e così capire

se era arrabbiato con me perché avevo dormito durante il viaggio.

Siamo quasi arrivati, mi rispose sorridendo, abbiamo fatto presto.

Il cielo è grigio, ma non dovrebbe piovere, almeno per ora.

Imboccammo una pista sterrata. Il nonno aveva smesso di

parlare e guardava assorto oltre il parabrezza per evitare le bu-

che e i dossi, sempre più numerosi. Girò bruscamente a destra e

fermò la macchina in uno spazio aperto, circondato da alti faggi.

Prendemmo i due zaini dal bagagliaio e ci incamminammo co-

minciando a salire tra gli alberi. L’aria era fredda. Sentivo l’odore

buono delle foglie bagnate e del muschio. Il nonno era davanti

a me e avanzava aiutandosi con un bastone. Sembrava essersi

dimenticato della mia presenza. Dopo pochi metri si fermò per

parlarmi. Allungò un braccio e mi indicò un punto alla sua destra,

non distante. Prima regola quando si cercano i funghi, disse. Mai

seguire i passi di un altro. Adesso va’ da quella parte, e continua

a salire. Non ti allontanare troppo, però. E non mi perdere mai di

vista. Seconda regola, continuò. Cammina piano, e fermati spesso.

Guardati attorno. Non dobbiamo andare in nessun posto, e non c’è

bisogno di correre. Più piano ti muovi più aumenta la possibilità

di trovare un fungo, che potrebbe anche essere a dieci centimetri

dai tuoi piedi. Da qui in avanti, ogni luogo è buono. Sollevò la

manica della giacca a vento e guardò l’orologio. Cammineremo

per un’ora, disse. Quando saremo arrivati in alto, ci fermeremo

per fare colazione, e decidere il da farsi.

Mi allontanai nella direzione che mi aveva indicato. Presi un

lungo ramo e lo spezzai per ricavarne un bastone. Il silenzio del

bosco era turbato soltanto dal rumore dei miei passi e da quelli,

più lontani, del nonno, che vedevo tra i tronchi degli alberi avan-

zare lentamente, fermarsi ogni tanto per chinarsi, poi riprendere il

cammino. A poco a poco la mia eccitazione si trasformò in impa-

zienza. Non vedevo l’ora di trovare il primo fungo per mostrarlo

orgoglioso alla mia guida. Ma era passata più di mezz’ora, e la

mia ricerca continuava a essere vana. Arrivai a un punto dove il

sottobosco era più fitto. Avanzavo più faticosamente, le braccia

in avanti per farmi largo tra gli sterpi e i rami bassi degli alberi.

Vidi di fronte a me una macchia scura sul terreno, quasi del tutto

ricoperta di foglie. La raggiunsi in fretta e mi inginocchiai per

raccogliere quello che credevo un fungo, e che invece era soltanto

una pietra bagnata.

Quando ritornai sui miei passi mi accorsi di aver perso di

vista il nonno. Cercai di individuare la giusta direzione per rag-

giungerlo, ma ben presto persi l’orientamento e mi ritrovai solo,

senza sapere che fare. Non riuscivo a capire quanto tempo era

passato e come avrei fatto a uscire da quel bosco, dove la luce

faceva fatica a filtrare. Mi sedetti in terra e mi appoggiai a un

tronco per riprendere fiato. Cominciai a chiamare il nonno ad alta

voce, ma senza risposta. Non devo aver paura, mi dissi, non devo

aver paura. Pensai che non poteva essere così lontano e che presto

l’avrei visto spuntare da dietro un albero, con il suo berretto di

lana in testa. Esitai se restare fermo nello stesso luogo ad aspettar-

lo o muovermi. Alla fine decisi di continuare a salire per arrivare

in cima a trovare la radura dove ci eravamo dati appuntamento.

Camminai a lungo. Non pensavo più ai funghi, ma soltanto

ad arrivare alla mia meta e porre fine a quel vagare. Arrivai al

limite tra un bosco di faggi e una pineta e mi inoltrai in essa. Il

terreno sotto ai miei piedi, ricoperto di aghi di pino, era morbido.

Scorsi una luce più chiara e accelerai il passo, ma la stanchezza

rendeva ormai difficile il cammino. Inoltre avevo fame, una fame

inaspettata e feroce, come mai avevo provato prima di allora.

Mi ritrovai all’aperto quasi senza accorgermene, su una stri-

scia di terra stretta e lunga, chiazzata di grandi pietre ricoperte di

muschio scuro. Al limite opposto a quello nel quale mi trovavo

c’era un uomo accovacciato, con uno zaino accanto. Feci qualche

passo in quella direzione e riconobbi il nonno, che non si era

ancora accorto della mia presenza. Stava sistemando dei rami

secchi uno sull’altro per accendere un fuoco. Mi dava le spalle e

si voltò soltanto quando gli fui vicino. Ci guardammo in silen-

zio. Non avevo il coraggio di parlare, di dirgli che mi ero perso,

raccontargli della paura passata e della gioia di averlo ritrovato.

Ma il mio timore di essere rimproverato finì quando mi rivolse

la parola. Non fece cenno al fatto che, dimenticando le sue racco-

mandazioni, mi ero allontanato perdendolo di vista, né tradì la

preoccupazione che credevo avesse avuto quando si era accorto

della mia scomparsa. Forse era stata una preoccupazione solo

mia. Forse il nonno sapeva che sarebbe stato difficile perdermi e

che continuando a salire come avevamo deciso all’inizio ci sarem-

mo incontrati di nuovo in alto, nel luogo dove in quel momento

ci trovavamo. Forse non era passato così tanto tempo, come io

impaurito avevo creduto. O forse essendo il pericolo finito non

aveva più voglia di parlarne, di rimproverarmi e di rimproverare

se stesso per avermi fatto allontanare.

Il fuoco fu acceso. Una piccola nube di fumo cominciò a solle-

varsi dai rami secchi. Il nonno mi fece cenno di sedermi di fronte a

lui. Aprì il suo zaino e tirò fuori una bottiglia d’acqua, un thermos

e due panini avvolti nella carta stagnola. Me ne porse uno, scartò

il suo e cominciò a mangiare lentamente. Io divorai il mio in pochi

minuti, gettando la stagnola sul fuoco per vederla annerire, poi

ne mangiai un altro. Il tempo stava migliorando. Le nuvole grigie

si muovevano sopra le nostre teste lasciando sempre più spazio

all’azzurro intenso del cielo. Guardai verso l’orizzonte. Le macchie

dei boschi sottostanti formavano ampie gradazioni di verde che

si estendevano fino a valle, dove si potevano distinguere la terra

nera dei campi, le case coloniche, strade deserte di campagna. Mi

voltai verso il nonno. Aveva acceso un mezzo sigaro. L’odore del

tabacco si mescolava a quello dei rami sul fuoco, quasi del tutto

consunti. Quando finì di fumare mi parlò. Non siamo stati fortuna-

ti, disse. Ho setacciato tutto il bosco senza trovare niente. Neanche

un fungo. Neanche uno di quelli velenosi. È un brutto segno. Vuol

dire che abbiamo sbagliato giorno, o luogo. Dovremmo muoverci

per andare da un’altra parte, forse là in fondo, continuò indicando

un punto lontano, ma impiegheremmo molto tempo, ed è troppo

tardi. Qualcun altro sarà già nel posto e avrà raccolto quello che

c’era da raccogliere. Pazienza. Un’altra volta andrà meglio.

Si alzò in piedi, prese degli altri rami e ravvivò con essi la fiam-

ma quasi spenta. Poi tirò fuori da una tasca della giacca una piccola

macchina fotografica. Andò a qualche metro di distanza, l’appoggiò

su una grande pietra e mi inquadrò. Schiacciò un pulsante e corse

verso di me sedendomi accanto e abbracciandomi. Guarda verso

l’obiettivo, mi disse. E attento a non chiudere gli occhi. Il ronzio

della macchina finì. Fatto, disse il nonno. Poi andò a riprenderla.

Io ero molto deluso. Volevo dirgli di cercare da un’altra parte,

che forse con un po’ di fortuna saremmo ancora riusciti a trovare

qualcosa, ma sapevo che sarebbe stato inutile, perché il nonno

aveva già preso la sua decisione e non l’avrebbe più cambiata.

Aspettai allora che si alzasse per partire e ritornare a casa, ma era

passata più di un’ora senza che questo accadesse. Il nonno conti-

nuava a guardare verso valle, ogni tanto si muoveva per ravvivare

il fuoco, poi riassumeva la posizione di prima, le braccia allacciate

attorno alle ginocchia. Mi stavo annoiando. Mi sembrava inutile

restare ancora là, senza far niente. Lo dissi al nonno, che scosse

la testa restando in silenzio. Non so quanto tempo ancora passò

prima che si decidesse a partire. Ricordo solo che quando que-

sto accadde ero ormai arrabbiato con lui e avevo deciso di non

rivolgergli la parola. Continuai a tenere il broncio anche quando

scendemmo per il bosco che avevamo esplorato prima di arrivare

in cima e quando fummo in macchina, poi per tutto il viaggio fino

a casa, dove mi ritirai in silenzio nella mia camera.

Sono passati quasi trent’anni da quel giorno. Il nonno morì

pochi mesi dopo, per un male che in breve tempo lo consumò.

Mio padre e mia madre continuano ad abitare in quella casa. Io

vivo in un’altra città, e vado a trovarli quando mi è possibile, a

Natale e a Pasqua, durante le vacanze estive. L’ultima volta l’ho

fatto dieci giorni fa. È stato durante quella visita che ho ricordato

di nuovo quel viaggio in montagna. I miei genitori erano usciti

per fare delle compere ed io ero rimasto solo in casa. Sono entrato

nella stanza che era stata del nonno. È una stanza stretta e lunga,

che viene ormai usata come ripostiglio, più raramente per farvi

dormire un ospite, un parente di passaggio o un amico. Ho aperto

le persiane e mi sono seduto alla scrivania, un grande tavolo di

legno scuro. In un cassetto c’erano ancora molti oggetti appartenu-

ti al nonno, due paia di occhiali da presbite, una scatola di sigari,

documenti e vecchie carte, un coltello da campeggio dal manico

rosso e spesso, un mazzo di chiavi. In un angolo ho trovato anche

un portafogli sdrucito. L’ho aperto. Custodiva una carta d’identità,

delle ricevute, tre banconote da mille lire oggi fuori corso, e due

piccole fotografie. Una ritraeva mio padre da ragazzo, in costume

da bagno su una spiaggia affollata. Nell’altra c’era il nonno già

vecchio, in montagna abbracciato a un bambino.

Non siamo proprio al centro dell’immagine. L’inquadratu-

ra taglia una mia mano, che doveva essere appoggiata per terra.

Dietro di noi c’è la macchia scura degli alberi e il cielo, che i colori

sbiaditi della stampa hanno reso quasi bianco. Il nonno mi tiene

stretto a se e sorride. Io invece ho un’espressione scura in volto

e guardo da un’altra parte. Il nonno ha uno sguardo buono. Ma

un’ombra vela i suoi occhi grandi e chiari.

Era la prima volta che vedevo quella foto. Come altre volte

era accaduto in passato mi sono ricordato di quel giorno, della mia

eccitazione prima, della paura per essermi perso e della delusione

dopo, del fuoco acceso, dei panini e della macchina fotografica,

del nonno che non voleva partire e delle mie insistenze. Ma solo

in quel momento, in quella stanza vuota e dismessa ho sentito di

nuovo la voce pacata del nonno, da una distanza ormai incolmabile

parlarmi, dire ciò che quel mattino, in cima alla montagna avrebbe

voluto dirmi. Non avere fretta – questo mi diceva il nonno –, stia-

mo bene. Ma non sarà sempre così. Passerà il tempo, e io non ci

sarò più. Diventerai grande, e vedrai tante cose che ancora non

hai visto, conoscerai tanti volti e tanti altri ne dimenticherai. Vi-

vrai gioie e delusioni. Aspetterai a lungo e temerai per qualcosa

che hai desiderato con tutte le tue forze, e quando l’avrai avuta ti

accorgerai che non sarà come l’avevi immaginata, e che il prezzo

da pagare è stato forse troppo alto. Ma adesso, stai con me. Guar-

da tutte queste meraviglie, respira forte e piano, poi ancora forte.

Non aver paura.

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27 Commenti

  1. In Montagna
    di
    Rocco Carbone

    Quando avevo dieci anni il nonno mi portò con sé a cercare funghi. Più di una volta avevo insistito per poterlo accompagnare nelle sue escursioni che, con frequenza regolare, cominciavano all’inizio della primavera e continuavano fino ad autunno inoltrato, con una pausa estiva più o meno lunga a seconda delle condizioni del tempo, del caldo della bella stagione o delle piogge estive che, in montagna, rinfrescano subito l’aria rendendo umido il sottobosco.

    A quel tempo il nonno abitava con noi. Sua moglie era morta quando io non ero ancora nato, l’unica traccia rimasta della sua passata esistenza era una foto in bianco e nero, incorniciata e appesa in una parete del soggiorno, a lato del mobile con il televisore. Il nonno era un uomo ancora forte. Si svegliava ogni mattina prima di tutti gli altri, faceva lunghe passeggiate con i suoi amici e si occupava della spesa. Era quasi sempre lui ad accompagnarmi a scuola e a riprendermi all’uscita. I miei genitori erano contenti che vivesse con noi. In genere il nonno partiva per la montagna di domenica, prima dell’alba. I giorni precedenti faceva attenzione alle condizioni del tempo, all’abbondanza delle piogge e alla durata delle schiarite, al ciclo lunare e ad altre cose che solo lui in famiglia conosceva. Ascoltava alla televisione le previsioni meteorologiche, e quando pensava che fosse giunto il momento telefonava a un amico che viveva tutto l’anno in un paese a ridosso della montagna per avere un consiglio.

    Avevo molto insistito perché mi portasse con sé. A ogni mia richiesta rispondeva con un rifiuto. Diceva che c’era da svegliarsi prestissimo e da camminare molto, che ero ancora piccolo e che non ce l’avrei fatta a seguirlo, che la montagna era grande e c’era il rischio di perdersi. È per questo che fui il primo a essere stupito quando una sera a cena, davanti ai miei genitori, mi disse di mangiare in fretta e di andare subito a letto, perché l’indomani mi sarei dovuto svegliare assai presto ed essere in piedi, pronto a partire, per l’ora stabilita. Altrimenti non mi avrebbe aspettato, e sarebbe andato via da solo.

    Andai a dormire che non erano ancora le nove. Mia madre mi aveva già preparato l’occorrente per il viaggio, gli abiti pesanti, gli scarponcini e i calzettoni di lana, assieme a uno zainetto. Mi infilai subito sotto le coperte e spensi la luce sul comodino. Per l’eccitazione feci fatica ad addormentarmi, quando ci riuscii dormii di un sonno profondo e senza sogni. Fui svegliato dal nonno, che era già vestito. Guardai verso la finestra e vidi che fuori era ancora buio, ma nonostante l’ora non feci fatica ad alzarmi. Andai in bagno e mi lavai in fretta il viso e le orecchie, mi pettinai. Consumai la colazione in cucina. L’aveva preparata il nonno. Aspettò in piedi che finissi di bere il latte e mangiare i biscotti. Poi uscimmo di casa attenti a non fare rumore.

    Caricammo in macchina i bagagli e partimmo. Faceva freddo. Il nonno accese il riscaldamento, il tepore dell’area calda riempì in breve tempo l’abitacolo. Guardavo fuori del finestrino la città deserta, le poche automobili in movimento, le luci gialle dei lampioni. Cominciai ad assopirmi e dovetti lottare contro quella sonnolenza. Non volevo addormentarmi e dare così al nonno l’impressione di non essere all’altezza di quell’escursione. Ma dopo pochi chilometri fui vinto dal sonno. Quando mi risvegliai la notte stava già cedendo al chiarore del giorno. Il paesaggio attorno a noi era cambiato. Stavamo salendo per una strada di montagna, piena di strette curve e tornanti. Guardai verso il nonno, che guidava lentamente cercando di mantenere la stessa andatura. Gli feci qualche domanda, soltanto per sentire di nuovo la sua voce e così capire se era arrabbiato con me perché avevo dormito durante il viaggio.

    Siamo quasi arrivati, mi rispose sorridendo, abbiamo fatto presto. Il cielo è grigio, ma non dovrebbe piovere, almeno per ora. Imboccammo una pista sterrata. Il nonno aveva smesso di parlare e guardava assorto oltre il parabrezza per evitare le buche e i dossi, sempre più numerosi. Girò bruscamente a destra e fermò la macchina in uno spazio aperto, circondato da alti faggi. Prendemmo i due zaini dal bagagliaio e ci incamminammo cominciando a salire tra gli alberi. L’aria era fredda. Sentivo l’odore buono delle foglie bagnate e del muschio. Il nonno era davanti a me e avanzava aiutandosi con un bastone. Sembrava essersi dimenticato della mia presenza. Dopo pochi metri si fermò per parlarmi. Allungò un braccio e mi indicò un punto alla sua destra, non distante. Prima regola quando si cercano i funghi, disse. Mai seguire i passi di un altro. Adesso va’ da quella parte, e continua a salire. Non ti allontanare troppo, però. E non mi perdere mai di vista. Seconda regola, continuò. Cammina piano, e fermati spesso. Guardati attorno. Non dobbiamo andare in nessun posto, e non c’è bisogno di correre. Più piano ti muovi più aumenta la possibilità di trovare un fungo, che potrebbe anche essere a dieci centimetri dai tuoi piedi. Da qui in avanti, ogni luogo è buono. Sollevò la manica della giacca a vento e guardò l’orologio. Cammineremo per un’ora, disse. Quando saremo arrivati in alto, ci fermeremo per fare colazione, e decidere il da farsi.

    Mi allontanai nella direzione che mi aveva indicato. Presi un lungo ramo e lo spezzai per ricavarne un bastone. Il silenzio del bosco era turbato soltanto dal rumore dei miei passi e da quelli, più lontani, del nonno, che vedevo tra i tronchi degli alberi avanzare lentamente, fermarsi ogni tanto per chinarsi, poi riprendere il cammino. A poco a poco la mia eccitazione si trasformò in impazienza. Non vedevo l’ora di trovare il primo fungo per mostrarlo orgoglioso alla mia guida. Ma era passata più di mezz’ora, e la mia ricerca continuava a essere vana. Arrivai a un punto dove il sottobosco era più fitto. Avanzavo più faticosamente, le braccia in avanti per farmi largo tra gli sterpi e i rami bassi degli alberi. Vidi di fronte a me una macchia scura sul terreno, quasi del tutto ricoperta di foglie. La raggiunsi in fretta e mi inginocchiai per raccogliere quello che credevo un fungo, e che invece era soltanto una pietra bagnata.

    Quando ritornai sui miei passi mi accorsi di aver perso di vista il nonno. Cercai di individuare la giusta direzione per raggiungerlo, ma ben presto persi l’orientamento e mi ritrovai solo, senza sapere che fare. Non riuscivo a capire quanto tempo era passato e come avrei fatto a uscire da quel bosco, dove la luce faceva fatica a filtrare. Mi sedetti in terra e mi appoggiai a un tronco per riprendere fiato. Cominciai a chiamare il nonno ad alta voce, ma senza risposta. Non devo aver paura, mi dissi, non devo aver paura. Pensai che non poteva essere così lontano e che presto l’avrei visto spuntare da dietro un albero, con il suo berretto di lana in testa. Esitai se restare fermo nello stesso luogo ad aspettarlo o muovermi. Alla fine decisi di continuare a salire per arrivare in cima a trovare la radura dove ci eravamo dati appuntamento.

    Camminai a lungo. Non pensavo più ai funghi, ma soltanto ad arrivare alla mia meta e porre fine a quel vagare. Arrivai al limite tra un bosco di faggi e una pineta e mi inoltrai in essa. Il terreno sotto ai miei piedi, ricoperto di aghi di pino, era morbido. Scorsi una luce più chiara e accelerai il passo, ma la stanchezza rendeva ormai difficile il cammino. Inoltre avevo fame, una fame inaspettata e feroce, come mai avevo provato prima di allora. Mi ritrovai all’aperto quasi senza accorgermene, su una striscia di terra stretta e lunga, chiazzata di grandi pietre ricoperte di muschio scuro. Al limite opposto a quello nel quale mi trovavo c’era un uomo accovacciato, con uno zaino accanto. Feci qualche passo in quella direzione e riconobbi il nonno, che non si era ancora accorto della mia presenza. Stava sistemando dei rami secchi uno sull’altro per accendere un fuoco. Mi dava le spalle e si voltò soltanto quando gli fui vicino. Ci guardammo in silenzio. Non avevo il coraggio di parlare, di dirgli che mi ero perso, raccontargli della paura passata e della gioia di averlo ritrovato. Ma il mio timore di essere rimproverato finì quando mi rivolse la parola. Non fece cenno al fatto che, dimenticando le sue raccomandazioni, mi ero allontanato perdendolo di vista, né tradì la preoccupazione che credevo avesse avuto quando si era accorto della mia scomparsa. Forse era stata una preoccupazione solo mia. Forse il nonno sapeva che sarebbe stato difficile perdermi e che continuando a salire come avevamo deciso all’inizio ci saremmo incontrati di nuovo in alto, nel luogo dove in quel momento ci trovavamo. Forse non era passato così tanto tempo, come io impaurito avevo creduto. O forse essendo il pericolo finito non aveva più voglia di parlarne, di rimproverarmi e di rimproverare se stesso per avermi fatto allontanare.

    Il fuoco fu acceso. Una piccola nube di fumo cominciò a sollevarsi dai rami secchi. Il nonno mi fece cenno di sedermi di fronte a lui. Aprì il suo zaino e tirò fuori una bottiglia d’acqua, un thermos e due panini avvolti nella carta stagnola. Me ne porse uno, scartò il suo e cominciò a mangiare lentamente. Io divorai il mio in pochi minuti, gettando la stagnola sul fuoco per vederla annerire, poi ne mangiai un altro. Il tempo stava migliorando. Le nuvole grigie si muovevano sopra le nostre teste lasciando sempre più spazio all’azzurro intenso del cielo. Guardai verso l’orizzonte. Le macchie dei boschi sottostanti formavano ampie gradazioni di verde che si estendevano fino a valle, dove si potevano distinguere la terra nera dei campi, le case coloniche, strade deserte di campagna. Mi voltai verso il nonno. Aveva acceso un mezzo sigaro. L’odore del tabacco si mescolava a quello dei rami sul fuoco, quasi del tutto consunti. Quando finì di fumare mi parlò. Non siamo stati fortunati, disse. Ho setacciato tutto il bosco senza trovare niente. Neanche un fungo. Neanche uno di quelli velenosi. È un brutto segno. Vuol dire che abbiamo sbagliato giorno, o luogo. Dovremmo muoverci per andare da un’altra parte, forse là in fondo, continuò indicando un punto lontano, ma impiegheremmo molto tempo, ed è troppo tardi. Qualcun altro sarà già nel posto e avrà raccolto quello che c’era da raccogliere. Pazienza. Un’altra volta andrà meglio.

    Si alzò in piedi, prese degli altri rami e ravvivò con essi la fiamma quasi spenta. Poi tirò fuori da una tasca della giacca una piccola macchina fotografica. Andò a qualche metro di distanza, l’appoggiò su una grande pietra e mi inquadrò. Schiacciò un pulsante e corse verso di me sedendomi accanto e abbracciandomi. Guarda verso l’obiettivo, mi disse. E attento a non chiudere gli occhi. Il ronzio della macchina finì. Fatto, disse il nonno. Poi andò a riprenderla. Io ero molto deluso. Volevo dirgli di cercare da un’altra parte, che forse con un po’ di fortuna saremmo ancora riusciti a trovare qualcosa, ma sapevo che sarebbe stato inutile, perché il nonno aveva già preso la sua decisione e non l’avrebbe più cambiata.

    Aspettai allora che si alzasse per partire e ritornare a casa, ma era passata più di un’ora senza che questo accadesse. Il nonno continuava a guardare verso valle, ogni tanto si muoveva per ravvivare il fuoco, poi riassumeva la posizione di prima, le braccia allacciate attorno alle ginocchia. Mi stavo annoiando. Mi sembrava inutile restare ancora là, senza far niente. Lo dissi al nonno, che scosse la testa restando in silenzio. Non so quanto tempo ancora passò prima che si decidesse a partire. Ricordo solo che quando questo accadde ero ormai arrabbiato con lui e avevo deciso di non rivolgergli la parola. Continuai a tenere il broncio anche quando scendemmo per il bosco che avevamo esplorato prima di arrivare in cima e quando fummo in macchina, poi per tutto il viaggio fino a casa, dove mi ritirai in silenzio nella mia camera.

    Sono passati quasi trent’anni da quel giorno. Il nonno morì pochi mesi dopo, per un male che in breve tempo lo consumò. Mio padre e mia madre continuano ad abitare in quella casa. Io vivo in un’altra città, e vado a trovarli quando mi è possibile, a Natale e a Pasqua, durante le vacanze estive. L’ultima volta l’ho fatto dieci giorni fa. È stato durante quella visita che ho ricordato di nuovo quel viaggio in montagna. I miei genitori erano usciti per fare delle compere ed io ero rimasto solo in casa. Sono entrato nella stanza che era stata del nonno. È una stanza stretta e lunga, che viene ormai usata come ripostiglio, più raramente per farvi dormire un ospite, un parente di passaggio o un amico. Ho aperto le persiane e mi sono seduto alla scrivania, un grande tavolo di legno scuro. In un cassetto c’erano ancora molti oggetti appartenuti al nonno, due paia di occhiali da presbite, una scatola di sigari, documenti e vecchie carte, un coltello da campeggio dal manico rosso e spesso, un mazzo di chiavi. In un angolo ho trovato anche un portafogli sdrucito. L’ho aperto. Custodiva una carta d’identità, delle ricevute, tre banconote da mille lire oggi fuori corso, e due piccole fotografie. Una ritraeva mio padre da ragazzo, in costume da bagno su una spiaggia affollata. Nell’altra c’era il nonno già vecchio, in montagna abbracciato a un bambino.

    Non siamo proprio al centro dell’immagine. L’inquadratura taglia una mia mano, che doveva essere appoggiata per terra. Dietro di noi c’è la macchia scura degli alberi e il cielo, che i colori sbiaditi della stampa hanno reso quasi bianco. Il nonno mi tiene stretto a se e sorride. Io invece ho un’espressione scura in volto e guardo da un’altra parte. Il nonno ha uno sguardo buono. Ma un’ombra vela i suoi occhi grandi e chiari.

    Era la prima volta che vedevo quella foto. Come altre volte era accaduto in passato mi sono ricordato di quel giorno, della mia eccitazione prima, della paura per essermi perso e della delusione dopo, del fuoco acceso, dei panini e della macchina fotografica, del nonno che non voleva partire e delle mie insistenze. Ma solo in quel momento, in quella stanza vuota e dismessa ho sentito di nuovo la voce pacata del nonno, da una distanza ormai incolmabile parlarmi, dire ciò che quel mattino, in cima alla montagna avrebbe voluto dirmi. Non avere fretta – questo mi diceva il nonno -, stiamo bene. Ma non sarà sempre così. Passerà il tempo, e io non ci sarò più. Diventerai grande, e vedrai tante cose che ancora non hai visto, conoscerai tanti volti e tanti altri ne dimenticherai. Vivrai gioie e delusioni. Aspetterai a lungo e temerai per qualcosa che hai desiderato con tutte le tue forze, e quando l’avrai avuta ti accorgerai che non sarà come l’avevi immaginata, e che il prezzo da pagare è stato forse troppo alto. Ma adesso, stai con me. Guarda tutte queste meraviglie, respira forte e piano, poi ancora forte.

    Non aver paura.

  2. Grazie … per questa versione, ma ti assicuro che quando stamattina ho impaginato il testo, non ti nascondo che mi piaceva proprio come lo hai visto in HP, con gli a capo, l’interlinea meno stringato.
    insomma così. bene hai fatto a postare nei commenti la versione, diciamo, normale, e un abbraccio (con a capo) a te
    effeffe

  3. Mi piaceva appunto l’impaginazione di effeffe.
    Perché?
    Aveva una musica di linea poetica.
    Sogno un racconto scritti con versi.
    Un ricordo semplice, chiaro, con il piccolo mistero
    di un ragazzo entrato nel bosco della memoria.
    La ricerca dei funghi diventa l’occasione di imparare
    la saggezza del nonno.
    E’ una lezione scritta per tutti,
    una lezione della terra più saggia del mare,
    Cerchiamo quello che non sarà.

  4. non corre nessun obbligo a leggere altre versioni,
    anche perché non ce ne sono.
    il mio era un commento.
    e il mio commento era la mia lettura del testo.

  5. … Rocco Carbone e Sergio Atzeni. Questi sono gli scrittori che mi mancano. Quelli da cui avrei voluto sentire scrivere (più che dire) e leggere, leggere ancora.
    effeffe

  6. mancano a parecchi,
    ma i parecchi sono ancora pochi
    a quanto pare.
    in caso contrario, ci sarebbe in giro
    meno ciarpame letterario
    spacciato per arte.

    sogno commenti scritti in versi.
    è facile, basta tornare indietro
    prima della fine del verso.
    e
    ogni tanto
    fermarsi a contare le sillabe (non si sa mai
    venisse fuori un endecasillabo
    memorabile), oppure le stelle. oppure
    spegnersi lentamente su facebook
    facendo finta che quella sia
    la vita.

  7. …ti andrebbe stasera di intervenire durante il programma radiofonico che faccio (cocina clandestina) con una nota su Rocco Carbone?
    effeffe

  8. tienimi in caldo o
    in fresco (qual
    ora
    fosse estate) tra poco
    vengono a prendermi e proprio non so
    quando ritorno, di solito
    impiega-
    no
    tutto il pomeriggio
    e la serata (letterl
    mente) per
    in-
    fi-
    lar-
    me-
    lo…

    buona tras-
    missione

    un(o) beso

  9. Uhm. E la Calabria inedita?
    E, stretto senso, di inedito, in questo racconto, cosa c’è?

    Per carità, scritto bene è scritto bene, in italiano corretto!, ma può bastare, questo, per dire che sia un buon racconto? Credo di averlo letto già un migliaio e giù di lì di volte prima ancora di andare oltre il secondo rigo, questo racconto, con il nonno e il nipote, la fotografia nel portamonete e la gita per funghi.

    Mica ci metto dubbi: magari è biografia sincera; è roba: vera. Però, in un racconto, non credo sia la sua verità-di-fatto a fornirne l’alibi di pubblicazone.

    Mi casso da solo: s’è solo per criticare ad alzo zero, perché non tenermi per me questo eccepire che in ovvietà batte dieci a uno il racconto stesso? Tanto più che di Carbone conosco solo un racconto, questo, e nient’altro.

    Mi hanno detto grandi cose di questo sito, quest’è, e questa è la mia prima volta. E mi piace non ci sia una canea di sbranatori.
    Ma da striata iena ridens incarognita a irenico tappeto di pelliccia da camino ce ne passa.

    Questo racconto qualche latrato sconveniente, secondo me, lo merita.

    Un saluto,
    Antonio Coda

  10. Antonio Coda, questo autore merita altro. Per esempio di essere letto. Suvvia, visto che non ha letto ancora nulla cosa vuole che le costi fare un piccolo sforzo in tal senso. Del resto bastava cliccare sui link per farsi un’idea un po’ meno, diciamo, a cazzo.
    effeffe

  11. Forlani, quel “a cazzo” mi ha dato, come dire: una strizzata!

    Sul valore di Carbone non mi pronuncio come non mi sono pronunciato prima, e, sulla parola, ti credo Forlani: Carbone varrà molto più della mia mancanza di approfondimento: lui, però, non questo racconto, che, l’abbia scritto Carbone o tu, Forlani, o io, non mi cambia che valore letterario ne ha poco, se ne ha, e che tutta la intro sulla “Calabria inedita” va per funghi anche lei.

    Però quel “a cazzo”. Che nerbo, Forlani!

    ( Scusa se do del tu. Davvero non conosco la netiquette da questa parti, e se c’è. E non ho problemi a chiedere scusa se sono parso inutilmente trolleggiante: il mio non era un invito alla rissa, ma un commento spassionato su questo racconto che, cazzo o non cazzo, meritava di perdersi sul monte anche lui mettendoci una pietra, nera, sopra).

    Un saluto, sincero come quello precedente,
    Antonio Coda

  12. vedi Antonio
    per me Nazione Indiana non è amici, grande fratello, you know corrida, in cui si mette su un racconto e a quel punto partono le nominations o il pollice verso, o il clik mi piace. E ti asscuro che non è la rissa (e men che meno la ressa) ciò che cerco. Quello che chiedo, e allora dimmi se è troppo, è che prima di avventarsi con categorie decisamente deboli (è scritto bene, io lo do per scontato) contro un autore bisognerebbe misurarsi la palla, in generale, sia che si tratti di esordienti o di autori più o meno affermati. Quel misurarsi la palla sta nel mettere lo stesso rigore che si chiede ad un autore (e al suo postante) nei propri interventi. Di Rocco Carbone esistono molti romanzi, opere, di un percorso interrottosi tragicamente a quarantasei anni. Un percorso che mi sarebbe piaciuto riproporre (qui è solo la prima tappa ) su nazione Indiana.
    è tutto quello che io chiedo. Poi si può dissentire da una poetica, disapprovare certe scelte, per carità, è giusto che si dica la propria, ma con cognizione di causa.
    effeffe

  13. Forlani,
    ho letto la biografia wikizzata di Rocco Carbone, la sua vita ammirabile e la sua morte tragica.
    I suoi romanzi non li ho letti. Mi ripeto: questa è la prima volta che ascolto il nome di Rocco Carbone, e questa è una delle ragioni per le quali mi ha interessato leggere questo sito: ascoltare nomi altrove non pronunciati, per i motivi che possiamo paranoicamente o assennatamente immaginare.

    Quel che per te rappresenta Nazione Indiana mi convince da subito: niente televoto da casa, niente verdetti gladiatori. Proposte, imbeccate, presentazioni: che dire, wow.

    Se può interessare, ti dico come mi è andata: mi collego al sito Nazione Indiana, clicco sul primo post, leggo la intro, leggo il racconto, leggo i commenti, e provo un senso di straniamento. La mia, sia chiaro, non voleva essere affatto una critica formalmente degna di questo nome, perché poi, anche volendo, non è che ne sappia fare: semplicemente avevo provato un senso di imbambolamento. Il racconto, per quanto d’un nitore stilistico nient’affatto liquidabile, l’ho trovato creativamente debole, d’altronde non credo neanche che Carbone abbia potuto attribuirgli un valore, come dire, più che occasionale. Ora faccio poca fatica a comprendere che tutti gli altri commenti appartenevano a persone con più senno di causa sull’opera di Rocco Carbone, ma ciò non toglie che la loro quantomeno “neutralità” mi ha fatto strano.

    Quindi, ribadisco la mia: senza nulla obiettare al di-meglio-e-di-più che c’è in serbo su Rocco Carbone, resta che questo racconto offre un assaggio d’autore – per me – troppo anonimo, e che, inserito nella raccolta di racconti sulla “Calabria inedita”, comunque non avrebbe sfigurato in una antologia di alpini triestini.

    Verissimo, io la palla talora non me la misuro, però anche renderla immediatamente smisurata ha i suo contro.

    Dai, però non voglio fare subito la figura dell’accigliato sussiegoso scassombrelli.

    Mi hai offerto un nome nuovo, e lo ascolterò, nel resto del racconto che ne farai.

    Un saluto per nulla ribaldo,
    Antonio Coda

  14. @ effeffe: perché fare i canoni serve pure a parlare di scrittori come rocco

    Rocco Carbone, L’apparizione (2002)
    Iano, cioè Giano, o Ianus, ovvero la divinità latina degli inizi e del passaggio: il dio bifronte che custodisce da una lato e dall’altro – lo stesso – saluto e congedo. Ma in che senso, con quanta responsabilità il protagonista di questo romanzo traduce in una carriera l’etimo e l’immagine del suo fardello onomastico? Cosa, nella sua breve, tragica storia, restituisce, di un tratto e del suo opposto speculare, la coesistenza nel segno? E cosa il senso del varco, di un attraversamento senza ritorno? Al cospetto enigmatico e ambiguo di una scrittura scabra, rósa fino al midollo, le domande s’avvitano, s’accumulano, si frustrano e profondano. Di lui, Iano, sappiamo poco, eppure tutto quello che è essenziale: che è stato un’altra persona e che non potrà più tornare ad esserlo; che non può che fuggire, perché ha compiuto il passo più difficile; che fatalmente cadrà, come cade chi raggiunge il culmine. Come cade l’eroe. A perderlo, a condannarlo, un’apparizione: ciò che ha creduto di scorgere, lo specchio nel quale il lettore accetta e si convince di vedere riflesso un dio e, perciò, il tormento di un’ossessione sfrenata e pudica, così intensa da non più chiedere d’essere consumata, esorcizzata, vilipesa e offesa. Ogni cosa, allora, può solo sfrangiarsi, lasciare sfumare i contorni che la costringono e diventare, di quell’ossessione celeste, il corpo terrestre. Tanta grazia – Iano/Carbone lo sente anche senza bisogno di saperlo – esige un sacrificio: il suo, nella vita come sulla pagina. E proprio la pagina, con la complicità spietata del caso, risolve in rovina le certezze che cinturano letteratura e esistenza: «Le lacrime continuarono a colare appannandogli la vista. Sentì dentro di sé di nuovo quella serenità, che non lo avrebbe più abbandonato. Di fronte a lui c’era un’altra curva, oltre il parapetto il mare. Accelerò ancora puntandolo. Quando avvenne lo schianto non udì rumore. Si sentì sollevato in alto, verso il cielo. Vide un lampo bianco, che lo abbagliò, e poi nient’altro, e in quel momento tutto gli fu chiaro».

  15. @ stefano
    se conoscessi un po’ meglio l’arte militare capiresti come vi sia un tempo per ogni cosa. ora la cavalleria, ora la fanteria, poco oltre l’artiglieria. I canòni e i fiori effeffe

  16. non c’è la Calabria inedita in questo racconto, c’è molto di più, una saggezza lenta, fatta di gesti e silenzi, di memoria ritrovata per guardarsi oltre, forse solo più dentro.
    è delicato, profondo, analitico, per nulla scontato eppure così comune da toccare le corde di chiunque abbia ancora un ricordo da riscoprire.
    grazie effeffe.

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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