Il cuore non è una chiatta

di Mirfet Piccolo

Il giorno che vide il corpo di sua madre essere chiuso dentro una cassa di legno, Aldo Oriani decise che ne aveva avuto abbastanza, e prese quindi la ferma decisione che mai e poi mai avrebbe, in futuro, versato ancora lacrime, provato paura, tristezza e rabbia, e, per essere certo di fare le cose bene, senza sbavature e inutili rischi, decise anche che non avrebbe più provato gioia tra i suoi compagni ed amici, che non avrebbe desiderato nessun gioco nuovo né andare al parco, che il minestrone e le patatine fritte avrebbero avuto lo stesso sapore e che perciò non avrebbe fatto differenza mangiare l’una o l’altra cosa. Niente. Ed era un niente che aveva senso. Così decise Aldo Oriani, maschio, altezza un metro e quarantuno centimetri, anni otto.
– Povero bambino, povero piccolo -, gli disse il prete accennando una mano aperta verso la guancia del bambino, e Aldo, che non aspettò il compiersi della carezza, si voltò verso il padre e con voce limpida domandò, papà questo vuole dire che la mamma è morta con tutti i soldi?
La mattina seguente Aldo andò a scuola come tutti gli altri giorni: seduto al suo banco, il quaderno aperto su una pagina bianca, la penna in mano pronta a scrivere; alzò la mano e si fece interrogare, rispose a tutte le domande senza esitazioni.
Maestre e parenti erano convinti che presto il bambino avrebbe dato libero sfogo alle sue emozioni. Ma così non successe, e la morte della madre divenne presto un fatto lontano e nell’ordine delle cose, un evento rispetto al quale, convenivano tutti, il bambino aveva trovato la forza e la maturità di andare avanti. E così fu, senza sprechi né pretese.

Una domenica – era l’ora di pranzo, era una bella giornata di luce chiara – il padre di Aldo tornò a casa con i pasticcini in una mano e con una donna nell’altra e annunciò:
– Aldo, ora hai una nuova madre -, e Aldo la guardò dal basso all’alto e disse, va bene non c’è problema; anche se il bagno era uno solo e forse era necessario istituire dei turni.
Samantha voleva essere ben voluta da Aldo: presto gli comprò la nuova play-station, da usare quando voleva; gli cambiò il guardaroba con jeans alla moda e nuove scarpe da ginnastica, per essere come gli altri, anzi meglio degli altri; lo portò a cavalcare e incitò il marito affinché andasse con Aldo ad una corsa di formula uno. Aldo rispondeva sempre molto educatamente, grazie è tutto molto bello (in realtà: i cavalli ad Aldo non piacquero molto per via di quegli occhi equini così grandi e lucidi, di una sfericità che Aldo misurò essere, con molta probabilità, aliena; la formula uno, invece, quel corrersi dietro e in tondo, gli parve un gioco per stolti e troppo rumoroso) e teneva le sue nuove cose con molta cura: i vestiti ben piegati nell’armadio, i giochi in ordine sulla mensola. Col tempo le attenzioni di Samantha scemarono, e nello spazio di pochi mesi si riassunsero in una mancia settimanale di trenta euro in aggiunta ai venti che gli dava il padre.
Era una famiglia serena e di raro equilibrio. Avevano pure la colf e due posti auto riservati davanti casa.

In quegli anni, l’unica cosa che procurò fastidio ad Aldo fu svegliarsi la mattina umido e appiccicaticcio tra le gambe. Sapeva benissimo di cosa si trattava, e sapeva che non era una cosa pratica. Decise perciò di risolvere la situazione applicando il metodo insegnatoli dalla sua prima madre per non bagnare il letto: svuotarsi bene prima di andare a dormire. Non era come fare la pipì – che spruzzava fuori quasi da sola, bastava spingere un po’ -, ora Aldo doveva muoverselo ripetutamente su e giù; ma il principio era lo stesso e infatti funzionò. Risolto questo, non ci furono altri problemi, e Aldo completò con successo la scuola secondaria.

Poi arrivò una sorella, Sofia. Era piccola e, constatò Aldo nel reparto maternità dove Samantha era ricoverata, molto brutta. Forse, pensò Aldo, non sarebbe sopravvissuta a tanta bruttezza. Invece la bambina lasciò l’ospedale in piena salute e, a detta di tutti i visitatori che seguirono in casa, era: una vera principessa, una bella-ma-proprio-bella, una patatina, una signorinetta, una che farà impazzire gli uomini, una bittibitti-puttiputti. Il giorno che Aldo la vide muovere i primi passi da sola smise di pensare che sarebbe morta.
Ogni tanto suo padre chiedeva ad Aldo di curare la bambina mentre lui e Samantha erano fuori, a cena o al cinema: Aldo non rifiutava mai, non avanzava pretese né rispondeva con piccoli ricatti adolescenziali e diceva, si va bene non c’è problema. Poi, quando i suoi genitori uscivano, Aldo prendeva le grosse cuffie stereo, le metteva sulle orecchie della bambina e accendeva la TV sintonizzata su qualche cartone. La bambina rimaneva tranquilla, e lui poteva andare al suo PC a leggere qualche manuale o a sviluppare qualche programma che risolvesse il problema del sovraffollamento del loro unico bagno, specie in previsione di un’ulteriore crescita di Sofia. Intanto Sofia non emetteva alcun suono e si addormentava. Aldo poi spegneva la TV e le toglieva le cuffie e aspettava, seduto sul divano, il rientro dei suoi genitori.
– Tutto bene, Aldo? – gli domandava il padre e Aldo rispondeva sempre, certo papà tutto bene.

Arrivò il momento di compiere gli studi universitari: una scelta ovvia, senza dibattimenti e o dubbi di alcun genere. Aldo si trovò aggregato ad un gruppo di sei ragazzi: sedevano nella sua stessa fila durante le lezioni di statistica, masticavano gomme e il giovedì sera andavano a giocare a calcetto (Aldo accettò l’invito di andare al campo; si assegnò il ruolo di tecnico: dalla panchina teneva il punteggio, su di un blocco a quadretti disegnava gli schemi e calcolava le percentuali di possesso palla).
I suoi compagni parlavano anche di ragazze, ne parlavano sempre, e Aldo pensò che fosse arrivato pure per lui il momento di trovare una femmina con la quale uscire due volte a settimana e della quale prendere in mano i seni specie se voluminosi. O il culo.
Una sera, Aldo entrò in mIRC e iniziò la sua ricerca. Aprì la query di una certa Mitty e così conobbe Rebecca. Non ci volle molto e non fu particolarmente difficile: dopo una settimana di chat, durante la quale Rebecca scriveva profusamente della sua vita tra noiosi libri e la palestra e Aldo per lo più faceva domande che si era preparate e scritte su un foglio di carta, uscirono per la prima volta. Si videro in un piccolo bar su una strada affollata; seduti ad un tavolo di plastica, con fiori finti e un menù avvizzito, un cinese di nome Gianni servì a lei una cioccolata con panna e a lui un’acqua tonica. Quello fu il primo di una lunga serie di appuntamenti, tutti molto tranquilli e senza sorprese di alcun tipo.
Il sabato pomeriggio, dalle ore 14 alle ore 18, studiavano insieme in biblioteca, uno di fronte all’altra; ad ogni ora trascorsa Aldo alzava la testa e bisbigliava, pausa. La domenica pomeriggio, dalle 14 alle 17, invece, uscivano: andavano al cinema o al parco se c’era bel tempo. A settimane alterne prendevano una stanza ad ore nella quale non stavano mai più del necessario.
Alla fine del primo anno di corso, Rebecca lasciò gli studi universitari per andare a lavorare come segretaria in uno studio dentistico associato. Era stufa di perdere tempo sui libri per un lavoro che certamente non avrebbe mai trovato, e poi voleva la sua autonomia, perchè ormai era una donna e aveva anche lei certe esigenze, certi bisogni e istinti primari. Camminava nervosa e gesticolava per la stanza del motel. Aldo, seduto sulla sponda del letto, l’ascoltò attentamente senza interromperla. Quando Rebecca sembrò aver terminato ciò che aveva da dire e domandò solo:
– Che ne pensi, amore, faccio bene o no? -, Aldo si alzò placido e le disse, fai come credi perchè ogni cosa ha i suoi pro e i suo contro e non c’è giusto né sbagliato.
Rebecca lavorava anche di sabato pomeriggio. Aldo aveva deciso che il sabato poteva essere benissimo sostituito con il venerdì: alle ore 19 del venerdì andava a prenderla allo studio e l’accompagnava a casa; sulla porta un bacio leggero e poi, allora ci vediamo domenica alla solita ora. Da casa di Rebecca, Aldo contava i passi fino a casa sua: erano 278 d’estate con le scarpe leggere e la strada libera dalle pozze di poggia o manti di neve; 417 d’inverno quando gli scarponi lo costringevano a fare passi piccoli e più pesanti.

Arrivò il giorno di discussione della tesi. Aldo era preparato. In bagno, poco prima del suo turno, sentì dei ragazzi che parlavano di gambe tremanti e cuori in gola. Mentre si asciugava le mani con la salvietta di carta, Aldo pensò che l’espressione “cuore in gola” fosse inutile e senza senso. Come se il cuore si potesse spostare, così, da solo, da una parte all’altra del corpo. Il cuore non è una chiatta, pensò. Stupidaggini.
La discussione gli valse la lode, e tante strette di mani, anche quella di suo padre:
– Bravo figliolo, tua madre sarebbe fiera di te –, e Aldo ritirò la mano, non dire sciocchezze papà è ovvio che noi questo non possiamo saperlo.

Trovò presto un lavoro in una grande e solida azienda e, dopo un anno all’ufficio logistica – Aldo era un impiegato sempre puntuale e rispettoso delle regole -, ottenne un aumento di stipendio. Agli occhi dei suoi colleghi l’aumento dato ad Aldo fu una vera sorpresa: quelli infatti erano tempi duri, si diceva che l’azienda avrebbe tagliato i costi e i lavoratori si stavano organizzando con i sindacati. Aldo aveva visto e letto qualche volantino, nella bacheca della sala mensa. Un giorno, a pranzo, un suo collega gli chiese cosa ne pensava e se voleva unirsi anche lui alla manifestazione di protesta. Aldo rispose che lui non si occupava di politica e che l’unica cosa da fare affinché le cose andassero lisce era che ciascuno pensasse a fare bene il proprio lavoro.
Poche settimane dopo la promozione, Aldo fu convocato dal Direttore. Aveva per lui un nuovo incarico: registrare e riferire in direzione ogni malcontento delle truppe, perchè l’azienda non poteva permettersi nessuno spreco di energia. Era un venerdì. Prima di assumere il nuovo incarico, e per la prima volta e in via del tutto eccezionale, Aldo chiese e ottenne il pomeriggio libero.
Quel pomeriggio andò in una gioielleria e comprò un anello di fidanzamento, sobrio ma elegante. Perchè andava fatto ciò che andava fatto, senza troppi pensieri né moine. Quando arrivò allo studio dentistico gli dissero che Rebecca era dovuta tornare a casa a prendere dei documenti importanti ma che sarebbe tornata prima della chiusura. Per non perdere tempo, Aldo decise di andarle incontro.
Bussò alla porta. Bussò ancora. Nessuno venne ad aprire. Pronto ad andarsene – forse Rebecca aveva cambiato percorso ed era già in strada di ritorno allo studio -, Aldo gettò un occhio alla finestra della sala, alla tenda non completamente chiusa. Rebecca si stava stringendo in vita una vestaglia e un uomo a torso nudo si muoveva in fretta dal divano alla cucina.
Quando Rebecca, trafelata, aprì la porta e farfugliò:
-Oh, sei tu…, io stavo giusto per … -, Aldo le sorrise e le disse, sì sono io. Poi si voltò e se ne andò.
Tornò a casa. Mise l’anello nell’ultimo cassetto del comò, estrasse lo scontrino dal portafoglio e lo posò vicino alla scatola: lo avrebbe restituirlo al negoziante o rivenduto. Ma presto si dimenticò anche dell’anello, e tutta quella storia gli tornò in mente, per un attimo, solo quando, un giorno di molti mesi dopo, rivide l’anello al dito di Sofia che civettava in salotto con le sue amiche e lo mostrava come fosse un trofeo.
– Non ti dispiace vero se lo tengo io? – e Aldo rispose, è solo un oggetto.

Gli anni che seguirono furono calmi e prevedibili, anche nella malattia di suo padre che piano lo fece morire, e dopo la quale Samantha decise che in quella casa non poteva più starci e lei e Sofia se ne andarono. Per il funerale del padre Aldo non si fece cogliere impreparato: già da tempo aveva preso contatti con l’agenzia funebre, ed ebbe pure l’occasione di pensare anche a se stesso, vale a dire di usufruire di uno sconto del 25% sul prezzo di due bare.
Nella casa ora vuota la vita di Aldo non avvertì grossi cambiamenti: lavorava sempre molto e spesso cenava in ufficio o, al rientro, faceva una sosta in autogrill.
Una sera il Direttore lo convocò e gli disse che era licenziato. L’azienda stava attraversando una profonda crisi e necessitava di giovani leve con le quali rafforzare i ranghi.
– Ma lei è sempre stato un uomo tranquillo – aggiunse il Direttore – perciò tenga, tenga questa lettera di referenze, sono certo che troverà un altro posto con cui arrivare alla pensione, e Aldo disse, capisco signor Direttore lei è stato un ottimo Direttore e sono contento di essere cresciuto in questa azienda se adesso permette allora io andrei.
Tornò alla scrivania a raccogliere le sue cose: una calcolatrice, l’agenda, e il piano ferie che aveva pronto da sei mesi e che avrebbe dovuto consegnare tra dieci giorni lavorativi. Lasciando l’ufficio, Aldo fece due calcoli: il primo che gli mancavano tre anni per la pensione; il secondo che, nel frattempo, i risparmi accumulati nel corso degli anni gli avrebbero permesso di vivere dignitosamente senza dove per forza impiegarsi in un altro lavoro. E così fece: e i tre anni passarono e arrivò la pensione.

Un sabato mattina, mentre si apprestava a mangiare la sua colazione (caffé solubile e quattro fette biscottate), suonarono alla porta.
Un giovane in salopette blu si presentò con il nome di Jonathan e disse che lavorava per una ditta che raccoglieva tutto ciò che la gente voleva buttare via. Il ragazzo precisò con enfasi che la raccolta era effettuata gratis e, a voler proprio ben vedere, chi si liberava di cose vecchie guadagnava spazio per cose nuove. Per tutto il tempo di quel discorso di presentazione, il ragazzo tese il collo e lo sguardo all’interno della casa.
– Se vuole le posso anche togliere la carta da parati visto che non va più di moda. Non sarebbe gratis ma se vuole le posso fare un buon prezzo.
Aldo non rispose subito.
– Le propongo una cosa – disse al ragazzo.
Il ragazzo sorrise e si fece attento.
– Lei venga qui una volta al giorno, diciamo ogni sera alle sette. Le farò trovare due pacchi con delle cose da portare via. Due pacchi al giorno per trenta giorni.
– Cosa? lei vuole veramente che io vengo qui tutti i giorni per un mese?
– La pagherò.
– Oh, beh, io… va bene. E quando dovrei iniziare?
– Inizierà domani. E le lascerò un paio di chiavi, così se non sarò in casa lei potrà entrare a prendere i sui pacchi.
– Affare fatto. Allora a domani, signor…?
– A domani.
Il giorno seguente Aldo si svegliò all’alba e iniziò subito a lavorare. La prima stanza fu la cantina: c’erano vestiti e scarpe di sua madre e che suo padre si era ostinato a conservare. Mise tutto nelle scatole senza soffermarsi troppo sui contenuti – intravide molte lettere e foto alcune in bianco e nero – e portò le prime due scatole in sala da pranzo.
Jonathan arrivò alle sette in punto. Aldo, pronto sulla porta, con le scatole gli diede anche un pugno di banconote.
– A domani – gli disse.
Il ragazzo stava per dire qualcosa ma Aldo aveva già chiuso la porta.
I giorni seguenti furono più o meno tutti uguali.
– Se io non rispondo, è sicuro di avere le chiavi per entrare? chiese Aldo una sera.
– Certo, signore, le tengo sempre con me anche se…
– Allora a domani.
Terminata la cantina passò alla stanza del padre e della matrigna. Sul comò intravide la foto di un bambino e si riconobbe solo perchè qualcuno aveva scritto sulla cornice “Aldo a sei mesi”. I vestiti di suo padre erano ancora tutti nell’armadio e quando Aldo aprì l’anta si sentì schiaffeggiato dalla puzza di vecchio. Trovò anche qualche abito da donna e un pacco di lettere affrancate ma mai spedite. C’erano molte cose in quella stanza, cose di ogni tipo, ma Aldo inscatolò tutto senza perdere il ritmo, velocemente e con ordine.
Jonathan arrivava sempre puntuale e il lavoro procedeva liscio; ancora pochi giorni e le scatole sarebbero state complete e la casa finalmente pronta.
Dopo la camera del padre, Aldo passò alla stanza di Sofia. Era la stanza di una ragazzina, con qualche poster ingiallito sui muri e un orsacchiotto sotto il letto. Aldo si chiese come avesse fatto a vivere nella stessa casa con una bambina. Nella manciata dei secondi necessari a sigillare un primo scatolone con il nastro adesivo, Aldo constatò che non si ricordava le sembianze di questa Sofia, e si disse, si vede che non era importante. In quella camera non c’erano molte cose, e due scatoloni furono più che sufficienti.
Raccolto tutto dalla stanza di Sofia, Aldo andò in cucina: dal tostapane alle tovaglie, pentole e pentolini, piatti, bicchieri e posate. Dopo la cucina, la sala: quadri e quadretti, mobili, la TV, la radio. Fece portare via pure il divano, e al centro della sala rimase solo una poltrona.
Un giorno Aldo disse a Jonathan che invece dei pacchi, quasi ultimati, si sarebbe dovuto occupare di rimuovere tutta la carta da parati. L’avrebbe pagato di più.
Per rimuovere la carta da parati fu necessario modificare gli orari di lavoro: Jonathan ora doveva iniziare alle nove del mattino e lavorava tutto il giorno. Terminato il lavoro della carta da parati, era da intendersi il ripristino dell’orario normale, cioè alle sette di sera. Aldo gli apriva la porta e poi andava in camera sua dove rimaneva fino a quando, a sera, Jonathan dalle scale diceva, a domani, e sentiva la porta chiudersi. Quando arrivò il giorno di togliere la carta dalle pareti della camera da letto di Aldo, Aldo uscì – andò prima in banca e poi in chiesa – e quando fece rientro Jonathan era già andato via e la sua stanza era senza pelle.

Arrivò il trentesimo giorno. Poco prima delle sette, Aldo Oriani si sedette sulla poltrona. Sentiva di avere un po’ il fiato corto, ma guardò soddisfatto la stanza vuota, il nulla che era rimasto da fare: il senso di oppressione al petto non fu poi così doloroso né spaventoso. E quando sentì quel pugno di dolore – un minuscolo sole che rotola e brucia – irradiarsi dallo sterno fino alle spalle, Aldo era convinto che mai, specie in quell’attimo, avrebbe provato ogni cosa di quel niente, che mai potesse esistere un tale riflusso di rabbia e paure e umilianti solitudini, di desideri e gioie abortite; e quando il dolore dalle spalle corse lungo il braccio sinistro – una liscia bolla, piccina piccina – Aldo Oriani si lasciò impregnare dallo strazio di fronte al corpo morto di sua madre e dal pensiero di quanto fosse bella, la sua mamma, così perfetta nell’immobile respiro, così bianca di cera.
Jonathan chiamò l’ambulanza; gli chiesero il nome dell’uomo che stavano portando via e il suo grado di parentela: il ragazzo rispose svelto: nessuno.

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3 Commenti

  1. Davvero bello e inquietante. Una linearità paurosa… e surreale, per fortuna. Perdonatemi il romanticismo, ma penso che, per quanto cerchiamo di rendere piatta la nostra vita, essa non ci permetterà mai di appiattirla e svuotarla fino a questo punto. Potremmo anche averne l’impressione (depressione?), ma lungo la strada da casa a lavoro e viceversa o verso la chiesa qualcosa o qualcuno che ci farà soffermare, che ci attrarrà, che creerà delle crepe nella nostra routine ci sarà sempre. A me anzi sembra che la vita sia fatta più di crepe che di piani continui.
    Bellissima scrittura comunque, essenziale al massimo e capace di creare scenari perfettamente visibili, tranne che alla fine, dove il lirismo fa interrompere anche al lettore la frenesia di divorare immagini, e insieme al protagonista si ricomincia a pensare, a sentire.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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