Tutta colpa di feis buk
Pubblico con grande piacere questo resoconto di due insegnanti delle scuole superiori di Napoli su un’iniziativa nata spontaneamente e senza sponsor per invitare le ragazze e i ragazzi alla lettura, rendendoli parte attiva e non solo fruitori obbligati. Con l’augurio che l’idea possa continuare e crescere in tutto il paese. FM.
di Diana Romagnoli e Maria Laura Vanorio
“Professorè, tutta colpa di feis buk”, con queste parole esordisce una mamma al colloquio genitori-docenti per giustificare l’insufficienza della figlia nella prova scritta di italiano. Mai nessuno ci aveva sintetizzato con tanta efficacia le critiche ai social network, colpevoli agli occhi di genitori e insegnanti, di distrarre i giovani dalla lettura e dalla scrittura, critiche tanto lapalissiane quanto diffuse, se in un recentissimo e augusto consesso di linguisti (De Mauro, Eco, Serianni) lo stesso Eco ha riportato la leggenda metropolitana dello studente che trasforma il povero Nino Bixio in Nino Biperio (D. Pappalardo, La Repubblica, 22/2/2011); e allora tutti contro la lingua contratta e frammentata dei messaggini della texting generation. Il problema naturalmente è quanto mai complesso e per non relegarci al ruolo stucchevole di collezioniste di frasi da bestiario, abbiamo deciso di rifugiarci proprio in un concorso di scrittura. È nata così l’idea di un progetto, La pagina che non c’era, che impegnasse gli allievi nella scrittura à contrainte, ideato da tre insegnanti dell’Istituto Statale Superiore “Pitagora” di Pozzuoli (Na), Raffaella Bosso, Diana Romagnoli e Maria Laura Vanorio con la collaborazione di Giuseppe Girimonti Greco e finanziato grazie alla generosità di un Consiglio d’Istituto che l’ha votato insieme a tanti altri progetti educativi.
Per superare la naturale diffidenza dei ragazzi nei confronti dell’ “atto della lettura”, abbiamo pensato di raccoglierli intorno ai libri ricorrendo a un gioco letterario, che consiste nel calarsi mimeticamente e fisicamente fra le pagine di un autore: nell’imparare a riconoscere in modo empirico la traccia delle diverse scritture, nell’imitarle per poi aggiungere la propria pagina, quella che non c’era, in un punto qualsiasi del libro. Per questa prima edizione del premio abbiamo scelto Lo spazio bianco di Valeria Parella, Ed. Einaudi, 2008, Zoo col semaforo di Paolo Piccirillo, Ed. Nutrimenti, 2010 e Bambini bonsai di Paolo Zanotti, Ed. Ponte alle Grazie, 2010, e con ciascuno di questi scrittori è stato organizzato un incontro. I docenti e gli alunni hanno aderito con entusiasmo e i contatti con le diverse scuole si sono moltiplicati in poche settimane con un risultato tanto inaspettato quanto gradito, che in questi tempi bui consola non poco.
Ci siamo così trovate a programmare il nostro primo appuntamento il venti dicembre, per presentare l’idea ai colleghi e agli alunni che avevano risposto al nostro invito, ma alle quattro del pomeriggio l’Aula Magna era ancora vuota; squillavano i cellulari che annunciavano continue disdette da parte degli insegnanti: consigli di classe, riunioni straordinarie e altri motivi li distoglievano dal venire, perché nel frattempo le scuole di Napoli e provincia come quelle di tutt’Italia avevano seguito gli atenei nella lotta alla riforma Gelmini. Anche il liceo “Pitagora” usciva da due settimane di occupazione, un’occupazione decisa durante un’assemblea infuocata alla quale noi docenti avevamo partecipato, ma da cui eravamo stati banditi: i ragazzi volevano protestare da soli, radicalmente diffidenti verso ogni forma di manifestazione che legasse il loro disagio al nostro. A un certo punto però l’aula ha cominciato a riempirsi di allievi sorridenti che da scuole anche lontane hanno raggiunto, pur senza i loro insegnanti, la nostra.
A gennaio e a febbraio abbiamo incontrato Valeria Parrella e Paolo Piccirillo: alcuni studenti li hanno presentati ai compagni, dialogando direttamente con loro senza inutili distanze e gerarchie; tutti hanno avuto la possibilità di avvicinarsi agli autori, discesi dai piedistalli, parlando liberamente. Di questi appuntamenti hanno poi raccolto delle immagini che monteremo in un documentario.
L’ultimo incontro con Paolo Zanotti si terrà oggi 4 marzo presso il liceo Genovesi di Napoli alle 15.30: anche questa volta ci sposteremo in un nuovo liceo, infatti, abbiamo deciso di riunirci in scuole della città e della provincia sempre diverse, perché ci piace pensare che il progetto possa unire e collegare luoghi e istituzioni scolastiche anche lontane fra loro, delineando idealmente uno spazio geometrico nel quale espandersi e favorendo in tal modo il confronto tra gli allievi e una migliore relazione con i loro professori.
Infine, la parte propositiva e creativa dei ragazzi senza insegnanti: la stesura della pagina fantasma, che invieranno alla commissione composta dalle docenti organizzatrici e dai tre autori, i quali con un gioco nel gioco si imiteranno a vicenda. Verranno premiati tre lavori, uno per ciascuno scrittore, con un buono simbolico da spendere – ancora una volta – in libri.
Il prossimo anno l’utopia è quella di continuare, facendo diventare il nostro un concorso nazionale, alla ricerca dello sponsor che non c’era. Tante le suggestioni teoriche sulle quali stiamo meditando, sicuramente qualche critica nell’impostazione metodologica ce la siamo meritata, ma se, fuor di retorica, di vittoria si può parlare, questa è da ricercare nella risposta dei ragazzi, che hanno letto attentamente tre libri e per una volta senza scaricare le trame da internet. La scrittura è allora solo un’astuzia, e nemmeno tanto segreta, un gioco che si presenta come un fine, ma che, invece, per l’appunto, è un mezzo.
E se anche a noi scriventi è concesso di aggiungere “la pagina che non c’era”, ci viene voglia di inserirci tra le righe del bel libro di Luca Serianni, L’ora d’italiano, Ed. Laterza, 2010. Naturalmente il nostro obiettivo non è quello di formare scrittori, convinte come siamo con Beniamino Placido che in Italia ci sono sempre stati troppi scrittori e pochi lettori: abbiamo la pretesa di insegnare, attraverso questo lusus oulipiano, la grammatica della scrittura, della lettura e della fantasia (Rodari), dalla quale potrà germinare da sé il piacere di leggere che non può mai essere imposto.
Una pagina luminosa. E’ una bella prova dell’impegno degli insegnanti. La speranza, il sogno, l’esperienza.
Aprire uno spazio di libertà (la scrittura) , trovare piacere nella creazione, toccare la vita dei libri.
I libri sono vivi, sono fatti per chi sogna la vita, l’amore, il coraggio, il mondo.
Tutta la mia ammirazione per questo progetto e tutti i miei complimenti verso ragazzi che immagino nell’incendio della scrittura o nel miracolo di vedere sulla pagina la costruzione di un’avventura che diventa colletiva.
Tutta la mia ammirazione per gli insegnanti che amano il loro mestiere, lo fanno con impegno e passione.
Una bella risposta a chi attacca e disprezza la svuola pubblica.
la scuola
Braveeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Bravissimi, i miei più sinceri complimenti e spero di cuore che questa felice e preziosa esperienza possa trovare un modo per allargarsi e giungere anche a ragazzi del resto d’Italia. Davvero un ottimo segnale di questi tempi :)!
Tutto bello, ma tutto sbagliato. E tutto sbagliato perché frutto della disperazione. Lo dico con il massimo affetto possibile a queste colleghe. Tutto bello perché portato avanti con l’entusiasmo del proprio lavoro – colleghe da abbracciare, strette strette. Ma tutto sbagliato perché la lettura non è una cosa che si “trasmette”, a maggior ragione in questo modo, cioè esibendosi e invogliando a esibirsi, presentando gli autori e i loro libri come totem e feticci, mostrando la letteratura come un “gioco”. La scuola italiana, la parte più avanzata di essa, cioè questi colleghi che sono qui a presentare il loro progetto, dovrebbe cominciare a buttare via un po’ di armamentario classico, un po’ di usberghi e celate: Rodari, Pennac, i giochini e giochetti dei vari Eco & co. (Zamponi, etc.). I ragazzi sono molto più seri di quello che noi pensiamo, e andrebbero trattati da adulti, non da bambini. L’infantilizzazione della società, capisco, ci fa adagiare su una tradizione che, come tutte le tradizioni, va rinnovata, altrimenti buonanotte. È ora dunque di ravvedersi, di smetterla di ragionare in termini di “promozione della lettura”. Sono vent’anni che insegno e che sento e frequento iniziative del genere, eppure in Campania, ad esempio, precipitiamo ogni anno, vertiginosamente, verso abissi di analfabetismo di ritorno macroscopici. Certe volte vorrei incontrare tanti miei colleghi che si sono spesi in questo e in quell’altro “progetto di lettura”, a volte anche megagalattico, e dire loro: dove avete nascosto il vostro fallimento? Io lo so dove ho nascosto il mio. Del resto, negli ultimi vent’anni ero anch’io lì, sul campo, ma io lo so dove ho nascosto il mio fallimento. In un radicale cambio di prospettiva, buttando a mare tante vecchie armature. Nella convinzione ormai assodata che risultati in questo campo non se ne raggiungono con interventi tecnologici, spettcolarizzanti o scientifici, alla Eco o alla questo e quell’altro (i soliti noti). C’è un solo modo per far capire ai ragazzi l’importanza della lettura: mettere in gioco, all’interno della classe (unità scolastica minima e riservata, familiare ed essenziale, ma pregiudizialmente sottovalutata), i propri affetti e le proprie passioni, cercando un poco alla volta di far venire a galla affetti e passioni degli altri, cioè dei ragazzi. In un gioco molto alla pari, che non si sa mai come va a finire, e in cui non ci sono “giochini” da fare, ma solo esperienza di vita da far valere, facendo venir fuori che la letteratura (per me, ripeto, sinonimo di lettura) non è un affare da deficienti più o meno abili, ma qualcosa di vivo e di vero che deve portarti via, farti sbandare, travolgere. Risultati garantiti non ce ne sono. Bisogna mettersi lì e aspettare, e lavorare. E poi, magari, continuare a discutere e a confrontarsi.
Un commento al volo; mi riservo di rispondere in modo più articolato domani, nella speranza di poter continuare a dialogare con i frequentatori di NI, sempre attenti e reattivi.
A E. De Vivo: ho letto con attenzione il suo post, e sto riflettendo. Forse c’è un malinteso: condividere la passione per la lettura con i ragazzi era ed è il nostro obiettivo primario. Dico “condividere”, questo è un punto importante, non imporre dall’alto i propri gusti e le proprie idiosincrasie di lettori più o meno forti e consumati. Oggi abbiamo avuto il terzo incontro, con Paolo Zanotti; sono molto stanco, mi scusi se non riesco a rispondere con lucidità e mi limito a poche battute frammentarie. Dicevo: oggi, nel corso dell’incontro con Zanotti, il tutto è stato condotto dagli studenti. Con un entusiasmo che mi ha sorpreso. Mi ha sorpreso anche un altro aspetto della relazione che si instaura naturaliter fra lettori molto giovani e giovani scrittori: l’interesse per gli aspetti tecnici, squisitamente tecnici della scrittura (stile, costruzione narrativa, etc.). Un interesse che si associa a una (ovvia, e talora benefica) allergia nei confronti dei vezzi di chi parla in ‘critichese’ a scuola. Siamo agli inizi: questi sono i primi passi. Si tratta di un’esperienza in fieri. Le critiche sono gradite. Ma ci tenevo a dissipare un equivoco. I ragazzi sono liberi; e sembrano molto interessati ad applicare la contrainte (mimetismo stilistico & innesto nel corpo dell’organismo narrativo) anche ai classici e/o ai libri che già conoscono (e che spesso scoprono da soli).
Un’ultima battuta: i giochi non sono forse una cosa serissima? con molta cordialità, ggg
Ciao Enrico.
Sono uno dei tre autori invitati.
Il tuo post è davvero interessante e non sai quanto ti condivido. Da poco ho finito le scuole (ho frequentato elementari, medie e liceo in provincia di Caserta, zona considerata, dai più, disagiata e quindi, a maggior ragione, piena di “promozione letteraria”) e sì ho partecipato a “progetti di lettura” vari che come dici tu poi sono falliti e adesso nessuno lo ammette. Hai perfettamente ragione, la lettura non si può promuovere perché è un nostro moto interiore, abbiamo cause inconsce, e chissà quanto inconsce, che ci spingono a leggere, e non può essere certo un concorso scolastico a spronarci.
E infatti non è questo l’intento de “la pagina…”. Perché qui non si parla di un gioco letterario in cui gli scrittori (“i deficienti più abili”, bella tua questa definizione di scrittori) sono il totem e i ragazzi (gli aspiranti deficienti, a questo punto…) giocano all’imitazione più fantasiosa. Fosse stato così, credimi, dato che la penso esattamente come te sui giochetti letterari, a metà incontro mi sarei alzato, avrei stretto la mano a tutti e avrei preso il primo autobus per la stazione. Ma non è così. Magari poi te lo spiegheranno bene le prof.sse perché (come “dietro le quinte” hanno impostato il tutto coi ragazzi). Io ti dico solo che mi sono state fatte domande del tipo: “Quale è stata la ferita, il trauma che ti ha portato a scrivere?”, oppure “come si fa ad essere crudele coi propri personaggi e a non sentirsi male per questo?”. “Mi rendo conto che ogni volta che scrivo, scrivo sempre, più o meno, la stessa storia, la stessa ossessione. Perché?”. Queste sono solo alcune delle domande, altre mi sfuggono adesso. Tutte domande di questa profondità, che anche se ho poco esperienza, a memoria non ricordo mi siano mai state fatte durante le varie presentazioni in librerie o in caffé letterari, dove la letteratura è davvero considerata, a mio parere, troppo distante dalla vita.
Questo per dirti che no mi sembra proprio che i ragazzi abbiano preso tutto ciò come un gioco in cui non mettersi in discussione.
Io penso in conclusione che questo concorso non ha nulla a che fare con tutte le tue (assolutamente condivisibili) paure. Perché non impone (come dice Giuseppe) libri e letture; impone al massimo il dovere di abbattere certi muri interiori, imperativo categorico se vuoi scrivere. Ma anche se vuoi vivere in generale qualcosa che più si avvicini alla felicità, secondo me.
Mi sentivo di risponderti in quanto autore invitato che ha avuto un contatto diretto coi ragazzi, e anche perché il tuo post, ripeto, ha tutte le ragioni per essere letto.
Ciao,
Paolo.
ringrazio gli intervenuti, tutti, intanto. Perchè, secondo me, è di queste cose che bisogna parlare. Mi sembra anche che sia Giuseppe GG che Paolo Piccirillo, abbiano risposto nel merito alle osservazioni, interessanti e di cui condivido un certo spirito, di Enrico De Vivo. Aggiungo solo questo: oltre a trasmettere la passione per la lettura ai ragazzi, è necessario anche saper porre ascolto a quello che loro “sono”, farli entrare in un libro, dicendo la loro, scrivendo una pagina è un modo per iniziare un discorso. Un discorso educativo che, paradossalmente, si prefigga tra i suoi scopi la capacità finale degli educandi di mettere in discussione tutto ciò che hanno appreso. Starei attenta ai discrimini, specialmente su Rodari, che è un autore che uso da anni nelle letture per i ragazzi (conduco letture per 3-4 mesi l’anno in libreria), insieme a Salamov o alla Harper Lee. E’ il come si ragiona sulle cose, più che il giudizio di valore, ad essere fondamentale per salvarci il cervello e la ragionevolezza e, magari, soprattutto, salvarlo ai ragazzi.
Appena ho un momento aggiungo qualche nota di lettura su due libri sulla scuola che ho letto di recente: due récits/reportages;
@FM: vediamo se indovini quali sono…
Rispondo a Francesca: alle medie in Toscana (per quel che ho visto e sperimentato) si usa molto Queneau; forse è vero che quei giochi così virtuosisticamente oulipiani sono un rischio (rischio di avvitamento formalistico). Ma Rodari (a mio avviso) è ancora molto funzionale. A me piacerebbe andare a scovare anche altri autori poco frequentati e utilizzati (ma è una ricerca ancora tutta da fare).
Vorrei fare due tre precisazioni:
1 – torno a dire che i ragazzi sono molto interessati alla techne (forse sto scoprendo l’acqua calda). E’ per questo che deliberatamente non incoraggiamo lo ‘studio’ delle rassegne stampa sugli autori che proponiamo (per evitare l’effetto ‘recensione’ da giornalino scolastico, pratica peraltro non deprecabile, in definitiva; ma è autre chose, rispetto all’idea di Romagnoli/Vanorio/Bosso).
2 – è vero che la scelta di una terna o di una cinquina di autori da presentare ai ragazzi affinché siano loro a leggerli intervistarli commentarli dissezionarli è un compromesso. Ma la didattica si fonda su una serie di compromessi inevitabili, concatenati, spesso. L’idea è questa: cercare di proporre autori di qualità, sperando di ‘azzeccare’ testi narrativi che possano piacere davvero ai ragazzi, che possano intrigarli. E’ chiaro che nessuno ha la palla di vetro; e che nessuno è nella mente di ogni singolo studente. Ma non si tratta (credo) di indovinare i gusti e gli interessi dei ragazzi, di intercettare gusti e interessi (che sono disparati). Missione impossibile. Si tratta di proporre un esercizio, una provocazione: di proporre un campione di autori, e poi di stare a vedere se il modello (lettura creativa, tecnica) funziona e attecchisce. Se poi funziona e attecchisce si può anche immaginare e sperare che il singolo studente lo voglia applicare anche a testi (anche classici, ça va sans dire) che può scegliersi da solo in biblioteca e in libreria.
– 3: la questione del mettersi sullo stesso piano cognitivo degli studenti: forse questo è un errore metodologico, o una postura in definitiva sbagliata, o meglio: ambigua. L’insegnante NON può (in realtà) parlare di letteratura coi suoi studenti ‘a partire da’ una posizione definibile come ‘alla pari’. Per il semplice motivo che ‘sta’ altrove. Secondo me non può (e non deve) mettersi dall’altra parte della cattedra. Serve una ‘giusta distanza’. Ma questo è un punto delicato e controverso (mi riservo di approfondire, di tornare sulla questione ancora, in seguito, magari dialogando con interlocutori [qui su NI] e con colleghi che non sono d’accordo con me). Un’ultima battuta: quando i pedagogisti dicono che il docente ‘moderno’ deve impossessarsi dei mezzi che i ragazzi preferiscono dicono bene (in linea di massima). Come si fa a prescindere dal fatto che i ragazzi vivono in uno spazio pieno di immagini, di contenuti virtuali, di informazioni di facile reperibilità (e che ‘viaggiano’ rapidissimamente)? La rete condiziona le modalità di apprendimento e anche il professore più allergico alle nuove tecnologie deve trovare il coraggio di familiarizzarsi con le suddette. Ma… ma… non mi entusiasma l’idea dell’invasione di campo: forse gli studenti non sono contentissimi di ritrovarsi con le lezioni registrate trasferibili via postcad; e neppure di dover travasare i ‘compiti a casa’ sul ‘blog della classe’ (nuova versione del giornalino). Gli spazi degli studenti appartengono agli studenti. Anche qui il discrimine è sottile e delicato: è per questo che La pagina che non c’era è stata ‘condivisa’ in rete con gli studenti. Ma l’operazione è stata fatta timidamente (all’inizio); e le ideatrici cercano di portare avanti il tutto (aggiornamenti, comunicazioni di servizio, documenti, brandelli di discussioni collettive etc.) senza essere invasive (mi pare). Ma io sono solo un consigliere; non voglio parlare a nome loro.
Scusate la prolissità,
vs ggg
@FM: ho scritto un lungo commento ed è scomparso. Accade?
@FM: scusami, falso allarme: è comparso dopo (mi ha tenuto sulle spine per un po’, NI).
Chiedo scusa se ho postato il commento venerdì e sono sparito. Sono stato fuori, sto rientrando adesso. Intervengo domani con calma, mi sembra che ci siano cose interessanti che possono venir fuori. Comunque, mentre ero a Bologna, girando per la Feltrinelli, mi è capitato tra le mani l’ultimo libro di Mastrocola, che non ricordo come si intitola, comunque un saggio (diciamo così) sulla scuola. Tra i capitoli, uno che riporta due definizioni: “rodarismo” e “donmilanismo”, che forse hanno a che fare qualcosa con quello che avevo in mente venerdì sera. A domani.
Segnalo altri titoli per un’ideale bibliografia (reportages, autofictions, etc.); anzi: si tratta ormai di un vero e proprio filone: libri sulla scuola come esperienza quotidianamente vissuta (il tono è spesso fra l’amaro e il combattivo-appassionato-eroico); libri scritti da insegnanti (reportages che virano, in modo spesso molto efficace, verso il non fictional novel [spero si dica così]). Me ne vengono in mente due, al volo, a caldo: uno recentissimo: quello di S. Dai Pra’ (Laterza, contromano); e Nessuna scuola mi consola, di Chiara Valerio (nottetempo). Nessuna scuola mi consola l’ho letto (e aimé) diverso tempo fa. E’ molto apprezzato da tutte le mie colleghe che lo hanno letto. Quello di S. Dai Pra’ [Quelli che però è lo stesso] l’ho cominciato ieri notte e mi sembra molto interessante. Sarebbe interessante chiedersi come mai, sempre di più, in questi tempi di crisi nerissima e di decadenza della scuola pubblica, la questione produca soprattutto narrazioni…
ps: @E De V. : forse ieri eravamo nella stessa Feltrinelli ! :)
Penso di capire, leggendo il nuovo commento di E. De V. a cosa allude con “rodarismo” e “donmilanismo”, ma sono molto incuriosita dal libro della Mastrocola, che mi procuro. Quello di Chiara Valerio, letto e apprezzato molto, quello di Dai Pra’, manca.
Sul donmilanismo – non so se è questa la direzione, ma la famosa Lettera a una professoressa è un testo che mi ha lasciato varie perplessità, proprio pensando alla sua attuazione nel contemporaneo, lontano dal contesto che lo ha fatto nascere, perchè è il “merito”, largamente inteso, che rischia di venir trascurato. Poi ecco sul merito si dovrebbe aprire un altro discorso … oggi o domani mi procuro la Mastrocola, questo è certo.
«I ragazzi sono molto interessati» alla techno, non alla techne. Qui a Barcellona -dove sono comunque più civili che in Italia- arrivano a chiedermi la Special K o la Crystal Meth, neppure le canne, l’Ecstasy o la cocaina, e non faccio lo spacciatore. Figuriamoci in Italia –una volta davanti al Tunnel di Milano li ho visti pipparsi le linee direttamente sul cofano di un’auto, davanti a tutti, e non avevano più di 16 anni. Anche se poi quella bella candid camera delle Iene sugli Emo ha fatto vedere quanto fossero «bimbiminchia», come si dice nel loro slang, perfino nella trasgressione. Capelli stirati con la piastra e non un dettaglio fuori posto nel loro look alla Billy Kaulitz; per il resto, qualche rara canna e fiumi di sperma da sveltina ormonale e incontinente sui divanetti. Sarà per questo che poi le minorenni vanno con politici e giornalisti di mezzo secolo più vecchi di loro? La verità sta in mezzo, sono abbastanza scafati da stirare le raglie sul tettuccio di una Smart, ma troppo fifoni per guardarsi dentro o «perdere se stessi» come insegnava Nietzsche. Tra Internet, telefonini, digitale terrestre, Facebook, Twitter, le generazioni nate dopo il 1982 sono già perdute, e non secondo le pagine di Hemingway, ma rispetto a quella insopportabile velocizzazione dell’esistente che Jünger aveva messo sul tavolo già nel 1930 con l’Operaio (erano due grandi entrambi). Oh notte, direbbe Gottfried Benn.
Non sarò breve, e me ne scuso. Ma solo perché è un tema, questo, che mi appassiona molto, con tante sfaccettature che non è facile ricomporre. Metto qui di seguito delle tracce sparse.
I.
Comincio con il far notare a GRECO che se giochi, devi giocare alla pari, con le stesse regole, altrimenti non si tratta più di un gioco, ma di una manipolazione, di una “attività didattica” o cose del genere, cioè di qualcosa in cui tu sei separato, in una postazione al di sopra (di potere), a una distanza più o meno marcata e virtuosa (= moralistica). Io non dico che non bisogna “giocare”, ma che bisogna “giocare fino in fondo”, in questo senso “alla pari”. E il punto è proprio qui. La letteratura può essere giocata alla pari in una classe scolastica, smontandone l’implicita e obbligatoria struttura gerarchica? È possibile? Ovviamente, ripeto, se la vedi come “strumento” (per raggiungere un fine) o come “attività didattica”, no. Se la vedi invece come qualcosa che ha profondamente a che fare con la vita, come il mangiare, il dormire, etc., certo che sì! Quando leggevo a mio figlio piccolo dei racconti, delle storielle, dei pezzi di poemi, giocavo con lui alla pari: io leggevo, lui ascoltava, due facce della stessa medaglia. Idem quando leggo a degli amici, quando leggo ai miei studenti dei pezzi di roba varia. Leggo, cioè, cose che innanzitutto mi riguardano, che riguardano cioè la (mia) vita, come il dormire, il mangiare, etc., e con le quali cerco di ENTRARE IN CONTATTO (in amicizia, sarei tentato di dire) con loro. La letteratura è questo, altrimenti è un giochino o attività didattica.
II.
Ma per discutere di queste cose, bisognerebbe – mi rendo conto – cominciare a mettere in dubbio tutto, ma proprio tutto. Ad esempio, va bene qualsiasi libro per ENTRARE IN CONTATTO con i ragazzi? Non credo, anzi sicuramente no. E qual è la regola per stabilire che cosa va bene e che cosa no? La patente di “scrittore”, la fama, l’autorità? O (al contrario), l’essere uno “scrittore emergente” o “giovane” o “alla moda”? E che cos’è la letteratura? Intendiamo tutti la stessa cosa quando parliamo di letteratura? E se cominciassimo a dire (come ho cominciato io l’altro giorno) che Rodari, Pennac, Quenau, Eco, Lodi e compagnia cantante ci hanno stufato non tanto in quanto autori dei loro libri, ma perché ci hanno inculcato una idea di lettura e di letteratura STRUMENTALE? Perché io non sono contro Rodari (lo dico a Francesca Matteoni), Pennac, Eco, etc., ma sono contro il “rodarismo”, il “pennacchismo”, lo “ecoismo”, etc. – che hanno attecchito come dei virus sul corpo docente e l’hanno ormai devastato completamente, diventando STRUMENTI, sì, ma strumenti di distruzione di massa. Con il risultato che nessuno pensa più con la propria testa, nessuno porta più in classe un libro che gli è piaciuto senza aver paura di doversene vergognare (perché magari è un libro commerciale, non chic, non a la page), nessuno che dica: “ragazzi, sentite che bella questa cosa, mi ha emozionato, sentite se emoziona anche voi”. Questo vuol dire mettersi a giocare alla pari. RISCHIARE almeno qualcosa sulla propria pelle, e, mentre si fa vedere agli altri (ai ragazzi, ai propri figli, agli amici) quello che si rischia, sperare che qualcuno apprezzi la nostra ESPOSIZIONE, il nostro esser caduti in balia di un incantamento, e ci ami, ci accolga come un essere umano tra gli altri esseri umani, ci restituisca la sua amicizia nella forma di una condivisione di una passione. Ovverosia, cominci a sua volta a leggere, etc. Perché, lo dico sinceramente e con affetto a chi lo ha sostenuto anche qui, non si può credere ingenuamente che un giovane si avvicini VERAMENTE alla letteratura prendendo a interessarsi delle tecniche narrative… È semplicemente inverosimile. Bisogna buttare nel cestino tutti i libri di Eco e dei suoi epigoni ed emuli!
III.
Naturalmente, in un processo del genere di quello che suggerisco io, non c’è nulla di scontato o di verificabile con questionari a riposta multipla o con i test INVALSI o OCSE-PISA (altro capitolo dello stesso libro da riscrivere). Ma questo deve essere la letteratura, e solo così i ragazzi possono cominciare a interessarsi alla letteratura: cominciando, cioè, a interessarsi a QUANTO DI UMANO c’è nei libri e nell’esperienza reale (non inculcata) della lettura. Ma attenzione: quando parlo di “esposizione” parlo di qualcosa che è esattamente l’opposto della “esibizione” mediatica, del culto dell’autore, del libro-feticcio, etc. Dico “esposizione” nel senso in cui diceva Paul Celan, che la poesia non si impone, ma si espone. In questa pagina di NAZIONE INDIANA, leggo poco più sopra della performance di Francesca Genti, “Fiaba”, e la trovo istruttiva. Di che cosa si tratta? Di una bella metafora di quello che oggi sta diventando la letteratura nella nostra società: cioè qualcosa di impraticabile a livello collettivo, qualcosa che non ha più nulla a che vedere con la condivisione o la ritualità sociale (forse viva fino a qualche decennio fa), qualcosa, quindi, di vivibile solamente in una dimensione privata, isolata e separata dal mondo. Francesca Genti sente nostalgia e intuisce che cosa manca e si è perduto, ossia è il “contatto affettivo” con i lettori, che fa il tentativo disperato di catturare separatamente, uno per volta. Ma si tratta dell’ennesimo tentativo disperato, perché oltre a sottolineare la distanza abissale dello scrittore dal (suo) pubblico, replica la tendenza triste a rinchiudersi in una cabina trasparente – una “serra”! – che evoca la “falsa trasparenza” di questi schermi davanti ai quali siamo tutti inchiodati, e di questi “strumenti di comunicazione” così diffusi e in apparenza democratici, ma così immunizzanti.
IV.
A scuola, invece, si può fare di più… Come dicevo, nella classe scolastica il CONTATTO con la letteratura può rinascere, essendo la classe scolastica l’ideale come cellula familiare, accogliente, protettiva, perché l’affetto e le passioni non nascono nelle masse, che sono amorfe e senza pensiero – e non nascono negli “incontri con gli autori”, dei quali – sia che abbiamo a che fare con il più famoso o con il più ignoto degli scrittori – alla fine ci ritroviamo solamente una immagine tra i piedi: un santino, insomma, o un martire, uno che, appunto, ci mostra le sue ferite, come dice Piccirillo, e che non può – per la posizione in cui è stato messo, e nel contesto PUBBLICITARIO e SPETTACOLARIZZATO (cfr. Debord) in cui viene esibito – fare di meglio. Poi, certo, per fare quello che dico io, bisognerebbe avere a che fare con insegnanti che sprigionino passione da tutti i pori, mentre sappiamo che tanti colleghi non leggono un libro da qualche decennio… Ma questo è ancora un altro capitolo del libro che dobbiamo riscrivere tutti insieme.
V.
Per adesso, concludo dicendo che se la scuola può fare qualcosa per capovolgere questa tendenza triste a rinchiudersi in una cabina trasparente, deve avere il coraggio di mettere in discussione tutta se stessa, di buttare all’aria tante cose, di ridiscutere la funzione di chi insegna e di chi apprende. Ieri parlavo del libro della Mastrocola, che ho solo sfogliato e che non so se avrò voglia di leggere, perché la critica che vi si fa alla scuola (mi pare di capire) è una critica “neoilluminista”, da una posizione di “reazione”, non di apertura o di comprensione reale dei processi letterari, sociali, comunicativi, che stanno alla base di questa faccenda serissima. E poi perché è un libro facile facile, accattivante, un giochino (l’ennesimo!!!) – mentre qui ci vogliono lacrime e sangue… Comunque, mi dico anche, i reazionari non bisogna mai sottovalutarli (come è abituata a fare l’odierna sinistra senza idee), bisogna sempre studiarli con attenzione, perché spesso arrivano prima di noi a capire che cos’è che non va. E allora c’è la pars destruens del libro della Mastrocola che forse andrebbe considerata, come ad esempio in certi riferimenti a studi recenti che riabilitano la lettura a scuola, fin dalla prima infanzia, di poeti della tradizione classica, scartando filastrocche e versi improvvisati, perché la tradizione (altra cosa sacrosanta) è un filo che non va smarrito.
CODE.
Leggo, mentre sto per postare, gli ultimi commenti di oggi. Se non ricordo male, qualche giorno fa Goffredo Fofi stroncava la Mastrocola ed esaltava la Dai Prà. Ricordarsene a proposito della “odierna sinistra senza idee” e dell’acume dei “reazionari” di cui sopra.
ZACH mi pare proponga un altro banale refrain: “i giovani sono perduti…”. Perduti, io dico, siamo noi, e già da un pezzo.
Un’altra cosa saggia sarebbe tenersi lontani dai libri di cassetta “sulla” scuola. Preferire i libri “per” la scuola.
Ma Girimonti, eri a SAPZZAVENTO? Perché anche lì, l’argomento alla fine era lo stesso di questo nostro qua (ma cercherò di parlarne in un’altra occasione).
@E de V: oggi mi limito a una sola battuta (il suo intervento è lungo e replicare non sarà facile; ma lo farò sinteticamente): nei miei commenti ho cercato di dire (in modo forse poco efficace, poco perspicuo) che, su certi punti, forse siamo d’accordo. Che stiamo dicendo le stesse cose. Mi concentrerei pertanto sulle divergenze: perché la tecnica e la passione non possono intrecciarsi? L’emozione della lettura e l’interesse per gli aspetti tecnini sono forse incompatibili? Io sono un precario della scuole e mi sento di poter dire che ‘sprizzo passione da tutti i pori’ – anche perché è una delle poche cose rimaste-mi. Sono traduttore, ma il mio sogno è stare NELLA scuola, con un minimo di continuità. Quando le mie colleghe mi hanno coinvolto in questo progetto ho accettato con entusiasmo (anche se hanno fatto tutto loro, e alla fine ho dato un aiuto marginale). E anche durante gli incontri ho vissuto momenti emozionanti. Non voglio scivolare nella retorica del commovente, del larmoyant. Ma le assicuro che ho visto e sentito alcuni studenti fare interventi tecnicissimi e AL TEMPO stesso accorati. Questi studenti non sono manipolati, imbeccati; abbiamo fatto del nostro meglio per evitare ogni forma di manipolazione e condizionamento. E’ chiaro, però, che delle dritte/piste/guide sono state date. Ma come si fa a pensare di poter FARE qualcosa con loro se non così? Lo chiedo senza intenzione polemica.
Vorrei fare qualche esempio, prendendolo dai miei appunti (non voglio continuare a parlare in astratto). Provo a dire sinteticamente: i ragazzi che ho incontrato due giorni fa mi sembravano in balìa di quella che lei chiama (mi corregga se sbaglio) emozione della lettura; e al tempo stesso continuavano a chiedere “perché succede questo?”, “perché gli adulti, in questo romanzo, hanno paura? Di cosa esattamente hanno paura”, “perché alcuni bambini sono così violenti? Perché proprio i bambini balinesi?”, “perché tutta questa violenza? E’ un effetto voluto?”, etc. Cito alla rinfusa. Dalla discussione su Paolo Zanotti, Bambini bonsai, Ponte alle Grazie. Quelle erano domande squisitamente tecniche! Ripeto: non mi sembra che i due aspetti siano incompatibili. Non colgo forse la dicotomia? O è una dicotomia impropria? Sono ingenuo io?
Lei ha esordito dicendo: tutto bello ma tutto sbagliato. Mi ha dato molto da pensare.
Sul libro della Mastrocola avrei molto da dire;
torno a dire che feticizzazione e totemizzazione degli autori sono esiti che si pongono agli antipodi di questa operazione.
Perdonate, vi prego, questo andamento frammentario. Cercherò di essere più rigoroso domani.
Una precisazione: nessuna predilezione per esordienti/under 40/giovani autori. E’ stato un caso. Non sono così ingenuo da credere che solo gli autori giovani abbiano qualcosa da dire ai ragazzi. E i classici polverosi, allora? :)
[a me personalmente sono molto cari; credo di poter parlare anche a nome delle mie colleghe, classiciste e non].
A presto ggg
@zach: ma siamo davvero tutti perduti ? Angoscia
Caro Giuseppe, è chiaro che c’è qualcosa su cui non ci intendiamo. Ma non è un problema: per capirsi anche solo un po’ ci vuole tempo. Per adesso ci stiamo annusando, e va bene così. Ad esempio, sulla questione della tecnica: io a 15 anni non ho cominciato a leggere per capire le “questioni tecniche” di un libro. Poi sono venute anche quelle, certo. Ma prima viene qualcos’altro, che manca, diffusamente, nella scuola e nella società, e di cui in fondo stiamo parlando qui. Questo qualcos’altro non è l’EMOZIONE (o almeno non nel senso che tu vuoi trarre dalle mie parole): è bensì la capacità di ESPORRE la poesia e la letteratura all’ascolto, PER l’ascolto, mettendo in gioco noi stessi assolutamente, lontano dai riflettori e dalla scena mercificata, lontano dagli slogan, lontano dai test, lontano anche dalle buone intenzioni. Lontano dalla scuola, dovrei dire, lo so. E va bene, diciamo anche questo…
caro E De V,
sempre per punti (è un po’ brutto, ma èpratico):
1 – non sono sicuro che richiamare l’attenzione di uno studente sugli aspetti tecnici, strutturali, codificati, etc. di un testo letterario sia una cosa fredda, un’operazione asettica e algida, anaffettiva. La dicotomia su cui insisti (sono passato al tu…) non mi appartiene molto (ma forse un giorno cambierò idea, tutto può accadere). Questo accade anche con gi studenti più grandi (ho un poco di esperienza con quelli universitari e dei master). Neanche io da ragazzino leggevo per trovare le leggi interne di un testo, quelle che governano il suo funzionamento organico. Ma (ripeto) non vedo contraddizione fra l’esperienza della lettura come esperienza dettata dal caso, dal gusto, dall’intuito, dala tendenza a prendere in mano i libri guidati da una sorta di istinto sicuro e irrefrenabile (sacrosanto, peraltro) e (sul versante opposto[?]) la meditazione, la riflessione (individuale o collettiva) sul metalinguaggio (analisi del testo).
– 2: io credo di mettermi molto ‘in gioco’ quando insegno; e credo che lo stesso si possa dire di molte colleghe e colleghi. Per fortuna. Qui dovrei aprire una lunga digressione su quella che io chiamo ‘teoria della commozione necessaria’, complementare a quella (evocata supra) della ‘giusta distanza’.
– 3: la questione dell’emotività: è legata al coinvolgimento affettivo, alla dimensione affettiva che impregna la relazione fra insegnante e studente. Non credo di aver manipolato il tuo discorso, la declinazione che tu proponi di questa questione (essenziale). Forse ho inteso male, questo può essere;
4 – sull’essere e sul voler restare “lontano dai riflettori” si può discutere (ma lascio che siano le mie colleghe a farlo). Gli slogan: alcuni slogan possono essere efficaci; i test (intendi i giochi? La dimensione ludica?): torno a dire che anche queste ‘cose’ possono essere efficaci e tornare utili, se il fine è nobile (aggettivo troppo retorico? Vogliamo dire: onesto?). Si rischia (forse) di buttar via, con l’acqua sporca, anche il bambino… “Lontano dalle buone intenzioni”: è vero che di buone intenzioni è lastricato il pavé dell’inferno, ma certe volte i proverbi sono mendaci, o quanto meno drastici. Non sono sicuro di voler accettare anche questa evenienza: che le circostanze presenti possano finire col togliermi anche alcune delle mie ‘buone intenzioni’.
5 – “lontano dalla scuola”: questo è un punto fondamentale: e così il cerchio si chiude: si torna infatti alla provocazione della Mastrocola, che dice cose estreme che ricordano quasi le tesi (non proprio provocatorie) dei teorici della descolarizzazione d’antan.
6 – mi è venuta voglia di cercare altri libri da aggiungere alla lista Valerio/Dai Pra’/mastrocola. Forse ritirerò fuori Starnone, e cercherò un libro della Oggero (una raccolta di saggi, mi pare che fosse). Una miniera, ormai, questo ‘filone’.
Con simpatia, ggg
Intervengo solo ora, ho fatto fatica a leggere i lunghi commenti di Giuseppe e di Enrico, fatica perché sinceramente dopo l’ultimo incontro ero molto stanca, nel senso più fisico del termine. Preparare questo concorso con pochi soldi (ma questo è ovvio quando si parla di scuola) ha significato impegnarsi veramente tanto: scrivere mail, parlare con i colleghi, scrivere, parlare, raccontare appunto. E perché? Perché siamo stanche di ripeterci che tutto fa schifo e che è tutto da buttare. L’amore per la lettura non si insegna coi progetti, è ovvio, anche io sono molto lontana dalla retorica trionfalistica di chi pensa va tutto bene: sono stata brava. Se abbiamo cercato dei modelli (Eco, Rodari, Serianni…) è stato per avere degli spunti, per riflettere, per metterci in discussione e questa discussione mi fa bene. Mi fa scoprire interlocutori vivaci e attenti. Non ci sono ricette per la scuola (come per il paese forse?) che possono essere applicate come leggi inesorabili. Mi sono sempre piaciute le persone che vivono nel dubbio, ma questa è un’altra cosa.
Quando mi piace un libro ne parlo con i ragazzi, mi viene spontaneo. Esattamente con le modalità a cui faceva riferimento Enrico. Racconto film, libri, come mia madre, insegnante, ha fatto con me e con i miei fratelli quando eravamo piccoli. Al punto che non so più se alcuni libri li ho letti veramente io o me li ha raccontati lei. Credo nella parola e ho creduto nei nostri incontri. Non abbiamo preparato i ragazzi, abbiamo lasciato che si accostassero ai libri e agli autori con la loro naturale diffidenza (“sarà una palla”, “almeno la prof. poi domani non ci interroga”), ma poi li abbiamo visti venire anche agli incontri successivi, fare domande di tutti i tipi, fotografare, filmare, suonare per accompagnare gli autori. Il tutto in un clima di grande allegria che non poteva non contagiarci. Per me era importante, e lo è ora, capire se è stato veramente un modello virtuoso, se e come possiamo ancora lavorarci, accogliendo i dubbi degli altri, così come vengono senza gerarchie e pregiudizi. Ora sono loro a scrivere, applicano una regola, ma lo fanno per arrivare a un risultato che necessariamente deve partire da un’emozione, dalla scoperta di un altro da sé che li riporta inesorabilmente al sé.
Metto un punto, ma ci continuo a riflettere con o senza i bei libri sulla scuola che sono stati citati.
MLV
MLV ha un dono: la sintesi (e quindi l’efficacia). Una qualità che a me manca. Aggiungo solo una battuta (questa volta veramente rapida): certe volte anche con i classici può capitare che i ragazzi ci sorprendano. Sono risposte imprevedibili, questo è il bello (anche se l’Imprevedibilità come Legge Generale della relazione didattica può risultare spiazzante). Un classico consigliato caldamente (Petronio, un racconto di H. James, uno di Maupassant, Balzac, Fenoglio, il Catullo non espurgato, Boccaccio, Ariosto, un romanzo breve di Tozzi; oppure un classico sommerso [cito alla rinfusa, deliberatamente])… un classico consigliato con calore e trasporto può suscitare diffidenza, e poi, a sorpresa, riscuotere un inatteso successo. Ma accade anche che uno studente curioso non si procuri, che so io, Papa Goriot, ma un libro di Balzac che trova ‘accanto’ a Papà Goriot, sugli scaffali di una biblioteca. Sento continuamente, da colleghi, racconti che riflettono questo schema. Parola chiave: Imprevedibilità: anzi: Serendipità: i ragazzi fanno come facevamo noi (anche se tutto è cambiato); e aggiungo: fanno come noi continuiamo a fare. Scelgono a naso, fiutando qua e là. Riprendo uno spunto di De Vivo: se ne infischiano dell’autorevolezza di un classico: affiancano al Classico il primo libro che trovano, e questo è un bene. Non sono così condizionati, o almeno non tanto, non più di quanto comunemente si creda. Questo (ripeto) è spiazzante e ci costringe a rimetterci in discussione ogni santo giorno. De Vivo dice: rimettersi in gioco (parola controversa!). E’ proprio così, ed è un’ottima cosa, anche se l’esercizio è faticoso.
Aggiungo uno spunto, visto che ci sono: i ragazzi amano gli accostamenti peregrini, e spesso sono loro a farli. Qui gli esempi si potrebbero moltiplicare. Non sono sempre i professori a suggerire questi accostamenti peregrini (Petronio-Pasolini, Boccaccio-Moravia etc etc etc). Anzi: gli accostamenti che vengono in mente a loro sono MOLTO più inattesi di quelli che vengono in mente a noi, forse per il semplice fatto che non sono solo immersi nella rete, nel magma, nel rumore delle informazioni in eccesso; forse sono anche immersi in un mare di offerte e proposte editoriali che è DAVVERO ricco, più ricco di quello che i programmi riflettevano negli anni Ottanta/Novanta (e che forse riflettono ancora: parlo dei programmi pigri e non aggiornati di alcune scuole e di alcuni libri di testo).
Potrei tirar fuori il Calvino teorico della nozione di classico (uno strumento che non credo si possa liquidare come ferrovecchio). Ma forse è più utile riflettere su ciò che classico non è (o non ancora): anche qui raccolgo e rilancio uno spunto provocatorio di E De Vivo. E’ un’operazione difficile, ma che mi sembra stimolante… a dopo, ggg
Sono un’insegnante. Lo dico subito.
Parlo con cognizione di causa ed ho letto tutti i libri che avete citato, Mastracola e Dai Prà compresi.
Queste iniziative rispecchiano le necessità e le esigenze della scuola di oggi.
Sparare sulla croce rossa siam bravi tutti e i nostri ragazzi, per un miliardo di motivi, sono la nostra disperata sirena. I motivi sono tanti, giustificabili e non, certamente sono le intelligenze che abbiamo a disposizione, e siamo noi che dobbiamo attrezzarle. Paradossalmente io, da quarantenne, ho avuto mezzi culturali che loro non possiedono e non per colpa loro.
Rodari è ancora funzionale?
Rodari è ancora fondamentale!
Vedo che ami usare le maiuscole, è un modo per dare più forza alle proprie parole, un urlo. Ed allora ne riprendo alcune. Eccole.
-ENTRARE IN CONTATTO: è quello che non solo provo a fare ogni giorno in classe, ma che abbiamo provato ad estendere a più allievi possibile nel nostro progetto. Entrare in contatto, condividere l’esperienza, perché no emozionale, della lettura, magari con lo struggente accompagnamento di una chitarra elettrica pizzicata da un giovanissimo musicista che voleva farci un regalo. La parola che preferisco quando penso al mio lavoro di insegnante è “scambio”: condivisione, talvolta rischiosa, del mio mondo con quello dei miei allievi. E gli autori che hanno partecipato al nostro progetto sono entrati in contatto con i ragazzi (e con gli adulti presenti) ognuno a suo modo: la Parrella con la sua generosità e grinta, Piccirillo con la sua generosità e semplicità, Zanotti con la sua generosità e gentilezza. Ognuno di noi ha offerto quanto possiede e lo ha condiviso. Tutto qui.
-RISCHIARE/ESPOSIZIONE: di questo ho accennato sopra; in ogni caso comprendo molto chiaramente quello che intendi. Anche per me l’insegnamento consiste nel mettersi in gioco e nell’esporsi all’interno della classe; ma perché pensi che non sia possibile all’interno di un gruppo più ampio?
-VERAMENTE: noi intendiamo condividere (come vedi l’idea della condivisione torna sempre) il nostro amore per la lettura e vogliamo farlo insieme: siamo diventati un folto gruppo che si muove per lontani quartieri di una difficile città, progetta, propone, attende, si emoziona, gioca, si interroga. Hai idea di cosa voglia dire per dei ragazzi di aree disagiate uscire fuori dai luoghi consueti e conoscerne di nuovi? Non a caso gli incontri con gli scrittori si sono tenuti sempre in scuole diverse, proprio per mescolarci e per conoscere ragazzi e realtà sempre nuove.
-QUANTO DI UMANO C’È NEI LIBRI: di questo e dell’interesse che desta nei ragazzi ti ha già parlato GGG, quando ti scrive alcune delle domande che i ragazzi hanno posto con grande semplicità e naturalezza a Paolo Zanotti. Infine, una breve considerazione su quello che definisci “esibizione” mediatica, culto dell’autore, libro-feticcio. Niente di più lontano da noi e dallo spirito della nostra iniziativa che, invece, si propone di incontrare un autore in carne e ossa e dialogare con lui senza inutili distanze e sterili gerarchie. Lo scrittore non è un totem da riverire! L’idea è proprio all’opposto di quanto paventi tu.
Ti saluto e ringrazio
dr
il mio commento è per E de V
dal fuori. De Vivo penso abbia perfettamente ragione quando richiama la centralità “quotidiana” dell’esser maestro nel senso ampio del termine, perché è il lavoro costante e l’esempio che scava la roccia ma le iniziative come quelle qui presentate sono, o possono diventare occasioni di piccole, ma potenti, crescite. Mia figlia a 15 anni aveva una professoressa che per un’intero anno le ha portate, di propria singola iniziativa, a teatro la sera, spiegando ovviamente autore e opera qualche giorno prima, con ovvia scocciatura dell’intera classe..-)) però non dimenticherò mai la sera in cui lei tornando da teatro aveva gli occhi brillanti perché aveva visto “una cosa bellissima”.Scoprii che era il mitico Arlecchino di Strehler con il vecchio Soleri. Mia figlia va ancora a teatro..-));
@Viola: il tuo è un apologo, che illustra quell’idea di Imprevedibilità in ambito pedagogico e didattico su cui mi sono soffermato prima in modo (temo) troppo prolisso. Sono troppo Capitano mio capitano? Troppo ingenuamente Attimo fuggente-addicted? idealista ingenuo ecc? Le mie colleghe mi raccontano spesso esperienze che riflettono questo schema: tanti sforzi che sembrano inutili e (quel che è peggio) controproducenti, e poi – a sorpresa – il déclic, la passion qui se déclenche. E’ solo il caso che presiede a tutto ciò? [ma occorre sviluppare meglio questo spunto; io scrivo forse un po’ disordinatamente]
E ancora: mi piacerebbe entrare anche nel merito (come si suol dire) di alcune questioni tecniche; ma in tal caso dovrò/dovrei dismettere i panni dell’insegnante precario e indossare quelli (nel mio caso un po’ lisi) del comparatista, dell’ex-giovane studioso che si interessa(-va) di teoria della letteratura ecc.
Come si entra in un testo narrativo? Forse anche cercando di dimenticare le cose studiate da ragazzi (ora parlo dal p. di v. dell’adulto, non dello studente) e ricominciando tutto daccapo. Corpo a corpo con il testo narrativo. Fare come fanno i ragazzi. [continua]
Giusto per dire che apprezzo e stimo moltissimo, come ho detto fin dall’inizio, il lavoro di queste colleghe, e i loro interventi qui sopra mi convincono ancora di più. I miei dubbi sono i dubbi che abbiamo tutti, anche loro, ne sono sicuro – dubbi che ogni mattina cerchiamo di rielaborare per andare avanti. Poi, quello che dice VIOLA, a proposito dell’essere insegnanti con l’esempio, mi offre l’occasione per segnalare questo mio piccolo pezzo uscito nei giorni scorsi su alcuni siti e giornali. Secondo me, ha molto a che fare con questa discussione: http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/grubrica.asp?ID_blog=274&ID_articolo=521&ID_sezione=628&sezione=.
ma la roccia da scavare non sono certo i ragazzi, mi spiace d’esser stata poco chiara, colpa mia..-)); la roccia è l’insieme di “mariadefilippismo” che affolla il quotidiano, e non solo dei ragazzi, purtroppo
@Viola: sul defilippismo avrei molto da dire; anche io mi cimento oggi con l’apologo: una collega mi dice che i ragazzi non fanno altro che commentare le defilippate, non appena hanno un momento libero, fra un’ora e l’altra, per es. Un’attività ermebeutica che è diventata pratica quotidiana, automartismo. Attività simposiaca, pura e semplice. Spreco di energie da parte di ‘comunità interpretanti’ che invece, spesso, potrebbero fare grandi cose, con oggetti testuali diversi (anche i programmi della De Filippi sono testo, in senso culturale [cultural studies] e possono essere studiati; e non mi sorprenderebbe venire a sapere che qualche simpatico accademico ha dato una tesi sull’argomento). Quindi: o discorsi da bar sul calcio, o discussioni piene di passione su Amici, Uomini e donne, GF ecc. Sta a noi provare a sostituire a quegli oggetti altri oggetti? Questo è dirigismo? manipolazione? Me lo chiedo; non sono domande retoriche. In francese escamoter significa sostituire con abile colpo di mano (tipo gioco delle tre carte, come si fa a Napoli, soprattutto: con grande abilità e virtuosismo; ma si fa in tutte le città del sud: io ne so qualcosa perché il sud lo conosco bene). Escamoter, sostituire a quegli oggetti altri oggetti, cioè i classici e/o i non classici, i libri che possono intrigare i lettori/la comunità ermeneutica. In italiano l’escamotage è un’astuzia. E qui il cerchio si chiude. Insomma… un bel giorno capitò che una studentessa si fede beccare da una prof. a leggere un libro di nascosto durante una spiegazione… ma lascio che sia lei a raccontare (@Diana Romagnoli: tu ne sai qualcosa: conosci l’aneddoto, vero?). Ogni tanto capita (gli exempla sono numerosi: voglio dire: questi ragazzi curiosi e che scelgono autonomamente cosa leggere senza necessariamente farsi condizionare non sono mosche bianche).
@E De V: appena posso un commento al tuo pezzo;
altri spunti:
– la questione del canone e del ‘far violenza’ al canone, specie a quello ‘suggerito’ (imposto) dalle SSIS, dai libri di testo, dai manuali universitari di nuovo conio, :)
– il libro della Dai Pra’: lo sto finendo. Meriterebbe una discussione a parte, anche e soprattutto in quanto opera narrativa (autofiction?); e non solo per via del tema e delle cose ‘di cui parla’. Mi sono sentito punto sul vivo quando SdP parla della ‘giusta distanza’ e fa riferimento alle pie illusioni dei pedagogisti. SdP fa entrare in corto, fa collidere in modo spietato (vivaddio) questo concetto astratto con la materia di cui narra, il dogma rassicurante, il precetto della giusta distanza con il dato materiale, la realtà sconvolgente di una scuola problematica che ti impone di ‘rivederlo’, di ignorarlo, spesso, quel dogma. Di non applicarlo (perché l’esito sarebbe comico). E poi non si tratta sempre di scegliere. Talora di agisce d’istinto, e ci si comporta in classe in un certo modo perché “non si può fare altrimenti”.
Una precisazione: io non citavo il precetto sissino, quando alludevo alla necess. della ‘giusta distanza’: citavo il film, :) [questo lo dico per la Silvia dai Pra’ che ci legge].
A presto ggg
refusi: per uno che nasce come corrett. di bozze è il colmo:
ermebeutica
automartismo (allusione inconscia a Marta Flavi?)
fede (per “fece”).
Colgo l’occasione per segnalare la presentazione de “Quelli che però è lo stesso”, di Silvia Dai Pra’, a Napoli, il 16. Ho postato sul mio profilo FB le indicazioni precise; adesso, se il pc regge, lo posto qui, e anche sul profilo del Gruppo-La pagina che non c’era (sempre su FB – per il momento) [forse presto avremo un sito]
ggg
Solo un flash tra i molti possibili (che è anche una domanda seria): Paolo Zanotti è venuto anche da noi, dopo la lettura del suo libro, anche se con una modalità molto poco pubblicizzata e spettacolarizzata, nel microcosmo della classe. E’ venuto dopo mesi di lettura e riflessione sul suo libro, che abbiamo letto prima di sapere se sarebbe riuscito a venire. Prima gli abbiamo scritto, sul blog di classe, poi è arrivato in carne e piume, come scrittore e come caro amico della prof. Gli hanno dato del tu, abbiamo chiacchierato di molte cose, non solo BB, di “navi di sigilli e di scarpine, di cavoli di regi e di regine”, in classe, a porte chiusissime, tra noi. Alla fine molti di loro non gli hanno chiesto l’autografo “perché, professoressa, abbiamo passato una mattina a parlare, il resto che fa?”. Come si etichetta, tutto questo? Caso, didattica, amicizia, letteratura, incontro, grande boh?
@ ‘povna: una precisazione
questo secondo me è lo spirito giusto, quello descritto in modo efficace nel tuo post.
Caso: è un caso che Zanotti sia stato scelto per questo concorso di Napoli;
didattica: il ‘concorso’ vuole e tenta di essere una modalità didattica inattesa, anche bizzarra, spiazzante (ora come ora non mi vengono aggettivi più appropriati);
amicizia: sono nate amicizie grazie a questi incontri, in modo molto naturale;
letteratura: l’idea guida è quella di fare in modo che i ragazzi si ‘accorgano’ anche della letteratura degli autori viventi (non dico autori giovani, o ‘ggiovani’; non voglio cadere nella spirale solita: under 40, nuove generazioni, esordienti brillanti e interessanti in quanto anagraficamente più vicini agli studenti; forse questa sarebbe una falsa pista);
incontro: uno, due, tre incontri: altra parola chiave;
altre due precisazioni importanti: le differenze fra la presentazione di un libro di un autore come Paolo Z. ai ragazzi e l’articolazione di un gioco serio che prevede più fasi, tappe, gradi e livelli di difficoltà. Non so se questa seconda modalità sia indovinata. L’idea è venuta alle mie colleghe di Toiano (scuola della periferia di Napoli): volevano che il ‘pattern’ scrittore-che-incontra-una-classe avesse carattere di continuità. La continuità dovrebbe essere garantita dalle contraintes previste dal concorso, dall’idea degli incontri in sequenza ecc. E’ successa una cosa interessante: sono venute fuori delle analogie e delle macroscopiche differenze fra Piccirillo e Zanotti… scusatemi, non so esprimermi meglio di così stasera. Differenze emerse a partire da aspetti molto prossimi. Ma di questo parlerò in un altro post (sole se può interessare). Sono stati i ragazzi a fare questo esercizio di analisi comparata, in modo al tempo stesso tecnico e spontaneo, immediato. Ci hanno fatto vedere cose che non avevamo visto (noi prof).
Spezzo il post in due perché altrimenti perdo il filo…
sulla questione della pubblicità e della visibilità lascio che siano gli organizzatori a rispondere. Forse c’è un equivoco, però: quello che era interessante era fare in modo che, durante gli incontri con gli autori, potessero incontrarsi ragazzi di scuole molto molto dissimili. La cosa forse ha funzionato (a me sembra di sì, ma io sono solo un osservatore esterno). I ragazzi hanno fatto domande complementari e dialogiche.
Tornando sulla questione del ‘comparatismo spontaneo’, gli esempi si potrebbero moltiplicare. Su Piccirillo e Zanotti l’esercizio è particolarmente interessante; un solo accenno: il primo dice di aver voluto appropriarsi dello sguardo dell’animale sul paesaggio umano (da questo assunto prende le mosse il grosso della narrazione, in Zoo col semaforo); il secondo, come molti sanno, prende le mosse (anche) da una condizione di assenza/perdita di vita animale nel mondo del romanzo (e quindi nel mondo che il romanzo fonda): gli animali si sono estinti tutti; ai bambini non resta altro che guardare i programmi-natura. Gli animali non ci sono più, sono usciti dalla Realtà; cacciati dalla porta del tangibile rientrano attraverso la finestra dell’immaginazione e del linguaggio: un trionfo di similitudini zoomorfe e di altre figurae zoo-oriented, :)
Forse sono uscito O.T. (come dicono tutti su FB); ma spero di no (non tanto), ggg
ps: abbasso gli autografi, :)
Credo che l’iniziativa sia meritoria, perché – in primis- si è pensato all’aspetto prettamente didattico e maieutico. Lo scopo, mi si corregga nel caso, è quello del dialogo e di un insegnamento che sia educazione all’ascolto e alla relazione, soprattutto in una realtà, malgré nous, difficile se non estrema. In una società già intrisa, permeata e quasi geneticamente berlusconizzata verso un culto distorto dell’immagine, anche questa iniziativa mi sembra una non resa agli abomini di questi nostri giorni. Come insegnante mi pongo sempre il quesito di come far arrivare e comunicare la portata della poesia tout court (secondo la lezione che ne ha dato Elsa Morante) interagendo con gli studenti. Ecco credo che dare gli strumenti e discuterne sia l’essenziale. Spiegare Dante tramite Levi o proporre la giornata della Memoria attraverso Sachs, Celan, ad esempio, ma ancor più essenziale diventa poter avere l’autore, lo scambio che ne deriva e la riflessione creativa degli allievi, che una volta coinvolti si sentono parte integrante del processo educativo. Ringrazio di tutto cuore chi sta portando avanti questa iniziativa fondamentale.
@ABM: a questo proposito segnalo un libro, di cui si parla proprio qui, su NI, che casca a fagiolo: se ho ben inteso il quid, il punctum del saggio in questione è: insegnare tutto quel che si può/deve/vuole insegnare ATTRAVERSO gli strumenti messi a disposizione dalla letteratura, dal letterario. Detto meglio: insegnare diverse cose (le cose più disparate, e NON solo la letteratura e/o la storia letteraria) attraverso la letteratura (presa nella sua accezione di narratività ma non solo; la letteratura [classici e non, o i non-ancora-classici, o gli anti-classici] offre come risorse: agganci à l’Imaginaire, non solo pattern cognitivi utili al Sé narrativo di lontana ascendenza bruneriana ecc). Pierre Bayard ha scritto un bel libro intitolato “Peut-on appliquer la litt. à la psychanal.” ? Ecco; questo paradosso mi piace. Mi sembra che il libro recensito qui su NI scaturisca da questo stesso paradosso generatore di prospettive nuove… non ricordo né titolo né autore… :((