Il vescovo rosso e il comandante
di
Roberto Bugliani
“Nell’Ezln militano persone di differenti credo religiosi e non credenti, ma la statura umana di quest’uomo (e quella di coloro che, come lui, camminano a fianco degli oppressi, degli sfruttati, dei disprezzati) ci impone di prendere la parola. Anche se non sono stati pochi né superficiali i disaccordi, le differenze e le distanze, noi oggi vogliamo sottolineare un impegno e un percorso che non appartengono a un solo individuo, bensì a un’intera corrente all’interno della Chiesa cattolica. Don Samuel Ruiz García non si è distinto unicamente nel praticare un cattolicesimo tra e con i diseredati, ma con il suo gruppo ha anche formato un’intera generazione di cristiani impegnati nella pratica della religione cattolica. Non soltanto si è preoccupato della grave situazione di miseria e di emarginazione dei popoli originari del Chiapas, ma ha anche lavorato, insieme al suo eroico gruppo pastorale, per migliorare queste indegne condizioni di vita e di morte. Ciò che i governi hanno volutamente dimenticato allo scopo di coltivare la morte, è divenuto memoria di vita nella diocesi di San Cristóbal de Las Casas”.
Con queste parole inizia il comunicato con cui l’Esercito zapatista di liberazione nazionale, per mano del Tenente colonnello insorgente Moisés e del Subcomandante insorgente Marcos, ha voluto ricordare la morte, avvenuta a Città del Messico il 24 gennaio scorso, di don Samuel Ruiz.
Il Tatic Ruiz, ossia papà Ruiz, come lo chiamavano gli indigeni, oppure El Caminante, come è stata definita la sua figura di pastore itinerante, era vescovo della diocesi di San Cristóbal de Las Casas, nello stato messicano del Chiapas, quando scoppiò l’insurrezione zapatista, il 1° gennaio 1994, e in quella diocesi continuò a esercitare la sua opzione per, tra e con i poveri fino al suo “congedo” dal Chiapas, nel febbraio 2000.
Samuel Ruiz era arrivato in Chiapas, dove Giovanni XXIII lo aveva nominato vescovo per la diocesi di San Cristóbal, nel 1960, con il proposito di evangelizzare gli indigeni imponendo loro la religione cattolica come i suoi predecessori avevano fatto prima di lui, con l’eccezione del domenicano Bartolomé de Las Casas, che l’oligarchia spagnola cacciò dal Chiapas nel 1546. Ruiz era un prete molto conservatore, e all’inizio della sua attività pastorale ad ascoltare messa nella cattedrale cittadina affluivano solo i coletos, ossia i ladini discendenti dai conquistadores spagnoli.
Gli indigeni, in Chiapas come altrove, erano il piano basso della società, erano – e ancora in parte sono – i prescindibili, i dimenticati, i più poveri tra i poveri. Il degrado delle loro condizioni di vita, lo stato di emarginazione e di oppressione in cui venivano tenuti dalla classe dominante, in pieno XX secolo, non differivano poi granché da quelle del XVI secolo, come denunciava all’epoca il vescovo nicaraguense Antonio Valdivieso in una lettera indirizzata alla Corona spagnola: “Già ho detto a Sua Maestà che lo stato di questi miserabili è tale che sarebbe più proficuo per loro quello di schiavi, dato che questi ultimi sono trattati da uomini, mentre i nativi da bestie”.
Ma il territorio della diocesi di San Cristóbal è tra i più estesi ed impervi del Chiapas, e la stessa diocesi conta oltre un milione di fedeli sparsi in duemila comunità, così Samuel Ruiz cominciò a percorrerlo a cavallo o in camioneta, recandosi a visitare le comunità indigene isolate, dove le strade non esistono e dove per recarsi a scuola o in ospedale (sempreché poi vi siano assistiti) gli indigeni devono percorrere a piedi diversi chilometri. E così il vescovo che era giunto in Chiapas pensando che la sua azione pastorale consistesse nell’insegnare lo spagnolo agli indigeni e a fargli portare delle scarpe ai piedi, si mise a imparare il tzeltal e il tzotzil, le lingue indigene più diffuse nella regione, e cominciò a passare più tempo fra gli indigeni della Selva Lacandona o delle caňadas (vallate) che fra i coletos delle città.
Gli altissimi indici di malattie, denutrizione e analfabetismo, la mancanza di abitazioni salubri, di energia elettrica, di acqua potabile nelle comunità facevano del Chiapas uno degli stati più poveri della Federazione messicana, e i rapporti di tipo coloniale tra le comunità indigene e la società occidentale erano talmente evidenti, dirà in seguito Ruiz in un’intervista, che “chiunque andasse in Chiapas, ed è capitato anche a me quando ci sono arrivato, non poteva non chiedersi che cosa avesse fatto finora la Chiesa, quale fosse stata la sua presenza missionaria per non aver influito in modo sostanziale sulle condizioni di vita degli indigeni, rimaste come all’epoca della Conquista”.
La comprensione che quella situazione non fosse il frutto di singole volontà individuali, bensì il risultato oggettivo della dominazione esercitata dalle autorità statali e federali, dai latifondisti, dagli allevatori sulle comunità indigene mediante il furto di terre, la repressione contro ogni forma di dissidenza e perfino una serie di omicidi rimasti impuniti, rappresentò il punto di svolta del pensiero di don Samuel Ruiz, che in quegli anni passò da una pastorale indigenista fatta da non indigeni, in cui gli indigeni erano unicamente oggetto di attenzione, alla pastorale indigena, fatta da indigeni per gli indigeni, in cui essi si trasformano in soggetti attivi. A questo proposito, Ruiz stesso soleva dire che a convertirlo non era stata la Chiesa romana, bensì gli indigeni chiapanechi.
Naturalmente il forte impegno di Samuel Ruiz per la giustizia sociale, di cui una pietra miliare è stata nel 1989 la fondazione del Centro per i diritti umani “Fray Bartolomé de Las Casas” da lui presieduto, non poteva non dar fastidio al potere politico che in Chiapas veniva esercitato con modi assolutistici, e dunque inimicargli i potentati locali.
“La diocesi di San Cristóbal, con il vescovo Samuel Ruiz alla guida, è un fastidio continuo per il progetto di modernizzazione dell’assurda struttura di sfruttamento e saccheggio che domina in Chiapas voluto dal governatore González Garrido”, scriverà il subcomandante Marcos nel primo documento dato a conoscere dall’Ezln nell’agosto 1992.
Cosicché, quando scoppiò l’insurrezione zapatista, la principale preoccupazione del governo messicano e dei latifondisti suoi sodali fu di delegittimarla, rifiutando di riconoscerla come una mobilitazione autonoma degli indigeni, ma cercando invece “chi c’era dietro”. In quei giorni furono in molti, a cominciare dai giornali e dalle televisioni filo-governative, ad accusare don Samuel di essere stato a conoscenza della preparazione del levantamiento, dichiarandolo “responsabile morale” della rivolta, e se Marcos era solo un subcomandante, il vero comandante in capo doveva certamente essere Samuel Ruiz. Le denunce dell’azione sovversiva del “vescovo rosso” si accompagnarono a quelle contro i sacerdoti e i diaconi della diocesi, e i catechisti da lui formati vennero incolpati di essere direttamente impegnati nella guerriglia. Il retroterra ideologico della mobilitazione zapatista veniva individuato dal governo messicano nella teologia della liberazione, intesa come sottoprodotto del marxismo e come legittimazione della violenza rivoluzionaria.
Rigettando fermanente queste accuse, Samuel Ruiz e la sua diocesi si impegnarono in una lunga e paziente opera di intermediazione tra l’Ezln e il governo federale per la risoluzione del conflitto, a partire dal momento in cui gli zapatisti chiesero la sua presenza per la consegna alla Croce rossa dell’ex governatore del Chiapas Absalón Castellanos, appartenente al Partito rivoluzionario istituzionale, il partito-Stato che per 70 anni governò il Messico, fatto prigioniero nel corso dell’insurrezione armata del 1° gennaio che portò all’occupazione militare di quattro importanti municipi chiapanechi. L’ex governatore Castellanos fu sottoposto a un giudizio popolare per le malefatte da lui commesse, ma venne poi rilasciato dagli stessi zapatisti che lo condannarono “a vivere fino all’ultimo dei suoi giorni nella vergogna di aver ricevuto il perdono da coloro che per tanto tempo aveva umiliato, sequestrato, oppresso e assassinato”, secondo le parole del documento dell’Ezln datato 20 gennaio 1994.
Dopodiché l’opera di intermediazione per la pace del vescovo Ruiz e del suo gruppo continuò attraverso la Conai, la Commissione nazionale di intermediazione costituitasi con il beneplacito di entrambe le parti in conflitto. Inizialmente, tra il febbraio e il marzo ’94, i negoziati ebbero luogo negli spazi della Cattedrale di San Cristóbal, quindi la sede del dialogo si trasferì nella comunità di San Andrés de Larráinzar, dove il 16 febbraio 1996 vennero firmati dall’Ezln e dalla commissione governativa preposta ai negoziati i primi accordi di pace sui diritti e la cultura indigena, che l’allora presidente Zedillo e il Parlamento messicano si rifiutarono di riconoscere, provocando una nuova rottura con l’Ezln, il quale dichiarò che non avrebbe seduto al tavolo dei negoziati fino a che non fossero rispettati gli Accordi di San Andrés.
Anche per le autorità vaticane Samuel Ruiz era un vescovo scomodo, e in più di un’occasione tentarono di censurare e annullare il suo operato. Nel 1993 Giovanni Paolo II gli aveva consigliato, attraverso il Nunzio apostolico in Messico Girolamo Prigione, di dimettersi volontariamente o di rettificare la sua posizione, imputata di “gravi errori pastorali, dottrinali e di governo”. Poi, nel 1995, su pressione del presidente Zedillo, il Vaticano impose al vescovo un coadiutore, monsignor Raúl Vera, che si recò in Chiapas con l’intenzione di contrastare l’azione pastorale “sovversiva” di Samuel Ruiz. Ma quella sorta di commissariamento fallì perché la realtà chiapaneca convertì il nuovo vescovo, come a suo tempo aveva convertito Samuel Ruiz, e monsignor Vera divenne il più fedele sostenitore di Samuel Ruiz, almeno fino al 1999, quando Vera venne trasferito, per ordine del Vaticano, alla lontana diocesi di Saltillo, nel nord del paese.
Fu nel febbraio 2000 che il Vaticano riuscì finalmente a liberarsi di Samuel Ruiz. Un paio di mesi prima, il giorno del suo settantacinquesimo compleanno, il vescovo Ruiz aveva presentato la sua rinuncia scritta al papa Giovanni Paolo II, come richiede la normativa del diritto canonico. Doveva essere una procedura del tutto convenzionale, ma il papa accettò subito le dimissioni del vescovo, dimostrando una celerità alquanto insolita per i tempi della Chiesa.
L’impegno di Samuel Ruiz per la giustizia sociale non cessò con la sua partenza dal Chiapas. Nella città di Querétaro dove si stabilì assunse la presidenza dell’organizzazione SeraPaz, che divenne lo strumento per proseguire la ricerca della soluzione giusta ed equa del conflitto chiapaneco e di tutti gli altri conflitti presenti nel territorio messicano. Per Samuel Ruiz l’azione di pace non va confusa con un generico pacifismo perché la pace non significa semplicemente la fine del conflitto. Per poterla conseguire vanno risolte tutte le situazioni di ingiustizia sociale che sono all’origine del conflitto. E per risolverle, diceva, talvolta è necessario passare per altri conflitti.
L’ultima sua opera di mediazione fu nell’aprile 2008, quando l’Esercito popolare rivoluzionario, formazione attiva, oltre che in Chiapas, anche negli stati di Guerrero e di Oaxaca, chiese la sua partecipazione alla commissione di mediazione con il governo federale per indagare sulla scomparsa di due dirigenti dell’organizzazione ad opera dell’esercito.
Oggi, così si conclude il comunicato dell’Ezln, “don Samuel se ne va, ma restano molte altre e molti altri che nella e per la fede cattolica lottano per un mondo terreno più giusto, più libero, più democratico, ossia per un mondo migliore.
Salute a loro, perché anche dalle loro pene nascerà il domani”.
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Un invito a sciogliere il parlamento per indegnità dei parlamentari.
Questo dovrebbe fare il Capo dello Stato!
Non si era mai vista una simile accozzaglia di dis-onorevoli nelle aule parlamentari. Gente che si vende per la rata di un mutuo o per la libertà di agopuntura.
Schiere di deputati e senatori che svolgono a tempo pieno altre attività professionali, a cominciare dagli avvocati dell’innominabile.
Incitamenti all’evasione fiscale, cricche di vario genere, leggi ad personam, difese ad oltranza di condannati o di destinatari di mandati di cattura ecc. ecc..
Ministri parlamentari, quello della Giustizia in primis, che invece di tutelare e difendere l’operato della magistratura l’attaccano e la denigrano quotidianamente.
Intere componenti politiche del parlamento e del governo che sputano sulla bandiera e sull’unità nazionale.
Continue e ripetute offese ad istituzioni come la Corte Costituzionale.
“Il Presidente della Repubbica è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale”(art.87) e può, a sua discrezione, sciogliere le camere. Anche, ritengo, per gravi e motivate ragioni.
Cosa deve succedere ancora perché si consideri la maggior parte dei parlamentari incompatibile ed indegna del titolo di onorevole?
Io penso che l’indegnità della maggior parte dei parlamentari a ricoprire i ruoli cui sono stati chiamati, possa essere un validissimo motivo per lo scioglimento delle camere.
Napolitano sciolga le camere per l’“assenza”, nei parlamentari, dei requisiti previsti dall’art.54!
vi prego di fare circolare questo appello. grazie
Questo articolo è emblematico di come l’impegno per la giustizia sociale da parte dei cattolici in America Latina sia stato sempre scoraggiato, osteggiato, mal tollerato ed amerginato da parte dei vertici del vaticano. le vicende di ernesto cardenal in nicaragua e romero in el salvador purtroppo sono i piu’ conosciuti ma non sono isolati.
Non che io confidi granchè nella capacità della chiesa di recuperare al suo interno i valori della giustizia sociale e della dignità umana senza se e senza ma senza nascondersi dietro la ragion di stato ed altre amene cazzate, ma certo il lento e inesorabile declino di questa religione sempre più minoritaria puo’ essere solo arrestato solo attraverso una sclta di campo “cristiana” dalla parte dei pover e degli oppressi. Scelta di campo che in solitudine molti cattolici praticano con le poche forze che hanno e che non trovano cittadinanza nei palazzi del vaticano.
l’impegno di Samuel Ruiz è stato straordinario e sono molto grato a Francesco per avermelo fatto conoscere. Non ho alcun dubbio che all’interno della chiesa cattolica vi siano state e vi siano persone altrettanto straordinarie che fanno per gli altri, chiunque essi siano, cose straordinarie. Troverei però naturale che tutte queste persone, che con grande onestà personale e capacità di dedizione e di sacrificio lottano per l’emancipazione dei diseredati della terra, organizzassero una “chiesa” loro che non riconoscesse in alcun modo una gerarchia che sempre e comunque si adopera per ridurli al silenzio e ostacolare la loro opera.
@ sparz: ma per molti aspetti la chiesa in queste comunità indigene in ribellione è altra rispetto a quella che conosciamo noi. Ho avuto modo un paio di volte di assistere (con la curiosità del non credente) a una messa officiata in una chiesa (che è poi una modestissima costruzione in legno e tetto di zinco) d’una comunità indigena zapatista. Ebbene, mi ha stupito l’alterità del rituale (per quanto almeno lo ricordavo da bambino in una chiesa italiana) e il diverso rapporto tra sacerdote e fedeli. Lì chi va a celebrare la messa (circa una volta al mese, viste le grandi distanze) è una sorta di ospite che segue le indicazioni dei diaconi e catechisti indigeni locali, i quali gli suggeriscono perfino quali brani del Vangelo leggere perché più indicati in quel momento per la comunità. Per la questione poi di questi sacerdoti che continuano la loro catechesi all’interno della Chiesa, credo che si spieghi col fatto che intendono continuare a lottare all’interno dell’Istituzione, altrimenti sarebbero ancor più isolati e screditati. Ma succede anche, quando le tensioni e i contrasti con l’istituzione si fanno soggettivamente insopportabili, che alcuni di questi religiosi si “spretano” (come ha fatto alcuni anni dopo quel frate domenicano di cui avevo assistito la messa), e continuano da laici il loro impegno sociale.