El boligrafo boliviano 5
di Silvio Mignano
Io non ho mai amato il carnevale, mi ritrovo a pensare mentre attraversiamo l’altopiano. Di tutte le feste è sempre stata quella che ho sentito di meno e che ho vissuto semmai con malcelato fastidio, come se qualcuno volesse impormi un’allegria forzata, o forse perché cercavo il mio travestimento altrove, dietro la maschera della pagina scritta. Per un imprevisto contrappasso, allora, mi è toccato lavorare l’una dopo l’altra a Basilea e in Bolivia, due terre così lontane e diverse, unite tuttavia dalla passione per i rispettivi carnevali.
Adesso però mi concentro su quest’altra rivelazione che scorre davanti ai miei occhi. A volte diamo per scontate cose che sono realmente straordinarie: se solo non svalutassimo così le parole, noi per primi che per mestiere le lavoriamo ed elaboriamo! Sono ore che ci spostiamo in linea retta senza scendere né salire, imprigionati da una gigantesca livella a quattromila metri di altezza, come se un equilibrista avesse poggiato una tavola piatta sulla cima del Gran Paradiso. Centinaia di chilometri senza nulla, se non una prateria brulla, macchiata qua e là dal movimento grave di una coppia di lama o da quello più lieve di una mandria di piccole vigogne, i colli sottili e tesi che mi ricordano quelli delle impala estratti da una mia altra vita, in una savana qualsiasi tra Nairobi e l’Amboseli. Il nastro della strada si snoda diritto, senza svolte né saliscendi, tagliando questa terra rossa mattone abitata da cespugli scuri, pezzata da campi di patate e di quinua, apparentemente abbandonati eppure perfettamente curati. Stiamo seguendo l’antica via che collegava le terre conquistate dagli Incas e che dal lato opposto raggiungeva il Titicaca e Macchu Picchu in un tentativo di integrazione regionale simile a quello tracciato dalle consolari romane. Ed è anche niente meno che il tratto boliviano della Panamericana, quella che Alberto Granado ed Ernesto Guevara percorsero in sella alla Poderosa più di mezzo secolo fa (in un’altra mia vita me ne parlò all’Avana il vecchio medico argentino, in casa dei figli del Che, anni prima che i Diari della motocicletta appassionassero il pubblico di mezzo mondo).
Colline rotonde, dolci come pani appena ammassati o seni di un’adolescente, incorniciano da lontano la pianura. Una peluria vegetale le riveste come velluto liso e socchiudendo gli occhi il finestrino della Toyota è quello del diretto Roma-Napoli, le alture commentano la piana di Fondi e io sto tornando finalmente a casa.
Attraversiamo Patacamaya, un grosso borgo che vive attorno alla Panamericana, due file di case a destra e a sinistra, pochi vicoli sterrati che si perdono in perpendicolare, morendo nella brughiera. Un garage, poco più che una baracca con la facciata in cemento, esibisce un dipinto a tempera dove una ragazza bionda, gambe lunghe e succinto bikini, passa una spugna insaponata sul cofano di una Buick o Chrysler azzurra. Il tutto con un che di fatto in casa che smonta ogni tentativo di ready made californiano o simil-Las Vegas. Una catapecchia senza finestre, con un’unica porticina verniciata alla meno peggio, inalbera una scritta in alto: Restaurant Copacabana. A El Tolar, un villaggio più piccolo, la corte di casupole impolverate dall’argilla è sovrastata da un hotel di lusso, con tanto di vetri a specchio. Il proprietario, mi raccontano, è un grande collezionista di monete antiche.
In lontananza, sulla destra, è apparsa una piramide bianca, una specie di Cervino, la bazzecola di duemila metri più su. È il Nevado de Sajama, un vulcano spento a seimilacinquecentoquarantadue metri sul livello del mare.
Alle porte di Oruro ci attende la scorta motorizzata del prefetto, che ci ha invitati al carnevale. Io e l’ambasciatore tedesco siamo troppo puntuali e ci tocca stare fermi quasi mezz’ora in attesa che ci raggiunga il collega americano e si formi il previsto convoglio. Eccolo, Philip Goldberg, in una delle tre mostruose camionette a trazione integrale dell’ambasciata degli Stati Uniti, che ci sovrastano e sorpassano mettendosi alla testa del corteo.
Il palazzo della prefettura è una sequela di saloni coloniali, e ciascuno delle decine di balconi è un palco che si affaccia sul corso del carnevale – su un segmento della sfilata che si snoda per cinque chilometri lungo le strade del capoluogo. Un giorno il semidio Huari – eternizzato oggi da una marca di birra – inviò quattro piaghe dai quattro punti cardinali per distruggere il popolo degli Uru: una vipera, un rospo, una lucertola giganti e un esercito di ciclopiche formiche. Una creatura dolce e bellissima venne in soccorso della gente dell’altopiano e trasformò il batrace e i rettili in massicci rocciosi e gli insetti in arida pianura sabbiosa. Non so quando e come l’angelica fata sia diventata la Vergine del Socavón, ma è a lei che da anni si dedica uno dei carnevali più grandiosi del mondo.
Ruotano, ruotano le gonne lunghe delle cholitas, incastro di sete verdi, rosse, gialle, rosa e azzurre attraversate da fili d’oro e merletti, mantiglie d’alpaca, borsalini in equilibrio sull’impalcatura delle acconciature, mentre le centinaia di donne girano a un ritmo incalzante, mirabilmente coordinate, le braccia piegate ad angolo retto, le teste reclinate sul collo, gli sguardi che ci cercano in tribuna o che forse cercano altri che non possiamo essere noi. E ruotano ruotano ruotano personaggi pazzeschi, nani titanici, uomini sepolti sotto quaranta chili di costumi impossibili, maniacali nella loro irragionevole perfezione di dettagli: caschi da minatore trasformati in elmi dorati, maschere barbute con la pipa in bocca, nasi lunghi, alamari rialzati e fittamente popolati da ogni sorta di nastri e cordoni, vestiti fatti a balze sovrapposte che possono essere i piani di una torta, le sezioni di una campana, i tronchi e gli addomi di abnormi insetti, le gigantesche nappe di un tendaggio. Non c’è un centimetro del tessuto che sia lasciato al caso, elitre, ali, proboscidi, corna, arti, fronde nascono ovunque vi sia uno spazio libero e si moltiplicano per decine di migliaia di comparse in un paese che non arriva a nove milioni di abitanti.
Questa è la morenada, un ballo che esprime il sarcasmo violento degli schiavi africani contro la stupidità dei padroni delle miniere, dov’erano stati mandati a lavorare e a morire, come se non fossero bastate le piantagioni di canna da zucchero. Crollano i testoni, gli omini incapsulati nei carapaci di chitina gialloazzurra, come a dire: eccoci, siamo qui, sì-sì, siamo sopravvissuti, oplà, un giro, quasi perdendo l’equilibrio, un altro giro, sì-sì, sì-sì.
La diablada è invece la coreografia più sofisticata. In fondo è pur sempre carnevale e non è il caso di fare troppo gli schizzinosi di fronte allo schema semplicistico della lotta tra le forze del bene e quelle del male, perché comunque la mettiate è questo che racconta: legioni di diavoli con alla testa un Arcangelo Gabriele, scudo da crociato, spada e armatura da pupo siciliano, viso da geisha incipriato e con il rossetto, ali da Tyra Banks nella sfilata di Victoria’s Secrets. I demoni sono un ganglio inestricabile di corna tortili, orecchie sfrangiate, occhi enormi da mosca o aragosta, musi espansi con froge dilatate di Guernica, dentature di drago cinese o giaguaro azteca, code, squame, lustrini , collane con medaglioni tintinnanti, colori urlanti, fiammate verdi oro e rosse, fumo di porpora, salti da acrobata circense. Li accompagnano strani mostri, gremlin lievitati o orsi bianchi con le orecchie di Lilo e Stitch, occhi di bragia, andatura caracollante da plantigrado addomesticato. Oppure un condor, becco rilucente di stagno o acciaio temperato, piumaggio e ali autentici, aperte queste ultime come una tragica crocifissione portata in processione. Passa l’orchestra, tamburi e soprattutto ottoni, trombe, tromboni, bassotube verniciati di bianco, suonati da musicisti che sembrano usciti da un Cotton Club degli anni Trenta, completi in lino o cotone chiaro, camicie arancione inamidate, borsalini dalla tesa impeccabile, scarpe bicolori con tanto di ghette. Deliziose diavolesse volteggiano sulle lunghe gambe abbronzate, raddoppiate dagli stivali alti al ginocchio, da majorette.
Ogni gruppo alterna a corpose fasi narrative brevi cornici fatte di silfidi slanciate, spesso originarie dei dipartimenti tropicali, che con le loro gonnelline vorticanti strappano alla folla esclamazioni di approvazione. Ne fanno un uso più generoso los caporales, formazioni che puntano poco sulla trama o sul motivo ispirativi per affidarsi invece quasi esclusivamente alla coreografia e al virtuosismo del ballo: non solo femminile, perché analogo entusiasmo suscitano le interminabili schiere di danzatori in costume a metà tra l’uniforme militare e quella da banderillero, con file di sonagli al polpaccio, lazos, bastoni e altri ammennicoli che accompagnano e sottolineano le loro evoluzioni. Saltano, i caporali, le gambe tese e divaricate, e atterrano all’unisono facendo perno sul ginocchio, un applauso e di nuovo in piedi, in posa plastica.
Ma non ci sono mica una sola morenada, una diablada e un caporales: ogni categoria si ripete in decine di gruppi, ciascuno dei quali avrà mille o duemila componenti, ciascuno rispettando alcune regole grammaticali di base ma alterandole con inserti e variazioni originali. Ciascuna preceduta da carri allegorici costituiti da vecchie automobili americane ricoperte, affogate da chili di cianfrusaglie, brocche, calici, piatti e posate d’argento e di stagno, drappi e tappeti, e sormontate da una o due statuette della Vergine del Socavón. Oppure è una delegazione in costumi eleganti che incede in testa, innalzando un gonfalone e portando a braccia la piccola Madonna.
Altri balli si alternano, solo con minor frequenza. Las llameradas, danze karwaní dei pastori kolla, i quali indossano costumi che mi ricordano vagamente la Sardegna. Bimbi e donne ruotano come dervisci, impugnando saldamente lama di peluche. In mezzo a uno dei gruppi, a sorpresa, spuntano due camelidi veri, nero il più grande, bianco il più piccolo, lenti e maestosi, il collo eretto, sotto il peso di una lanugine folta e arricciata.
O i tinku, mimica di una lotta cruenta tra comunità dell’altopiano. Il ratto della bella, la vendetta che travalica ogni proporzione rovesciandosi a mo’ di invasione, i romani e le sabine, Elena di Troia, le amazzoni offese, una storia quante volte ripetuta. Le piante dei piedi percuotono l’asfalto, i palmi delle mani sbattono, il pugno teso è lanciato contro il cielo lieve di questo che è uno dei tetti del mondo. Le bande si fronteggiano, retrocedono, sbandano tutte su un solo lato, a ridosso delle transenne, mantengono un equilibrio mirabile, si voltano e sono di nuovo pronte all’attacco, ma l’esplosione violenta resta sospesa e non arriva, in questo mattino di carnevale. Sventolano invece le wiphala, le bandiere arcobaleno aymara, sintesi pacifica delle trentasei nazioni indiane, l’iride ripetuto sui poncho di nuove comparse che si rovesciano a valanghe sul corso.
Sugli spalti, in basso, si sta svolgendo una muta battaglia tra gang di spettatori. Turisti americani con i cappellini gialli sono bersagliati da perfetti lanci di palloncini ripieni d’acqua. Lo stupore misto a indignazione – non eravamo noi i migliori pitcher, i maestri del baseball? – impiega poco a evaporare, e già i turisti si sono organizzati e reagiscono a colpi di bombolette di spuma, prima di convertirsi anche loro alle bombe idriche. La polizia guarda preoccupata, cercando di contenete l’esuberanza della folla.
Sono passate tre ore e non siamo nemmeno a un terzo della sfilata. Evo Morales entra nel salone della prefettura, il tempo di salutarci, strette di mano, pacche sull’omero alla maniera andina, scattano i flash, il buffet è servito, poi il presidente scende tra le ovazioni e si accomoda in un palco al livello della strada, dal quale viene rapito in men che non si dica da un’intraprendente deliziosa diavolessa.
Adesso il corso si è trasformato in un rettangolo di Amazzonia, invaso da diademi di piume di ñandú e di multicolori uccelli della foresta. Gonnellini, lance, scudi, un toreare torrido che sfida i cinque gradi centigradi dell’altopiano oruregno. Qui, capisco, non sono gli uomini a travestirsi, sono i luoghi, proiettati per incanto nelle dimensioni del remoto, dove le maracuja crescono dall’argilla e i tucani schiamazzano attorno ai condor. La moltitudine si apre a metà di una serie di quadri affascinanti per lasciar passare un’amazzone seminuda in groppa a un cavallo bianco, mentre alle sue spalle, alto come un orco, uno stregone incede circondato da una panoplia d’insegne e artifizi. Altri uomini-uccello, questa volta con le ali intere dei fenicotteri, reliquie un po’ macabre con il loro rosa vagamente ravvivato a colpi di pennello.
La nostra immunità sembra terminata, i primi proiettili entrano nel salone. Qualcuno, da basso, deve essersi chiesto perché quei signori affacciati ai balconi siano gli ultimi ad essere rimasti belli asciutti, o forse è Beatriz che ha scatenato la reazione. L’ho colta con la coda dell’occhio mentre lanciava lunghissimi spruzzi di schiuma sulla testa di alcune comparse. E non è la sola: il mio autista e il carabiniere dell’ambasciata sono già passati ai palloncini. Decisamente il palco italiano è il più vivace. Intanto la giovane inviata di Canale 7 si avvicina al presidente e al vice presidente per intervistarli. Morales e García Linera fanno finta di niente, sornioni, e poi le scaricano addosso due bombolette intere di schiuma. La malcapitata ragazza è una statua di panna, spietatamente inquadrata dalla sua stessa televisione. Analoga sorte tocca all’ambasciatrice del Costa Rica. All’improvviso due giovanotti eludono il servizio d’ordine e spruzzano di bianco Morales. Qualche istante di tensione, si vede lontano un miglio che i guardaspalle non sono molto contenti, ma il presidente li fa da parte e va a stringere la mano ai due buontemponi, complimentandosi per il loro coraggio. Io mi distraggo un attimo, ammirando altre danze, la Inca e la Callawalla, e quando guardo di nuovo verso il palco d’onore Morales e García Linera sono ormai nel bel mezzo di una battaglia senza esclusioni di colpi, sommersi da montagne di spuma.
La notte la Panamericana sembra perdersi nel temporale che incombe. Non c’è nessuna La Paz, all’altro capo del nastro, potremmo percorrerlo all’infinito, probabilmente a ritroso. Sorpassiamo una figura avvolta in un mantello nero, o è lei che ci supera a marcia indietro. Guardo la mascherina sui suoi occhi e mi riconosco nel piccolo Zorro di trentacinque anni fa, che sorride timidamente puntando la spada di gomma e forse ha appena scoperto su una pagina dell’atlante una macchia a forma di cuore rovesciato, nel mezzo del continente americano.
Diablada di Oruro….
ci andrei solo per questo,
per poi nuotare
nel lago di Uru Uru….
chapuce, fà la brava, vai a farti un bagno nella vasca di casa tua e restaci.
per tè c’è il terzo girone….
;-)
e non è abbastanza, credimi!
Grazie per il bel viaggio che sto seguendo