Coming Attractions: Venticinque minuti di cinema puro
di Rinaldo Censi
Venezia
In Somewhere, Stephen Dorff posa per la promozione di un film. Sono scatti pubblicitari, per un prossimamente su questi schermi, una coming attraction. Di queste espressioni automatiche, pavloviane, resterà solo il momento apicale: il sorriso, dritto negli occhi della macchina fotografica, espunto da tutto il resto (i tempi morti, le facce lunghe o perse nel vuoto). Al cinema, in pubblicità, funziona così: ci sono gesti automatici che vengono ripetuti, uno di questi resterà nel film, sfrondato da tutte le esitazioni che lo contornavano, destinate alla spazzatura.
Il magnifico film di Peter Tscherkassky, Coming Attractions, si muove in senso inverso. Come Kurt Schwitters, Tscherkassky recupera dalla spazzatura i rushes di alcuni film pubblicitari e ne ricava una sorta di commedia puntuta, un saggio che indaga i legami tra le “attrazioni” del cinema delle origini e l’avanguardia degli anni ’20, trovando appunto un residuo di questi due momenti nei film pubblicitari. Diviso in capitoli che giocano già dal titolo con alcuni celeberrimi film delle origini o d’avanguardia (Cocteau, Léger, Birt Acres, Méliès, Lumière), Coming Attractions si muove indagando i gesti e le espressioni ripetute di questi figuranti, soffermandosi soprattutto sullo sguardo in macchina, uno dei momenti più esemplificativi della dimensione attrattiva del cinema delle origini. Prima che Griffith affinasse e portasse a compimento attraverso il montaggio la struttura “lineare” di una rappresentazione istituzionalizzata del racconto cinematografico, poteva capitare che una figura sullo schermo interpellasse improvvisamente lo spettatore, guardando appunto dentro l’obiettivo della macchina da presa, come i maghi scombinati di molti film di Méliès. Attrazione significa dunque emersione improvvisa, istante esplosivo, inaspettato. Di derivazione teatrale (vaudeville, burlesque: Majakovskij e Eisenstein la praticano) l’attrazione trova terreno fertile nel “cinéma integrale” dei primi anni ’20. Peter Tscherkassky, mago della rielaborazione ottico-chimica dei fotogrammi, è ben conscio di questo. Prolunga questa scia attrattiva, ricercandola nei gesti di modelle della pubblicità, nelle loro esitazioni, incrociandola con un lavoro furioso sulla pellicola: bianco e nero, errori fotografici, esitazioni, uso del negativo, perforazioni ben in vista, solarizzazioni, sovrimpressioni, cubismo, surrealismo (l’asciugacapelli a cuffia incontra il sassofono sul telo dello schermo), lavoro di collage colloidale, stratificazioni improvvise delle immagini: è la lezione di Man Ray, e di molti altri artisti che hanno lavorato con le immagini mobili.
Uno dei capitoli di Coming Attractions si intitola “Due minuti di cinema puro”, in onore di Henri Chomette. È un momento convulsivo, erotico, in pura perdita, di grande amore per il cinema. Peter mi dice che i rushes dei materiali erano a colori e avevano rossi esplosivi, blu profondi. Dice che con quelli vorrebbe comporre una versione a colori del capitolo, una nota a piè di pagina del film. Un’altra coming attraction dunque? Ovviamente. Sì.
L’articolo è apparso su «il manifesto» del 12.09.2010.
I commenti a questo post sono chiusi
Che dire, luminoso! Grazie per averlo condiviso.
Mi piace segnalare che il film di Peter Tscherkassky ha vinto il premio per il miglior corto della sezione Orizzonti del Festival di Venezia.
“mi piacciono i film fatti senza produzione, anzi, i film che amo di più sono quelli fatti senza macchina da presa”
è una frase di Tscherkassky? Ad ogni modo la condivido in pieno
[ grazie ]
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