di Marco Rovelli
[Questa riflessione, con cui tento di articolare un discorso complessivo sui vari sensi della servitù migrante (dal piano giuridico al piano economico, con particolare attenzione alle specificità del sistema economico italiano) compare nel numero 8 di Alfabeta2: nelle ultime settimane, abbiamo assistito a un nuovo capitolo della guerra agli immigrati, fatta della negazione dei diritti umani, universali solo per finzione. Ci sono persone che, molto semplicemente, non possono spostarsi liberamente su questo pianeta, anche solo per turismo, o per andare a trovare i propri parenti. Per farlo debbono varcare i confini illegalmente. Una delle accuse al realsocialismo era che teneva segregati i propri cittadini, che non gli permetteva di uscire, di viaggiare in Occidente. Poi la cortina di ferro l’abbiamo fatta noi, al contrario, per non lasciare entrare gli altri. mr]
Che la guerra agli immigrati ci sia, è un fatto autoevidente. Si tratta di chiarirne la natura. La guerra agli immigrati non è solo un fatto italiano, né solo europeo: è un fatto globale, parte di quel complesso processo che si semplifica col termine di “globalizzazione”. In questo processo gli immigrati sono oggetto privilegiato di una guerra che però non riguarda solo loro, ma la ridefinizione dei rapporti complessivi tra capitale e lavoro – laddove però questa polarità deve definirsi mediante il ricorso ad altre coordinate: centro/periferia (le migrazioni tra campagna del “Sud” e città del “Nord” non ricalcano forse su scala globale i processi di urbanizzazione durante la rivoluzione industriale inglese?), flussi/luoghi, rendita finanziaria/profitto produttivo, eccetera. E non si può comprendere la natura delle migrazioni se non le si contestualizzano nel quadro di una ormai trentennale guerra senza quartiere contro i diritti dei lavoratori, che ha portato a una loro erosione progressiva, fino a definire l’era presente come quella del precariato.
Gli immigrati sono individui dall’identità precaria che subiscono gli effetti di una mega-macchina da guerra, un complesso dispositivo che funziona a diversi livelli: giuridico, politico, culturale e – in ultima istanza, e prima – economico. Essi vengono esclusi dalle società che dicono di “ospitarli”, esattamente come un aristocratico poteva dire di ospitare nelle sue ville un servo (ma l’atto finale di questa esclusione è l’espulsione, o forse, meglio: la deportazione); e, in termini più generali, vengono esclusi dal novero di coloro che possono godere dei “diritti umani”. E’ solo per l’Occidente infatti, come giustamente argomenta Žižek, che valgono i diritti umani, concepiti del resto insieme all’idea di cittadinanza, concetto che è esso stesso dirimente, esclusivo. Quella dei diritti umani è una falsa universalità, e questa finzione appare in tutta la sua evidenza quando si consideri appunto la condizione degli immigrati (non solo quelli clandestini).
Da questa universalità gli altri sono esclusi. Essa per loro non vale, e dunque smette di essere universale per trapassare in finzione. E’, con ogni evidenza, uno stato paradossale: analogamente alla paradossalità pensata con il concetto di eccezione da Giorgio Agamben, dove chi viene messo al bando – eccepito – viene incluso nel diritto mediante la sua stessa esclusione. Chi è oggetto dell’eccezione non si può dire se sia dentro o fuori dall’ordinamento giuridico, dacché il diritto si pone in relazione con lui esattamente abbandonandolo, lasciandolo a sé, alla sua nuda vita, privo di qualsivoglia protezione.
In ogni guerra uno schieramento ha i suoi avamposti, le sue torri di guardia. I Centri di detenzione per “clandestini” che costellano l’Europa sono gli avamposti della guerra agli immigrati. Terminali di una politica basata sull’esclusione. In un libro che ho dedicato ai Centri di detenzione per immigrati li ho chiamati lager: ovvero campi dove il diritto si sospende, e dove perciò la condizione di coloro che sono esclusi dal diritto appare in tutta la sua concretezza. La condizione paradossale dell’escluso era stata del resto inconsapevolmente esibita nel nome che a questi Centri – che oggi, più brutalmente, si chiamano Centri di identificazione ed espulsione – era stato dato all’epoca della loro istituzione con la legge Turco-Napolitano: Centri di Permanenza Temporanea.
Da un’altra prospettiva quei centri appaiono come are sacrificali. Dove si compie un atto di sacrificio nei confronti di una vittima designata secondo la più classica delle logiche espiatorie. Quei centri, allora, servono a mostrare all’opinione pubblica – concetto quanto mai finzionale, costruito in quanto tale dal sistema dello Spettacolo – ciò che normalmente è occultato: sono i luoghi dove l’invisibilità costitutiva del clandestino si rende visibile. Ma si badi, non è il clandestino a rendersi visibile – ché i singoli uomini e donne restano occultati alla coscienza degli “spettatori”: ad essi non sono restituiti nome né volto, non diventano mai persone – ma è la condizione di clandestinità stessa, nella sua invisibilità, a essere mostrata. E questa esibizione accade nell’atto sacrificale dell’espulsione. Una mutilazione corporale, un taglio, la restituzione al mondo altro della barbarie, cacciati nell’indistinzione di un mondo ctonio. (Il tempio e il sacro, com’è noto, sono i luoghi della separazione). In questi centri si opera il discrimine radicale tra il dentro e il fuori: tra gli umani e i non-umani. Se una possibile definizione dell’essere umano potrebbe essere: “colui che gode dei diritti che pertengono all’umano”, allora in questi centri, altari sacrificali dell’epoca presente, si sancisce che alcuni esseri non godono dei diritti umani, e dunque umani non sono.
Non sono umani, gli uomini neri. Essi servono. Servono in molte guise. Servono, anzitutto, in quanto uomini neri. Che poi è il modo migliore di rendere il senso etimologico del termine “clandestino”. Clam–des–tinus. Ciò che sta nascosto al giorno, e odia la luce. Chi sta nell’ombra. L’uomo nero, invisibile, confuso nella notte, privo di figura, di contorni, di volto, di nome, di identità. Una grande massa oscura che viene designata nella sua paurosa alterità. L’uomo nero, eterna macchina da paura. Ed è questo il primo senso del servo: produrre paura. Di come la paura sia una formidabile risorsa politica hanno detto in tanti, e basti ricordare colui che ha pensato la sovranità politica moderna, Thomas Hobbes: l’uomo rinuncia volontariamente ai propri diritti nella misura in cui ha paura dell’altro uomo, fatto lupo. Più si crea l’immagine dell’altro in quanto mostro, tanto più l’individuo rinuncerà ai propri diritti – dunque a se stesso in quanto umano, propriamente – per aver salva la vita. Produrre paura è essenziale in tempi d’emergenza come questi, per il rapporto direttamente proporzionale tra paura e rinuncia ai diritti e rafforzamento del potere sovrano. Il sistema Spettacolare è lì (anche) per questo: produce fantasmi per natura, e quello dell’uomo nero è facile da produrre, è un effetto ottico di moltiplicazione. Basta parlare di immigrazione quando si parla di criminalità e il gioco è fatto, si crea un frame che resta inciso nelle reti neurali vita natural durante.
Ma quanto più gli immigrati vengono concepiti/prodotti in quanto uomini neri, tanto più vengono animalizzati e respinti ai margini dell’umano. Vengono resi, sempre di più, cose. E, in particolare, macchine produttive. Il tipo ideale del lavoratore, da sempre desiderato da un sistema fondato esclusivamente sul profitto: in quanto invisibili, essi non hanno nulla da reclamare, da rivendicare, e possono essere usati esattamente come macchine.
A questo punto, è necessaria una puntualizzazione: quando dico clandestino, non mi riferisco solo agli immigrati irregolari, senza permesso di soggiorno (“illegali”). Mi riferisco invece all’immigrato tout court. Sì, perché qualsiasi immigrato è un clandestino. Un immigrato regolare, essendo la sua condizione di regolarità legata al possesso di un contratto di lavoro, può in qualsiasi momento essere cacciato nella condizione di clandestinità: un immigrato regolare è sempre un clandestino potenziale. Egli è sempre soggetto a un ricatto costante: o mantiene il lavoro alle condizioni che gli sono offerte o rischia di essere nullificato in quanto persona. Escluso dal novero di coloro che possono godere dei diritti universali. Ma se i diritti universali sono intangibili, il fatto che egli possa perderli implica che nemmeno per lui vige l’universalità del diritto. L’immigrato regolare è già una persona inferiore rispetto al “cittadino”. E questa inferiorità è legata alla sfera del lavoro. E’ nel lavoro dunque che occorre andare a trovare le ragioni ultime di questa produzione di esseri esclusi dall’universalità del diritto.
La migliore definizione del clandestino è, da questa prospettiva, quella di “precario assoluto”. Egli è colui che subisce nella propria quotidianità gli effetti devastanti di una precarietà assoluta, in tutti i campi della propria esistenza: lavorativo, giuridico, abitativo, relazionale, affettivo… Il clandestino è allora il punto terminale di un processo – quello della precarizzazione – che riguarda tutti: cittadini e no, garantiti e no. E’ la base di una piramide sociale basata sul ricatto: sopra di lui c’è infatti l’immigrato regolare, clandestino potenziale, che a sua volta deve soggiacere al ricatto lavorativo per non perdere il permesso di soggiorno , e accetterà dunque condizioni che potrebbero essere inaccettabili per un “cittadino” che non ha lo spettro di essere cacciato nella clandestinità e deportato. L’effetto di questa piramide è l’abbassamento complessivo dei diritti di tutti i lavoratori.
Così, il lavoratore italiano che vede quello marocchino accettare un salario minore, ritmi e tempi di lavoro più intensi, si scaglia contro la presenza dei lavoratori immigrati: quando invece si tratterebbe di capire che per difendere i propri diritti l’unico modo sarebbe quello di far sì che anche il lavoratore marocchino li abbia, in modo che potrebbe rivendicarli senza essere costretto ad accettare quelle condizioni. Come sempre è stato, la divisione dei lavoratori è il primo nemico per i lavoratori stessi. Del resto, da questo punto di vista la storia italiana lo insegna: i lavoratori meridionali che emigravano al nord nel secondo dopoguerra erano considerati crumiri, all’inizio. Ma poi, nel giro di quindici anni, tra molti di loro si sviluppò un forte processo di sindacalizzazione, di coscienza di classe – e furono in prima fila nelle avanguardie politiche dell’autunno caldo, delle occupazioni, dei picchetti. Erano cittadini, e potevano farlo. Oggi gli immigrati, in quanto esclusi dall’universalità dei diritti, non possono.
La guerra agli immigrati non è solo un fatto italiano, dicevo all’inizio. Ma l’Italia, nella sua legislazione sull’immigrazione, combina gli strumenti peggiori escogitati dalla fortezza Europa: ultimo dispositivo, il pacchetto sicurezza. Credo che questo abbia a che fare con un’anomalia di fondo del sistema socioeconomico del nostro paese, che richiede lavoratori servili in misura ancora maggiore degli altri paesi. Due dati. L’Italia è il paese in Europa, che detiene il record, insieme alla Grecia, dell’incidenza dell’economia sommersa sul Pil. Ogni studio dà stime differenti, ma sono tutti concordi nel definire chi guida la classifica: secondo il più recente studio comparativo, effettuato della società di consulenza AT Kerney, il sommerso in Italia conta il 22,2% del Pil, più che in ogni altro paese dei quindici di prima adesione all’Unione Europea.
Inoltre, la struttura del sistema economico italiano è in maniera abnorme frammentata, polverizzata. Catene infinite di esternalizzazioni, appalti, subappalti, gare al massimo ribasso – e conseguente necessità primaria di disporre di un serbatoio di lavoratori neri e nerissimi a cui attingere. Come ho già scritto in Servi, il sistema produttivo italiano è un sistema che aumenta profitti e rendite, ma che scarica i costi sui lavoratori autonomi delle microimprese, esposti alla perdita di garanzie e di sicurezze. Le medie e grandi imprese italiane accumulano profitti (mai in misura così grande nella storia del paese come nel decennio 1996/2005, secondo un’indagine di Mediobanca del 2006), riducendo progressivamente l’occupazione. A offrire lavoro sono appunto le piccole imprese e le microimprese, sulle quali è scaricato di fatto, mediante il sistema degli appalti e delle gare al massimo ribasso, il rischio d’impresa (fatto paradossale, visto che esso sarebbe la giustificazione ideologica del profitto capitalistico…). E le microimprese in Italia hanno un peso abnorme rispetto ai paesi dell’Europa “avanzata”. Costituiscono infatti il 94% delle imprese italiane, e offrono lavoro a poco meno della metà di tutti gli occupati nel settore di mercato, per la precisione al 47,8%, una percentuale più che doppia rispetto ai dati francese e tedesco. E se i profitti restano alle parti alte della catena produttiva, tutto va a scaricarsi su queste imprese, che – lavorando senza capitali e senza sussidi – in qualche modo devono far fronte agli utili risicati che gli restano. A sua volta questo richiede in maniera quasi necessaria l’utilizzo di lavoro nero, e nerissimo.
Ecco, allora, il perché della guerra. C’è da forgiare un soggetto sempre più privo di diritti da usare: da sfruttare, si dovrebbe dire, se non si avesse paura di un linguaggio troppo chiaro e distinto.
I bambini, moltitudine del mondo e il poeta. il poeta politico: ognni poeta è un poeta politico. e i bambini. quelli sotto le macerie dell’Aquila, quelli del Giappone, quelli dei poveri
anche in tempi di pace e quelli delle donne migranti.
Il bambino migrante frutto d’amore
Sfondo nero l’universo.
D’azzurro cieco splende la Terra.
Immagine mozzafiato.
Appena un attimo allo specchio.
Stupido Narciso di se stesso.
Passare l’umanità intera di pochezza.
Il mare, l’amore, la solitudine siderea.
E i campi di grano lasciati incolti.
Il bambino seduto col padre.
Dai filid’erba alla vastità.
S’incammina alla morte
la tribù retrograda alla vita.
E l’infante al gioco dei colori
mai smette la risata ingenua della sincerità.
Io sono il bambino migrante.
Sono l’unico su questo barcone, fetente carretta, ma ancora pronta ad affronare il mare profondo e largo e dalle onde grosse, scure e disperate.
io sono il bambino.
siamo partiti in cerca di una nuova vita. e un nuovo mondo. mio padre di mestiere fa il falegname. parla sempre di dio. e dice che vuole altri figli.
io sono il bambino.
ce n’è un altro che se ne sta buono a gonfiare la pancia di mamma. gli altri sul barcone sono giovani. vecchi niente, dormoni nelle case del deserto.
io sono il bambino.
ho lasciato la mia terra per approdare in un altra. quelli dell’isola di Lampedusa ci accolgono, ma poi non sanno che altro fare con noi.
io sono il bambino.
il mare grosso, si è fatto scuro. lo scuro del mare è una cosa con lo scuro del cielo. le nuvole sono basse, quasi a cadere su di noi.
io sono il bambino.
sul barcone c’è agitazione. mamma mi stringe.
piange. e mi bacia. preghiamo dice mamma. dio sicuramente ci aiuterà. e stringe le mani.
io sono il bambino.
il barcone si è spezzato in due. finiamo tutti tra le onde alte. vedo mamma che si agita, poi piano piano scende giù nel mare profondo.
io sono il bambino.
ho lasciato la mia terra e quell’altra non si vede nemmeno. voglio satre con mamma. e mi lascio andare laddove la corrente porta lei.
io sono il bambino.
e non sbarcherò mai. e non riderò più. e non piangerò più. e non correrò più insieme agli altri bambini. e non urlerò dal dolore e dai patimenti. e non invocherò più amore.
io sono il bambino.
senza terra. senza il sole. senza avvenire. senza gioia. senza scuola. senza il mio cagnolino. senza cuore. senza padre e madre. e senza stelle che brillano. mamma muta dice: quelle che brillano non sono le stelle. sono razzi, bombe, mortai.
Io sono il bambino.
senza vita.
la mia vita.
m’adagio tra i flutti.
e i pesci nutro. e nutro la terra pianetta azzurro.
E lontano, lontano splende sordo.
Songo nato dint’a ‘na barca ‘e piscatore,
però mmiezz’o mare dint’o canale ‘e ll’inferno:
acqua ‘a terremoto, accussì ‘ncielo
comm’a mmare, cu ll’onne ‘e ruje metri.
e, tremmanno, redenno e pazzianno,
sapite qualu nomme m’hanno miso?
accussì piccerillo into stà nuttata
‘e maletiempo,
tra lacreme lucente e vase ‘nfuse,
mi chiammeno Moby Dick.
e, ncopp’a terra e ‘nfunn’e mare,
già saccio
chello ca m’aspetto.
ma accussì và ‘o munno.
molto puntuale, non si può che condividere l’analisi Andrebbe approfondito maggiormente, ma non è questa la sede, il tema della piccola impresa. La grande è ormai del tutto sparita in Italia e quindi penso che ormai la battaglia si dovrebbe articolare, da parte dei conglomerati internaziona, in una sorta di ” proletarizzazione ” o schiavizzazione delle piccola impresa…magari una sera ne parliamo a Fosdinovo.ciao nanni