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Favolose nullità


di Mauro Baldrati

Abito in San Donato. Polvere, veleno, rumore. Morti, sono tutti morti. Cadaveri che camminano. Mummie al volante. Ectoplasmi col passeggino.
Anche Dorian è morto. E’ già sepolto. La sua sentenza capitale è stata la perdita del lavoro, quel giorno è salito sul patibolo. Il suo padroncino di autocarri è fallito, i camion confiscati, Dorian a terra con la liquidazione vaporizzata. La moglie lo ha lasciato, anzi, l’ha buttato fuori di casa. Come farò ora? Ripete continuamente. Come farò a quarantacinque anni? E piange.
Quarantacinque anni, salito sul patibolo.
Io no. Non piango. Sono vivo io. Ho smesso di vagare per le agenzie interinali, smesso di sedermi di fronte a quelle ragazzotte e a quei ragazzotti sempre al telefono con lo sguardo perso nel loro vuoto nevrotico.
All’inferno le interinali. All’inferno tutti loro, il Presidente della Repubblica Cosmodemonica Pompinara, il Presidente del Consiglio degli Zombi, il partito dei riformisti beat, il papa carnevalesco, i direttori, i dottori, gli avvocati, il vostro mondo sta sprofondando in un pantano di merda. E quando finalmente esalerete l’ultimo respiro io canterò. Sarà un canto stonato ma canterò. E danzerò sulle vostre carogne verminose.
Non ho soldi, né risorse, né speranze. Non ho il computer, né la televisione, né il telefono. E sono felice. Fino a tre mesi fa pensavo di essere libero. Ora non lo penso più. Lo sono.

Mentre cammino per via Lame, con le orecchie dritte, lo sguardo attento, vedo il tipo in camicia bianca e cravatta che accosta l’Audi al portico, scende di getto lasciando la portiera spalancata e corre all’edicola. Il motore è acceso, pronta per me. Una manciata di secondi, mezzo minuto per il giornale o un’informazione, ma io sono più svelto. Salto a bordo, ingrano la prima e parto. Lo vedo nello specchietto mentre corre in mezzo alla strada e si sbraccia.
Guido veloce ma prudente fino alla carrozzeria Naldi. Parcheggio sul piazzale asfaltato, sotto agli alberi, accanto alle auto incidentate.
Naldi mi vede, si avvicina trafelato. Faccia da topo, capelli grigi scarmigliati, mani pulite. Non lavora lui, amministra. Fa lavorare gli operai, due ragazzi in nero, uno anziano, il capo, e un rumeno taciturno sempre incazzato.
Fissa l’Audi con le sopracciglia aggrottate. Non dice una parola.
“Nuova di pacca” faccio.
“Mettila dentro subito” fa, furtivo, indicando il capannone.
“Te lo sogni” dico.
Non mi lascio più fregare da Naldi. Mettila dentro che vediamo.
“Dimmi quanto mi dai e caccia fuori i soldi.”
“Mille”
“Tu sei matto” dico. “Mille per questa qui, è nuova.”
“Lo sai com’è. Devo mandarla giù a Napoli, è rischioso.”
“Cazzi tuoi. La porto alle Roveri. Mille è una miseria.”
“Quelli delle Roveri sono dei marocchini, non si lavora coi marocchini.”
“E te cosa sei?” sbotto. Per Naldi i marocchini non sono gli abitanti del Marocco, ma quelli non affidabili, poco seri. I ladri disonesti insomma. “Ha solo 8000 chilometri. Dentro c’è il libretto e tutto.”
“Millecinquecento e punto. Se non ti va bene portala pure dai marocchini.”
Taglia corto, inutile insistere. E in fondo non mi frega di insistere. Millecinquecento euro mi stanno strabene. Un colpo di culo favoloso.
“Dammi i soldi.”
“Mica li ho in contanti, cosa credi? Poi viene un balordo come te e mi rapina. Mettila dentro, sbrigati.”
Già, la rapina. Con una bella botta in testa. Ci penserò.
“Naldi, o mi dai i soldi in mano o me ne vado” faccio, guardando l’Audi.
Si gratta la testa, fa una smorfia.
“Aspettami qui. Devo andare in banca a prelevare. Torno tra mezz’ora.”
Gira i tacchi, va verso il capannone, inforca un motorino e parte a gambe larghe, come una specie di ragno, o di farfallaccia in caduta libera.

Dieci bigliettoni da cento e dieci da cinquanta. Una cosa favolosa. Vado al supermercato coop, compro due bottiglie di Montepulciano, formaggio parmigiano, lasagne al forno precotte, frutta, caffè, dolcetti, uova, piselli in scatola, insalata. Pago con un cinquanta, con una sorta di gioia trionfale. Sorrido alla cassiera, una bella signora mora, che ricambia.
Fuori dal supermercato c’è una bicicletta legata a un lampione con un lucchetto ridicolo. Due occhiate in giro e lo apro in un secondo col coltellino passepartout. Infilo i sacchetti nel manubrio e pedalo fino in San Donato. A casa.

Il nostro antro è in un quartiere lebbroso, un’accozzaglia di edifici abitativi decrepiti, magazzini e negozi vuoti con le serrande marce, aiuole spelacchiate, asfalto crepato. Siamo dietro a un centro di distribuzione di abiti per famiglie povere, con un viavai continuo di donne africane, vecchi, bambini zingari che corrono dappertutto urlando. E’ un magazzino o un laboratorio dismesso, che il Crotalo – uno strozzino che gestisce un campo nomadi abusivo in un cantiere abbandonato – ci ha affittato in cambio di un chilogrammo di marijuana all’anno, che io e Dorian coltiviamo lungo l’argine del Reno. E’ un androne alto quattro metri, con finestroni a filo del soffitto, i muri sottili velati di una muffa vecchia e nera, il pavimento di cemento grezzo. Non c’è riscaldamento, abbiamo installato una grande stufa a legna che produce un caldo favoloso, e per l’acqua abbiamo fatto entrare una derivazione da una fontana in cortile. Poi ho alzato due pareti di legno truciolare alte tre metri, perché voglio la mia stanza da letto, non mi va di condividere lo spazio con quello scorreggione depresso di Dorian.
Dorian è seduto al tavolo di cucina, con la testa tra le mani. Immagine abituale, ci ho fatto il callo ormai. Non alza la testa, non mi saluta.
“Oi!” grido, mentre sbatto i sacchetti sul tavolo. Apro lo sportello del frigorifero, metto dentro gli alimenti.
Dorian mi guarda, segue i miei gesti. Ha gli occhi rossi, avrà pianto come al solito.
“Che è?” fa, con voce arrochita.
“Ho fatto su una bicicletta” dico.
Non mi va di scendere nei particolari, non è necessario che Dorian sappia che sono in pilla.
“Uh” fa.
“Stasera organizziamo una bella cenetta, pensavo di invitare quelle due” dico. Una prospettiva favolosa. Quelle due sono una ragazza afro che faceva le pulizie dal padroncino di Dorian e una sua amica tunisina. Rappresentano il mio ideale di donna di questo periodo: floride, calde, accoglienti, di una bellezza strato.
“Uh” fa di nuovo Dorian.
“Ma vuoi tirarti un po’ su, perdio?” sbraito, scrollandolo per una spalla. Mi irrita questa sua depressione continua. Trovo insopportabili i tipi tristi e pessimisti. Quelli che si conformano al mondo morto, che cercano di assomigliare ai cadaveri che camminano.
“La fai facile te. Anche oggi ho fatto un giro per agenzie. Niente. Alla mia età nessuno ti offre nulla. Mi dici come faccio a tirare avanti?”
“E io come faccio? Cazzo te ne frega del lavoro? Mettiamo più piante di maria, ci arrangiamo.”
“Sì, e prima o poi ci beccano e andiamo al gabbio.”
Basta, ci rinuncio. Con Dorian è tutto un problema, tutta una sconfitta. Va sempre male, e domani andrà peggio.
Domani non esiste. Esiste oggi. E io oggi sono libero e in buona salute.
Esco di nuovo, vado in farmacia e, facendo la sceneggiata con una bella farmacista dall’aria favolosamente borghese, la convinco a darmi una confezione di valium senza ricetta.

Verso il vino, rido con la pancia e con la gola. Di me dicono che ho una risata torrenziale, contagiosa. Dicono che comunico la mia allegria all’ambiente. E che dovrei fare, piangere come Dorian?
Comunque stasera anche il mio socio maniaco depressivo ride, scuotendo la testa. E ridono Amina e Nidal, la tunisina che mi piace da matti. E’ grande, opulenta, coi capelli tinti di un biondo chiarissimo, quasi bianchi. Ha un nasino all’insù che regala uno stile unico alla sua faccia rotonda, con le guance soffici come paste alla crema. Anche Amina è bellissima, opulenta quasi quanto Nidal, nera del centroafrica, coi capelli lisciati, lucidi. Ha il rossetto e le unghie rosso scarlatto, sgargianti. D’un tratto spalanca i suoi grandi occhi, che sembrano fanali neri nella notte profonda, e indica un punto alle mie spalle. Mi giro verso l’angolo cucina e vedo uno scarafaggio di ragguardevoli dimensioni che si muove lento sopra al lavello.
Rido e alzo le spalle, mentre Dorian fa un balzo verso l’insetto, che si è già eclissato dietro al lavello.
“Qui ci sono loro” dico. “Abbiamo provato di tutto, polveri insetticide, trappole, ma tornano sempre. E allora che ci stiano, questi stronzetti. Vivono dietro il lavello, non si allargano troppo.”
“Oh” fa Nidal, con una mano davanti alla bocca, e guarda seria il suo piatto di lasagne.
“Non preoccuparti” la tranquillizzo. “Queste sono precotte.”
Volevo fare il bullo, dire che le avevo cucinate io, ma non sono sceme, si vede che vengono da un laboratorio, così compatte.
Mi verso in gola una straordinaria bicchierata di Montepulciano, ne verso a Nidal e Amina. Dorian ha il bicchiere ancora pieno. Non beve, gli basta la sua disperazione, che ha di nuovo preso il sopravvento, come avevo previsto. Non ha spazio per altro.
Anzi, non solo non ha più spazio libero, ma ne è pieno fino a scoppiare. Così cerca di vuotare il sacco con Amina. La sta deprimendo coi suoi discorsi mortiferi. “Non si trova niente, capisci? Non ti permettono di costruire nulla.” Cala un’atmosfera cupa, Amina ascolta a testa bassa, con aria afflitta. Lei stessa fa le pulizie in nero, ha lo sfratto, non vede prospettive. Perfetto, spalanchiamo le porte ai presidenti degli zombi, permettiamo loro di invadere anche le nostre case, le nostre menti. Offriamo loro su un piatto d’argento il sangue caldo delle nostre vite pulsanti. Non aspettano altro.
Se non intervengo subito la serata è rovinata. Amina e Nidal se ne andranno da qui tristi e deluse.
“Bene, ci facciamo un bel tè allegro?” dico a voce alta, sbracciandomi come un attore di teatro.
L’allegro è tè verde con le foglie di maria. Le ragazze lo sanno. Anche Dorian lo sa, e ogni volta lo beve sperando di ridere un po’. Invece su di lui ha l’effetto opposto. L’erba sintetizza i suoi stati d’animo, li purifica per così dire. La sua depressione diventa semplice e assoluta, come una formula matematica.
Così lo aiuto. Verso nella sua tazza cinquanta gocce di valium. Non ha quasi toccato il vino, con la maria avrà un effetto soporifero senza complicazioni.
Infatti dopo neanche un quarto d’ora inizia a crollare la testa, mentre noi ridiamo di tutto, degli scarafaggi, dei tipi strani che conosciamo, del vecchio divano coi cuscini logori, del fatto che non posseggo un telefono cellulare e sono un cavernicolo. La nostra erba nata da semi tailandesi è favolosa. Rido con gli occhi intrecciati con quelli di Nidal, occhi grandi di un colore nocciola scuro come i gusci delle mandorle, come i datteri della sua terra.
Intanto tengo d’occhio Dorian.
“Sarà meglio che ti metti a dormire” dico, in una pausa dalle risate.
“Uh” fa Dorian.
“Noi ci tratteniamo ancora una mezz’oretta, poi andiamo tutti a letto” soggiungo.
Dorian si alza barcollante, saluta confusamente, si ritira nel suo box. Lo seguo con lo sguardo, cerco di valutare se devo accompagnarlo. Ma ce la fa con le sue gambe. Meglio così. Aiutarlo, sostenerlo imprimerebbe una svolta malata all’energia allegra che scorre tra noi.
Restiamo noi tre, finalmente. E’ la situazione ideale per me. Da solo con una ragazza avverto sempre una certa tensione, un confronto tra me e lei. Ma con due la felicità esplode, le battute si incrociano, l’eccitazione sale.
Mi avvicino, prendo le loro mani, le accarezzo. Mi siedo in mezzo a loro sul divano, bacio Amina su una guancia, poi bacio Nidal, accarezzo i capelli di Amina, le dico che sono bellissimi, abbraccio Nidal sulle spalle, cerco la sua bella bocca piena, morbida, aspiro il suo alito profumato. Continuo a scherzare e ridere, per aiutarle a superare l’imbarazzo, soprattutto Amina, che è rigida, sbalordita. Ma l’erba tailandese-renana fa il suo lavoro, stimola la nostra allegria, ci guida nella leggerezza che sola può donare la vita, l’amore, e concederne il godimento.
Sfilo la maglietta di Nidal, bacio i suoi seni prorompenti sopra il reggiseno, tiro a me Amina, che lentamente si lascia andare, si ammorbidisce, mi permette di accarezzare e baciare la sua pelle nera, di immergere la bocca nel suo cespuglio di rose nere. E sprofondo nei loro corpi opulenti, sprofondo nella pancia favolosa di Nidal, nella sua bocca socchiusa. Sprofondo nel dolce abisso di Amina.

Al mattino mi alzo in forma straordinaria. Guardo il cielo azzurro dai finestroni, nuvole bianche in viaggio nella brezza di aprile. Ho la testa leggera, le gambe scattanti. Sono in pilla, voglio fare una lunga passeggiata nel parco della Chiusa, poi a pranzo con Dorian in un buon ristorante. Non ci faremo mancare nulla.
Anche Dorian si alza. E’ pallido, sembra sfatto. Ha le braccia penzoloni, le occhiaie, la pelle grigiastra. Cerca di rianimarsi, si sciacqua a lungo la faccia con acqua corrente, nel lavello della cucina.
“Com’è andata con le ragazze?” chiede.
“Oh, tutto bene” faccio.
“Mi dispiace per ieri sera, non ce la facevo più” si scusa.
“Oh, fa niente” lo rassicuro.
Crolla seduto al tavolo, prende i dolcetti che ho comprato alla coop. Intanto io metto sul fornello la caffettiera.
“Ho preso una decisione” dice, con tono solenne. Talmente solenne che rido, mentre sollevo il coperchio della caffettiera.
“Basta buttarmi giù. Basta vedere tutto nero. Basta con le previsioni negative.”
Rido, mentre verso il caffè nelle tazzine.
“Sì, da ora in poi andrò avanti come una macchina. Cercherò lavoro con calma e tenacia, senza farmi venire l’ipertensione se tutti mi chiudono la porta in faccia. Ce la farò prima o poi. Devo farcela.”
Bevo il mio caffè e rido.
“Ma la smetti di ridere, cazzo. Non sai fare altro, tu. Mangiare, ridere, scopare. Certe volte sei disgustoso. Quanto credi che durerà?”
Guardo la sua faccia emaciata e scoppio a ridere.
“Dorian, con quella faccia cosa credi di fare? Se vai in giro così si toccano tutti le palle.”
Guarda il pavimento. Annuisce.
“Sì, ma la metterò via, questa faccia. Oggi ho testa pesante, non so, forse ho dormito male. Ma io credo in un progetto. Tu non hai nessun progetto. Vivi alla giornata. Sei un incosciente.”
Assaporo il caffè sulla lingua, sulle labbra. Sento ancora l’aroma della bocca di Nidal, la sua saliva dolce, il suo alito fragrante. Chiudo gli occhi. Ti amo Nidal. Amo anche te, Amina, il tuo cespuglio di rose nere. Non faccio che pensare a voi. Sono pazzo di voi. Voglio vivere con voi.
“Che progetto, Dorian? Un nuovo lavoro da camionista, dodici ore al giorno seduto al volante? Facchino notturno? Impiegato dal culo largo?”
“Sì, disprezza pure tutto. Ne farai di strada.”
“Non voglio fare strada. E non disprezzo nessuno. Voglio vivere come un animale, come un selvaggio. Voglio prendermi quello che mi piace, non me ne frega niente del progetto.”
Non sembra avermi sentito. Annuisce, guardando il pavimento.
“Sì. Andrà meglio, ne sono sicuro. Perché questa è la mia volontà.”
Andrà meglio, sì.
Meglio… meglio di così?

[fotografia dell’autore]

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28 Commenti

  1. Foto incredibilmente bella, come composizione e scala di grigio, a dispetto del flash. Lasciami indovinare: 1982 o giù di lì?
    Storia piaciuta (nonostante il cespuglio di rose nere).

  2. @ nonsopiuchelèggere
    Roma, inizio anni 80, complimenti. Però guarda che le rose nere sono… deliziose.

    @ carmelo: danke!

  3. @mauro baldrati
    Ich freu mich dir kennen zu lernen
    ho letto che hai scritto per Frigidaire che ricordo con piacere !
    scopro anche che hai un blog e mi pare giusto che i lettori lo sappiano
    http://baldrus.blogspot.com/
    se non altro per leggere altre tue storie
    si dice anche che ” nel primo semestre del 2010 sarà pubblicato un romanzo che fonde gli stili della fantascienza e del noir dall’editore Perdisa Pop”
    volevo chiederti se è gia’ stato pubblicato, come si initola e se ti va di parlarne

  4. me lo sono letto stamattina, molto goduto, mi ero dimenticato di commentare. un boris vian in salsa bolognese.

  5. Mauro, più che deliziose. Ma mi riferivo all’espressione che hai usato per suggerirle, che non mi piace. E non so perché. Complimenti a te.

  6. sai una cosa, cicci?

    ‘sta roba è completamente insincera.

    lo si capisce da come la scrivi.

    per la totale mancanza di pietà e compartecipazione nei personaggi fasulli che escono dalla tua penna.

    Dai retta a me: scrivere bene non è solo questione di frasi trancianti o desiderio di onnipotenza, è “solo” riuscirsi a calare nelle complessissime anime altrui.

  7. paolo sciola, chiunque tu sia, scopro per caso che intervieni anche altrove, chiamando altri “cicci”. Deve essere un tuo stile per esprimere il disprezzo. Ovviamente in tuo non è criticare, ma usare i testi altrui per cercare di scaricare l’escremento di cui sei pieno. E’ un carico inevitabile nei siti coi commenti. E questo vale, ovviamente, anche per il cosiddetto Johnny Doe, chiunque sia.

    Dovreste cercare di capire una cosa (ma se non la capite – come non la capirete – sono affari vostri): un racconto non costituisce un’offesa a voi, è solo il prodotto di una macchina di espressione. L’offesa che vi portate dentro, la ferita che vi è stata inferta, non è data da un racconto ma ha altre origini, che vi sono ignote.

    Ringrazio tutti gli altri :-)

  8. No, mr.Baldrati,qui l’unica offesa è quella che fa lei alla letteratura.

    Una ridicola scimiottatura di Rimbaud,di Miller e di tutta la beat generation,da Ginsberg,Ferlinghetti… e finanche di un certo Bukowski,
    costellata di banalità e luoghi comuni fritti e rifritti.
    Ma questi e i loro personaggi andavan fino in fondo,non mettevan pedali sul freno e cercavano un’altra libertà,vivendola pure sulla loro pelle, da quella dei suoi patetici personaggi da fumetto.

    Mica quella ridicola scena con le due ragazze,roba da collegiali alle prese con Harmony….e poi la maria..! ma non la chiama più così nemmeno il mio gatto…!
    Il tutto illustrato da una scrittura che definir scolastica e artificiale è già molto,come tutti i suoi personaggi,cosa già notata da un altro commentatore.Ci vuole un cieco per non accorgersene.

    Com’è che si intitola? Favolose nullità…già,mai titolo fu così appropriato…

  9. C’è il monitor che vibra sotto l’urto della tua rabbia contundente. Singolare, tutto questo per un semplice racconto. E’ impossibile, capiscilo se ce la fai. Certo, qualche codice a me ignoto- che pure l’ho scritto – deve averlo, per causare una simile offesa, con quella fuoriuscita di aggettivi ed epiteti. Ma non ho tempo per scoprirlo, perché non ho tempo di farmi carico della tua frustrazione.

    E il titolo certo che è appropriato, perché viene da lontano.

  10. Chissà mai che aggettivi ed epiteti…!
    Vede,per lei è singolare che uno critichi apertamente il suo racconto…il che è già tutto dire…magari molti lo pensano ma non lo dicono.
    Non si faccia illusioni,ma dal momento che ha deciso di pubblicare,si espone…altrimenti tenga nel cassetto tutto e vedrà che non avrà bisogno di codici..
    Quanto alla frustrazione..e a qualcos’altro…beh..questo racconto ne è un
    impareggiabile esempio.

  11. Sintesi della poetica dell’autore: ” Quelli che scrivono bene di me so li mejo, l’atri se l’andasseno tutti a pijalla ‘n der bicchiere! Li peggio mortacci loro e di su’ nonno! “

  12. Ma non c’è dubbio (u’ gné dobbi), la sintesi dell’autore è: benvenute le manifestazioni di gradimento, le condivisioni, e anche le critiche (e l’autore ne ha avute diverse nel corso del suo cammino), purché siano tali; mentre non è disponibile a caricare su di sé il vomito emorragico dei personaggi nevrotici-aggressivi che sfruttano i lavori altrui (suoi e di molti altri) per sfogare la propria violenza interiore. Che si arrangino per conto loro (ch’ì s’arrangnen par cont lòr).

  13. @johnny doe

    @Paolo Sciola

    Ora però, ragazzi, con tutto il rispetto eh ma diamine, avete tirato in ballo per 2 righe Rimbuad Miller Bukowsky..tutta la beat generation.. Dio santissimo!! Tutta questa gente per questo scritto?? Siamo d’accordo, probabilmente non è la cosa più innovativa ed eccitante che abbia letto in vita mia, ma proprio per questo ce n’era davvero bisogno??
    Comunque dai, non mi sembra nemmeno davvero l’ultimo scarto dello schizzo colato tra le chiappe della madre (citando Hartman). Anche perchè la quasi totalità delle volte che leggo un testo su N I c’è uno di voi 2 pronto a dar giù con legnate sui denti sotto forma di incapacità superficialità inutilità leggerezza falsità e lezioni orto-sintattiche-grammaticali, e così capite bene, create dei precedenti ed il dubbio viene. Date la sincera impressione di volerci andare giù pesanti solo per partito preso o per sottolineare quella linea dura che un critico competente dovrebbe avere, ed in questo caso, perdonatemi, ma è del tutto inutile.

    Senza contare il fatto che (nel rispetto della vostra competenza) tirate sempre in ballo paragoni giganteschi con gente troppo più grande, anche di voi. Abbiate più pudore nel nominarli e riservateli per quando avrete a che fare con testi alla vostra altezza da critici. Non cè mica nessuno in lizza per il nobel qui eh?!
    Valutate chi avete dinnanzi e a cosa punta. Date dei consigli e non colpite così alle caviglie, o finirete anche voi ed il vostro calderone di insulti, esattamente nella pattumiera generalista dove avete gettato tutti gli altri.

    Senza parlare poi di questo diritto che vi arrogate di chiamare sempre in causa la LETTERATURA, “una offesa per la letteratura”.. Mi ricordate tanto Berlusconi ed i suoi schiavetti quando citano continuamente il POPOLO SOVRANO. E chi sarebbero i difensori della letteratura poi, voi?? No perchè dopo tanto dire, sapete, avete una gran bella responsabilità addosso ed uno si aspetta grandi cose.. (e questo lo dico, ci tengo a precisarlo, avendo i vostri blog tra i preferiti ed avendo condiviso letture ed apprezzato -col mio modestissimo “giuduzio”- i vostri scritti e molte vostre considerazioni)

    Ora se volete sguinzagliate pure i dobermann..!!

  14. @baldrati

    “..vomito emorragico…violenza interiore…”
    Ma per favore..!
    E lei crede d’esser meritevole di tanto?
    Non si illuda.
    Se così fosse,le avrei suggerito di andar per funghi..
    La critica?
    Gliela ripeto:una scimiottatura pacchiana e artificiale della beat generation,ma ovviamente a questo lei non risponde,non può.

  15. marco, grazie dell’intervento pacato. Non c’è da stupirsi per quelle citazioni, questi di solito fanno sempre riferimento ad autori morti, perché possono specchiare le loro immagini mortifere interiori. I vivi che scrivono li fanno infuriare, li offendono.

    Io ora devo lasciare perdere perché mi conosco: cado in tentazione e finisce che mi diverto a sbranare un trollino che cita un titolo senza sapere da dove viene, e non sospetta che “vomito emorragico” è stato coniato da uno dei grandi maestri del noir. Non voglio più fare quelle cose, spero di essere cambiato in meglio, di essere cresciuto, e anche la tristezza altrui in fondo è degna di attenzione e di compassione :-)

  16. @baldrati

    Vomito emorragico lo dice anche il mio dottore, (che comica..veramente forte..) e gli autori che lei definisce morti son mille volte più vivi di lei,autore vispo, che più che offendermi ,mi diverte.
    Per il resto,può solo sbranare qualche coscia di pollo,se ancora si ritrova qualche dentino
    Grazie per la conclusione evangelica,com’è buono lei,non mi resta che piangere…

  17. @ johnny doe

    Era la risposta consolotoria che speravo, e concordo di nuovo ora con tutto quello che hai scritto, sull’idea che c’è in nazione indiana e sullo scrivere e sulla letteratura stessa. Sarà perché questo ultimo commento (mi) risulta inevitabilmente meno “aggressivo” (si sa l’aggrssività non modulata provoca chiusura e incomprensione) :-)

  18. Jan, sono d’accordo con te, anche se ieri sera prima di andare a dormire avevo intravisto un commento di carmelo che poneva l’accento sull’imbarbarimento dei commenti che secondo me è pertinente. Infatti io sono convinto che diversi autori non pubblicherebbero loro racconti per farsi insultare o deridere da chi ha solo questo obiettivo, e quindi non arricchiscono il sito. Succede come nel periodo a cavallo tra gli anni settanta e gli ottanta, quando i gruppi musicali cessarono i concerti in Italia per l’abitudine di sputare sui musicisti, moda che culminò con una molotov sul palco di Santana. Io vengo da una storia che insegna la totale libertà, ma ultimamente sto pensando che l’imbarbarimento che avanza dà spazio a varie pazzie e a fenomeni di cosiddetto Tea Party che rovinano ogni discussione.

  19. Qui si parla di testi. è bello? è brutto? perché? Se non riuscite ad argomentare astenetevi: non è obbligatorio avere un’opinione su tutto.

    Perfetto, me la scrivo. Suggerirei di cassare tutti i commenti rivolti alle persone e non ai testi, però anche quelli vanamente e ansiosamente adulatori, che a mio avviso stanno abbassando il livello del blog di più di quelle che voi ritenete, qualche volta non a torto, critiche troppo feroci che di striscio toccano anche l’autore del post in quistione. In subordine: cassare almeno dalla terza leccata in poi?

    Vorrei anche dire che io personalmente ho subito attacchi alla persona sia da commentatori miei paria che da illustri postattori appartenenti o ex appartenenti alla casta indiana, i quali ultimi mi hanno invitato sia ad allontanarmi dal blog, in quanto eretico, e sia, più dolorosamente, mi hanno non affatto scherzosamente minacciato di battermi con la mazza da baseball e a mani nude: ma non avete mosso un dito. Giusto per riproporzionare…

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