Emergenza scuola #1
[ripubblico la prima puntata dell’inchiesta uscita ieri 6 aprile sul manifesto]
di Cinzia Gubbini
In classe si lavora con la creta e i cartoncini Bristol. Per le vacanze pasquali appena incominciate, gli alunni dell’87mo circolo Ada Negri di Roma – tre plessi di scuola elementare – hanno preparato dei «regali» per i genitori: si fa così, da sempre. Creatività e manipolazione di materiali fanno bene ai bambini. Che, in futuro, faranno grande il paese. Ma la creta non c’è, in uno dei circoli più grandi della capitale. Quindi la comprano le maestre: che fai, non prepari niente per Pasqua? Tanto, le insegnanti dell’Ada Negri ci sono abituate. Ma anche le famiglie ci mettono del loro. I 1.200 alunni della scuola nello zainetto portano la carta igienica e il «kit pulizia»: sapone liquido e salviettine. Come succede un po’ dappertutto da parecchio tempo, ormai.
Ecco come va avanti la scuola pubblica italiana, dove dopo anni di tagli i nodi cominciano a venire al pettine. Non ci sono più soldi. E l’esempio dell’Ada Negri non è neanche il peggiore. Sorge in un quartiere residenziale abbastanza centrale, tra le zone di San Giovanni e Colli Albani. I casi di famiglie che non possono permettersi di «dare una mano» alla scuola dei loro figli sono rari. Qui mamma e papà (come le maestre) mettono mano al portafogli senza troppi mugugni. E se qualcuno non ce la fa – perché anche qui succede, ovviamente – tocca alla sensibilità dell’insegnante fare in modo che gli altri bambini non se ne accorgano. E allora quando si fa il giro in classe per chiedere il contributo e c’è il bambino della famiglia più povera che quei soldi non li ha, scatta la piccola bugia della maestra, «tua mamma li ha dati a me».
Tutto così, ogni giorno, per cercare di offrire un insegnamento completo, moderno, dinamico, utile. Come una scuola del 2007 deve assicurare. E per offrire all’atto dell’iscrizione un programma accattivante, all’altezza delle altre scuole. Perché se cala l’utenza, calano anche i fondi pubblici. Ma siccome la scuola è, appunto, pubblica, non si può pretendere troppo dalle famiglie. Così il consiglio d’Istituto dell’Ada Negri ha stabilito che non si possano chiedere più di tre euro per ogni attività integrativa (a parte gite e uscite didattiche, ovviamente). Con quei tre euro il circolo quest’anno ha messo in piedi anche un corso di educazione musicale con esperti esterni. I soldi in più per farlo camminare li hanno presi dal «fondo per l’autonomia», che qui è pari a diecimila euro per tutto l’anno. Dovrebbe servire a finanziare tutte le attività e i corsi di aggiornamento per gli insegnanti – «le nozze coi fichi secchi», sintetizza senza ironia la vicaria della preside, Stefania Rastelli.
Le supplenze
Ma la mazzata quest’anno è arrivata con il decreto che, di fatto, impedisce di coprire le supplenze. Si noti che in una scuola elementare – a differenza delle superiori – i bambini non possono uscire prima o dopo l’orario. Sono piccoli e la scuola deve garantire (almeno) la vigilanza. Il decreto ha stabilito che deve esserci un tetto: la scuola non può chiedere quanto le serve, lo stato non garantisce più di 450 euro lordi per ciascun docente dell’organico. Per l’Ada Negri significa avere a disposizione, quest’anno, 96mila euro lordi. Per capire l’entità del taglio, basti guardare la cifra spesa l’anno scorso: 184mila euro netti. «Li abbiamo già spesi quasi tutti a causa anche delle supplenze lunghe, per le gravidanze o per gli insegnanti giudicati non idonei. Teoricamente dovremmo andarci avanti fino a dicembre», spiega la dirigente della scuola, Rosalia Zene.
In altre scuole, i dirigenti stanno valutando la possibilità di chiedere prestiti alle banche. Qui non è ancora accaduto. Ma le conseguenze non sono meno gravi. All’Ada Negri è molto richiesto il tempo pieno, e quindi si cerca di garantire – come il modello didattico imporrebbe – almeno quattro ore di compresenza tra i due insegnanti. In queste ore fatte insieme, si porta avanti il progetto europeo Comenius: si tratta di sviluppare il «cooperative learning», un metodo di studio e insegnamento. «Ma se ci sono dei ‘buchi’ nelle altre classi, gli insegnanti rinunciano alle ore di compresenza e vanno a coprirli», spiega Zene. A discapito sia del progetto europeo che del modello del tempo pieno. Svuotato di uno degli elementi principali: la compresenza. E l’anno prossimo già si prevede di utilizzare un metodo ancor più «drastico»: aprire le classi, come si dice in gergo. Nulla di avanzato o progressista. «Significa che siamo costretti a dividere i bambini, quando manca l’insegnante, e mandarli in altre classi dove invece la maestra c’è» – spiega Rastelli. «Chiaramente è devastante. Per i bambini, che si dividono dai loro compagni e non hanno più un punto di riferimento. Ma anche per le classi che li accolgono, e per le maestre, che vedono arrivare sette o otto bambini in più con un inevitabile ‘disturbo’ alle attività didattiche».
Rastelli non è una che tesse soltanto le lodi della scuola, ma ne individua lucidamente anche le «pecche»: «Lo so bene che la scuola pubblica in questi anni ha sprecato risorse. So anche che ci sono insegnanti assenteisti, che si mettono in malattia a sproposito. Non ho problemi anche a dire che con un organico praticamente al cento per cento femminile (su 140 insegnanti 139 sono donne) accade che quando una maestra rimane incinta non la vedi più per due anni. Ma credo che questo accada dappertutto, e purtroppo dipende molto dall’inclinazione personale». E’ però sin troppo chiaro che da parte dello stato – di qualsiasi colore sia il governo – i tagli non dipendono dalla volontà di gestire meglio le risorse o di far funzionare il sistema in modo più efficiente. Si taglia e basta, a pioggia, perché la scuola è sempre sacrificabile.
In troppi in classe
Esempio sin troppo eloquente è la decisione di aumentare il numero di alunni per classe. La finanziaria del centrosinistra ha stabilito che le unità per classe possono aumentare con un coefficiente di 0,4. Il risultato è che se ora le classi arrivano a 25 alunni, dal prossimo anno potrebbero lievitare fino a 27: «E a rimetterci è la qualità della didattica», dice Rastelli. Anche perché i ragazzini di oggi non sono quelli che entrano in classe, si siedono dietro al banco e se ne stanno zitti e buoni per cinque ore. Non è più così da anni, lo è sempre meno. La vicepreside dell’Ada Negri ha un giudizio piuttosto duro sulle nuove generazioni: «La scuola, le famiglie, tutto il paese dovrebbe fare una riflessione. Io vedo bambini che già da piccoli sono da una parte molto arroganti, dall’altra molto fragili. La scuola ha perso autorità, ormai non si può più sgridare un ragazzino che si comporta male: nove volte su dieci piomba a scuola il genitore, che lo protegge e lo difende».
Secondo la maestra, proprio per questo oggi il modello del tempo pieno è un modello vincente, più che in passato, e non soltanto per permettere ai genitori di «parcheggiare» il figlio a scuola: «Il tempo pieno è un modello che ti permette di avere dei tempi distesi» – spiega Rastelli. «Io credo che il principale problema di questi bambini sia che sono bombardati da mille stimoli. Va tutto di corsa, è tutto troppo denso. C’è bisogno di avere del tempo, di poter diluire le attività, e stare a scuola un po’ di più, con tutte le cose che oggi si fanno in classe, è il modo migliore per poter reggere l’impatto». E per toccare anche un aspetto più pratico, esente da qualsiasi giudizio di valore, la scuola ha inviato all’ufficio scolastico la piantina dell’edificio: «Spero si rendano conto da soli che ventisette ragazzini proprio non ci entrano nelle nostre classi».
Ma anche all’Ada Negri, come in molte altre scuole d’Italia, di fatto garantire il tempo pieno a tutte le famiglie che lo chiedono è impossibile. «Le iscrizioni di quest’anno ci richiedono sette classi di prima a tempo pieno per il prossimo anno» – spiega la dirigente Zene. «Dunque servono quattordici insegnanti. Ma ce ne hanno garantiti solo dieci». La soluzione, probabilmente, sarà apportare modifiche all’orario oppure puntare tutto sul ‘modulo’, eliminando la compresenza degli insegnanti. «Avranno pure congelato la riforma Moratti, che anche a me non piaceva – dice Rastelli – ma in questo modo esce dalla porta e rientra dalla finestra». I genitori si lamentano? «Moltissimo».
La questione dell’handicap
L’87mo circolo è una scuola famosa per accogliere un alto numero di bambini con handicap «a volte anche molto gravi». Quest’anno sono 39, ma l’anno prossimo saranno 44. E anche su questo fronte, piuttosto delicato, il taglio è stato impietoso. «Una volta, nei casi più seri, veniva garantito un rapporto 1 a 1. Il bambino diversamente abile aveva il suo insegnante di sostegno per tutte le ore in cui stava a scuola», spiega Zene. Quest’anno, ma è un trend che va avanti da anni, gli insegnanti sono uno ogni quattro alunni. «Significa che ci sono bambini che possono usufruire del sostegno soltanto per 11 o 12 ore alla settimana, a fronte di una presenza di 40 ore in aula».
L’unico aiuto «extra didattico» viene dai dipendenti del Comune, i cosiddetti Assistenti educativi, che si occupano di aiutare i ragazzini con handicap nelle loro funzioni fisiologiche. Per tutto il resto del tempo restano in classe da soli, in compagnia della maestra e dei loro compagni di classe, ma senza poter svolgere compiti e attività a loro dedicati. Il taglio è stato operato grazie anche a un «ritocco» ad hoc dei requisiti per poter chiedere l’insegnante di sostegno, un intervento preso dall’ex ministro Moratti con una campagna a tambur battente contro gli «sprechi»: avrebbero richiesto l’insegnante di sostegno anche ragazzi che non ne avevano bisogno. Sarà vero, ma il risultato è che i codici sono stati cambiati in modo da far apparire tutti gli handicap meno gravi di quanto fossero considerati prima. «Da un anno all’altro – spiega Rastelli – sono tutti migliorati. Un miracolo». E anche questo la maestra lo dice senza ironia.
(1 – continua)
le risorse
è questo il vero problema!
mancano sempre!
Cara Cinzia,
scrivi senza lagnarti, complimenti.
Non è detto che per affrontare:
– l’aumento degli studenti;
– i corsi di sostegno per gli studiofobi;
– il problema della lingua italiana per i non italofoni;
sia opportuno solo ampliare, assumere, regolarizzare tutto.
Perché non pensare a una riduzione (meditatissima) delle ore di frequenza settimanali? La formazione ormai non si fa più soltanto in aula. Se costringi un sedicenne a stare sei ore prigioniero dentro un banco è probabile che sbulli. Figuriamoci un bambino.
Asciugare le ore di lezione potrebbe servire ad aumentare l’attenzione. Mi dirai: e come recuperiamo per far quadrare i conti del programma scolastico? Risposta: e-learning. Formazione a distanza. Ci sono più studenti che docenti, tra gli italiani che sanno usare il computer (Indagine Assinform del 2006).
Mio cugino, quand’è nato, l’hanno chiamato down, ma io so solo che a cinque anni era un diavolo con il pc, e se giocavamo alla PS mi faceva un culo così. Ormai lo scatolone di Bill Gates è diventato un elettrodomestico diffuso quasi quanto la televisione. Figurati che qualche giorno fa qui su NI si parlava di “famiglie informatiche”.
Quindi perché non diffondiamo l’e-learning e la Formazione a distanza per razionare e migliorare la valutazione dello studente (compiti a casa, test di autovalutazione, tutoring on line). Avremmo più tempo per le pratiche, i contenuti e le spiegazioni in classe. E FUORI dalla classe.
Ti lascio con un piccolo grande dato. Negli ultimi cinque anni, il mercato italiano della didattica a distanza è cresciuto in maniera lillipuziana rispetto all’investimento che le aziende hanno fatto nello stesso settore. Tipo nove a uno. Per le aziende, naturalmente.
Continuerò a leggerti,
Grazie e buon lavoro
Un saluto