Hong Kong > parte seconda
di Paolo Pecere
In seguito alla scelta del silenzio, come era inevitabile, Ricci venne lentamente dimenticato. Eppure la sua dimora è ancora lì da qualche parte, e alcuni allevatori ladakhi occasionalmente lo incontrano, e gli donano dei vestiti per sostituire i suoi ridotti a stracci bagnati. Non si parla più da anni di Ricci, ma io – scusate l’espressione – ho deciso di andarlo a cercare. Il che non poteva che richiedere molto tempo. La cosa potrà apparire strana, tanto più se si pensa che all’epoca ero fidanzato con una ragazza splendida e dolcissima, che voleva avere dei bambini, e che ho dovuto lasciare, perché non sapevo se sarei tornato. O forse, la cosa potrà apparire strana proprio perché interrogarci con radicalità sui presupposti della nostra vita, piuttosto che ciabattare tra le faccende quotidiane, appare strano, e richiede un distacco vero. Non è comunque il mio caso, devo dirlo onestamente, perché io avevo almeno un altro buon motivo, molto meno filosofico, per cercare quell’uomo. Mia madre è l’infermiera taiwanese che Ricci aveva lasciato a Hong Kong all’epoca della sua partenza per l’America. Con me in braccio, lei si era trasferita a Roma, dove viveva un cugino di Ricci che l’aveva aiutata a trovare un lavoro di cameriera. E quando, molti anni dopo, le avevo domandato se le foto del ragazzone biondo che conservava nel nostro appartamento avessero qualcosa a che fare con il mio padre assente, lei si era d’un tratto immedesimata nel nostro frigorifero, tutta un lamento ronzante, piena di alcolici. Del resto i miei capelli chiari, e le braccia lunghe, non li ho presi da lei, come pure quel sorriso che più provo a tirarlo, più appare triste e lascia le ragazze disarmate. Così ho preso l’aereo per New Delhi, e la coincidenza per Leh, la capitale del Jammu-Kashmir, dove ho bevuto per la prima volta il nauseante tè al latte che sarebbe stato di là in poi la mia bevanda quotidiana. Da lì ho preso la corriera che porta verso la valle dello Zanskar, e ho comprato un’attrezzatura approssimativa con i soldi che mi restavano, e mi sono incamminato tra i sentieri sassosi, poi lungo il ghiacciaio. Per alcuni giorni tutto assomigliava ancora all’avventuroso trekking di un entusiasta male assortito. A un certo punto del cammino ho incontrato un uomo su un mulo, che mi ha indicato dietro le mie spalle, che mi ero perso e dovevo tornare indietro. Per terra c’era un teschio di caprone e dei sassi ammucchiati. Dopo due giorni ho perso la camera digitale. Dopo tre giorni ho perso il bastone che mi è semplicemente scivolato di mano senza che me ne accorgessi. Ho visto le marmotte giganti e le capre deformi di qua e gli yak. Poi ho smesso di contare i giorni, e sono andato avanti, con un fortissimo bruciore allo stomaco, mentre il cervello recalcitrante si abituava all’aria poco ossigenata. E a un certo punto vedo un altro uomo, che si muove sul pendio ghiacciato, più di lato. Sta piovendo e l’aria è colorata di un grigio intenso. Il mondo è un sacchetto di nebbia che si scuote e si dilata producendo sfumature sorprendenti. Lo scenario dei monti intorno sembra uno spettacolo di cartapesta, e rimango per un po’ sul pensiero che, se non fossi qui, nessuno lo vedrebbe. Mi avvicino e vedo che l’uomo è fermo lì, avvolto in un k-way nero, da cui emergono dei pantaloni molto larghi, e sopra ha una specie di cappello da pescatore, sotto cui spunta inequivocabile una pennellata di giallo. Sono a venti metri e mi accorgo che sta cincischiando con una videocamera poggiata su un cavalletto, che secondo me è spenta. Scaccio via le lacrime e avanzo, finché non mi accorgo dei leopardi. Uno è là vicino, e cammina lentamente muovendo la coda, ficcando il naso nella neve come se cercasse qualcosa. I due piccoli sono più vicini all’uomo. Non mi fermo e arrivo a cinque metri da lui, che mi nota. Accenna la caricatura di un sorriso fotogenico. Abbassa lo sguardo. Lo rialza. Si volta. Continua a preparare le sua ripresa, quasi vola via per una folata di vento gelido, poi mi fa cenno di avanzare, come se ci fosse una casa in cui accomodarsi. Delle parole sconnesse mi arrivano in ritardo, quasi che l’aria rotante le portasse nella sua risacca. Vedo che sta parlando, che non ha mai smesso di parlare. Solo quando mi avvicino a un passo da lui, alla fine, serra la bocca. Mi stringe la mano e torna a darsi da fare. Aspetto senza sapere cosa fare. Poi mi fa cenno di seguirlo. Mi porta lontano dai leopardi, verso una tana ricavata in una gigantesca fessura nel fianco della montagna. Senza preamboli, mi ha accolto come un compagno silenzioso. Ha capito chi sono, dopo un po’ che lo ripetevo. Ma il suo comportamento non è cambiato granché. E’ stato da subito gentile e sorridente. «Siamo al terzo anno della spedizione del leopardo», ha detto. «C’è solo un uomo che ha deciso di fare questa cosa. Io». Si è presentando con me come «il protettore delle montagne». Mi sono unito a lui per un po’ in una ricerca senza né capo né coda. Mi ha chiesto di aiutarlo a girare dei video, in cui parlava con il pubblico, rivelandosi simpatico come un ragazzo che potresti incontrare per strada. Parlava la mia lingua, non una specie di gergo da santone. A volte si arrabbiava a morte e cominciava a imprecare contro i nemici della natura. A volte si metteva a piangere. I suoi nemici e i suoi amici erano senz’altro immaginari. Ma, così mi convincevo, meno i suoi nemici erano reali, più aveva ragioni da vendere. Abbiamo seguito pallide tracce puntiformi sulla neve, studiato escrementi, carezzato rocce. Siamo stati colpiti da grumi di neve che il vento ci sbatteva addosso come pugni, e che a manciate ci scivolavano sotto il collo, sciogliendosi in rigagnoli che dal petto vanno a bagnare l’inguine. Due volte ci siamo ricongiunti con l’animale, che lui dice di conoscere da quasi dieci anni. L’ho visto avvicinarsi molto lentamente e farsi carezzare dall’uomo (filmando tutto con una videocamera digitale). Il tutto sarà durato più o meno una settimana, la settimana bianca!, ho pensato incredulo. Quando poi ho capito che mi trattava come un operatore e un testimone, continuando a parlare da solo, ho deciso di dirgli che dovevo andare via. Era una sera nevosa, e sedevamo nel silenzio ovattato della grotta. L’unica luce era un torcione elettrico steso sotto un lenzuolo cerato. Percepivo la tensione di una quotidianità familiare, qualcosa che con lui non avevo mai provato, e che l’asperità del freddo e degli stenti mi impediva di mettere a fuoco come avrei voluto. Ricci puzzava, ma evidentemente non se ne rendeva conto. Così come aveva perduto l’abitudine di parlare con un altro uomo: dovevo ammetterlo. Per questo dovevo forse perdonargli tutto? Lentamente, come se solo in quella durata statica vedessi oltre un velo protettivo che non sapevo di aver sollevato, mi resi conto di cosa era accaduto, che ero lì vicino a lui, e ritrovai le fantasie che avevo ripercorso tante volte. C’era l’idea di ucciderlo, e nessuna circostanza sarebbe stata più appropriata. Chissà perché, avevo sempre pensato che ci saremmo rincontrati a Hong Kong. Lui sarebbe stato un sessantenne sfatto (la mia paura di incontrarlo mi faceva proiettare la scena a una distanza di più di dieci anni). Il successo ormai dimenticato, i soldi quasi tutti spesi, da tempo stretto tra una solitudine assoluta e squallide relazioni sessuali a pagamento. Lo avrei avvicinato e avremmo fatto un giro tra le strade che non avevamo mai percorso insieme, poi l’avrei accompagnato nell’albergo dove alloggiava, su una traversa di Nathan Road. Là ci sarebbe stata una conversazione finale, un paio di battute dure urlate a denti stretti, poi l’avrei finito con un coltello. In altre versioni, io ero con una ragazza che mi amava davvero, un tipo non troppo incline alle fantasie, terreno, che mi aveva accompagnato a cercarlo. Anche qui finivamo nella sua camera d’albergo. Sorridevamo raggelati alla vista dei poster pornografici e del leopardo di peluche sul letto. Ci sarebbe stata una colluttazione, ma non lo avrei ucciso. Gli avrei rotto il naso e sarei andato via lasciandolo là, a pensarci su. Una volta la fantasia mi si era rivoltata contro in sogno, ed era lui ad accompagnare noi due nella nostra camera in un ostello a buon mercato, dove io lo aggredivo ma avevo la peggio: e dopo avermi rotto il naso mio padre ci chiudeva a chiave dentro e, prima di andarsene a passi silenziosi nel corridoio, ci urlava stridulo da dietro la porta: «non avete mai saputo fare un cazzo!». Avevo cercato allora di rimodulare il progetto secondo i canoni tranquillizzanti della più becera fiction americana: dopo la violenta scazzottata rotolavamo sudati e lividi sulla schiena, e ci volevamo bene. Scacciai queste sgradevoli fantasie, battendo i piedi per il freddo. Fissai lo sguardo sull’uomo rannicchiato nella penombra, che stava asciugando via il ghiaccio da una fotocamera. Le domande mi salirono quasi alla bocca, che cominciò a tremare. «Sei un quarantenne che sta perdendo le sue abilità, sei un’occasione sprecata, forse stai sfuggendo da qualche segreto e significativo dolore: è per questo che mi ignori? Ma chi sei, sei un grand’uomo che non aveva spazio per me, tu stesso il veicolo di un’ispirazione superiore, o sei semplicemente un debole e un falso? Devo inchinarmi e cercare nel mio sangue il morbo sacro delle tue visioni, o indignarmi, e decidermi a fartela pagare (ma si può forse riscattare qualcosa per compensare le immonde carezze delle maestre il giorno della festa del papà? Per le colazioni rimasticate con il senso di un errore cosmico piantato nello stomaco e uno sgorbio disegnato sulla faccia? Per l’indolenza distruttiva delle domeniche mattina passate a camminare per la città con il walkman? Per i temporali primaverili che esplodevano all’improvviso, mentre sul motorino facevo il pony express per un take-away cinese? La mia energia che esalava rabbiosa dal naso bagnato, per sempre). Perché non hai mai voluto sapere nulla di me? Perché hai accarezzato quei bambini sporchi e hai ignorato il figlio della cameriera? Perché hai curato quegli orfani indiani e a me niente? C’è un motivo segreto, infimo, banale, il granello che fa deragliare un treno? O avevi almeno qualcosa di importante da fare? Sei forse una specie di Gesù Cristo idiota, o ti ci credi? E ora, che stai qua a filmarti, questa opera tanto importante la stai ancora facendo – e allora si capisce che non puoi abbracciarmi – oppure è già finita, e stai evitando di dichiarare che era tutto un fuoco fatuo? Di ammettere che non c’è nessuna storia, ma solo una vicenda privata mancata e un numero da circo che non interessa più? La tua bocca storta e carnosa, che assomiglia alla mia, mi disgusta. La tua è appena un po’ più in basso, calata verso il fallimento. Eppure io non sono stupido, e so che purtroppo questo personaggio irritante e questo corpo rivoltante è mio padre, e potrei improvvisamente trovarti simpatico e inimitabile, e desiderare di portarmi in giro orgoglioso la tua figura restaurata. Se solo ti decidessi a parlare». Perché io non ci riuscivo. L’unica cosa che mi riuscì di dire era che avevo studiato al liceo scientifico, e che poi mi ero iscritto a fisica, per un paio di anni, prima di lasciare. Ricci ci pensò un po’, e mi rispose questo: «Avevo un amico, in Francia, un fisico che faceva il dottorato. La sua ricerca era assurda. Vedi che la terra è irregolare, monti e vallate. Ma la gravità si misura di solito rispetto a masse sferiche. Allora, per quanto riguarda la regione più prossima alla superficie, bisogna calcolare delle variazioni, che dipendono dalla scorza irregolare dei continenti, per cui una montagna che spicca sul livello del mare ti attrae sommando questa piccolissima forza a quella di tutta la sfera perfetta della terra, che sta sotto la superficie frastagliata. Ecco, questo mio amico calcolava queste variazioni, queste aberrazioni. Capisci? Un dottorato in fisica! È pazzesco, io non posso buttare il mio tempo così! Hai fatto bene a lasciare». Così, con queste parole, mio padre mi diceva, ora, che avevo fatto bene a abbandonare gli studi: a me che per anni avevo lasciato cadere i miei brandelli in attesa che qualcuno dicesse qualcosa, mentre decretavo le mie rinunce in un silenzio funebre (ultima tra tutte la splendida ragazza che amavo davvero e con cui non ebbi un figlio). Il sacrificio di me indegno. Il mio segreto olocausto. E gli amici invano scuotevano la testa. Annuendo incredulo presi la mia decisione, reprimendo ancora tutta la mia rabbia come solo l’uomo molto esercitato sa fare. Quando gli ho detto che dovevo andare ha taciuto per qualche giorno, continuando a dividere con me del riso che si procura dagli allevatori che transitano più giù, sotto i cinquemila metri. Alla fine ha acconsentito a scendere giù fino a Leh. Prima di partire per la discesa, mentre lui andava «alla toilette» dietro un roccione, ho sfilato dagli anfratti della grotta il suo manoscritto, che avevo trovato quasi subito nelle mie perlustrazioni notturne, e l’ho sepolto nel fondo del mio zaino. A Leh abbiamo trovato tavoli su cui si serve birra. Ricci guardava la birra nel bicchiere come fosse un fenomeno misterioso. Eravamo in un ristorantino tibetano, una specie di piccola cantina con un poster di Lhasa e il suo palazzo abbandonato, e camerieri bambini dalla faccia tonda e bruciata dal sole. L’ambiente era abbastanza surreale. Una giovane occidentale con lo zaino si accalorava parlando con un tizio kashmiri, mentre brandiva un libro che vidi essere l’edizione Penguin del Romeo and Juliet di Shakespeare. Mi accorsi che, sotto il tavolo, il kashmiri teneva un lunghissimo coltello ricurvo sulle gambe. Ricci pareva intorpidito e a disagio, anche se sorrideva immobile. Stavo per domandargli qualcosa, cercando nei suoi piccoli occhi azzurri un momento di sosta e di riposo, quando mi sono accorto che mangiava a fatica. Come mangiava quest’uomo: in mesi di studi, non me l’ero mai chiesto, in quei pochi giorni nel gelo dei monti, non l’avevo mai notato. E ora me ne rendevo conto, con un moto di orrore. Mangiava con disagio. Allora, come se quel particolare servisse a riportarmi con i piedi per terra, ho realizzato la sua distanza, e ho sentito rispondere una distanza identica, come un’eco, in me. Era lontano da me, dalla gente che armeggiava tra le stoviglie sui tavoli, lontano da tutto. Nulla che io dicessi o potessi dire avrebbe mai colmato questa lontananza remota, aggiungendo qualcosa alle conclusioni che lui aveva tratto evidentemente da tempo immemorabile. In questa distanza incolmabile, percepivo una sorta di grandiosità, come se, da una posizione privilegiata, dal suo palazzo di cristallo immaginario, Ricci davvero vedesse meglio qualcosa con cui noi qui ancora ci affatichiamo, e discutiamo, ricominciamo dopo colazione, ci proponiamo di ricominciare dopo il sonno. Era comunque una distanza che lo rendeva incapace di un autentico attaccamento e interesse a me che gli stavo di fronte, cosa che lentamente accettavo, fingendo di essere a mio agio e godermi la sbandata o chissà quale impresa, mentre in realtà pendevo dalle sue labbra che si limitavano a continuare stancamente un monologo su quanto fosse difficile e bella la vita che aveva scelto di fare, rischiando di morire tutti i giorni. «In qualsiasi istante, io potrei scivolare giù da un canalone, e allora non ci sarebbe nulla da fare… Una volta una tempesta di neve mi ha coperto con due metri di ghiaccio, e sono quasi morto congelato… Gli animali selvaggi possono decidere all’improvviso di sbranarmi, semplicemente per sfamarsi…». E la conclusione, ripetuta ancora e ancora: «Ma io amo queste montagne, e morirei volentieri qui». Come se non fosse ovvio, che ci sarebbe morto (mi accennò pure di una malattia, e a guardarlo c’era da credergli, per quanto si trattasse di lui). Constatavo con delusione che sentiva ancora il bisogno di esaltarsi e giustificarsi, anche se ormai avevo capito che non era questo il suo pezzo forte. Ma il suo pezzo forte era già stato messo in scena, e quell’attore, per quanto ancora capace di commuovermi e di suscitarmi un’illusoria edificazione, non era più all’altezza del suo nome, era come una di quelle rockstar che invecchiano e continuano a rifare gli stessi vecchi pezzi, semplificando qua e là, con sempre meno energia, sempre meno entropia, in un rituale stanco che infine diventa nostalgico e triste. Aguzzare l’ingegno e diventare il suo scaltro domatore, portarmelo dietro come King Kong per fargli aprire bocca in pubblico: questo era fuori discussione. L’unica cosa da fare era lasciarlo là. Lo accompagnai a un autobus, stringendogli un lembo di camicia tra le dita. Lo salutai con un sorriso di letizia sbiadita, lungamente preparato, ma non diverso da quello dei tanti cosiddetti amici che lo incontravano sempre più raramente sui monti, senza curarsi davvero di lui, mentre lui li ammoniva a gesti di non entrare nell’immagine che stava girando: perché la storia finiva con lui che era completamente solo.
Tornato a Roma lasciai passare un paio di giorni, aggirandomi nella mia stanza semispoglia di viale Libia, sui cui scaffali si trovavano ancora gli oggetti della ragazza splendida, che non voleva più vedermi. Poi il telefono squillò: «Sono Stefano Ricci». «Ciao papà». «Hai preso qualcosa dalle mie cose. Devi restituirmelo». Ero eccitato e felice. Così ero riuscito a farlo scuotere, svegliare, tornare al mondo civile. Lo immaginavo ridisceso a valle, che entra sbattendo la porta negli uffici, indossa giacca e camicia, accende i computer, compone numeri telefonici che ricorda a memoria dopo anni: e si mette sulle mie tracce. «Non so di cosa parli. Se vuoi venire a Roma…» «Io non posso venire a Roma, il mio posto è qui. Tu devi spedirmi il manoscritto, per favore, con un.. corriere che ti rimborserò, per favore. Oppure puoi portarmelo tu. Io..» Sarebbe dovuto venire a cercarmi, nel mio territorio stavolta. Immaginavo il suo sguardo sperduto nella giungla romana, mentre cercava di decifrare le fermate degli autobus. Automobilisti che gli dicono levati dal cazzo, tassisti che non si fermano e anzi accelerano, ragazzini con i jeans afflosciati che gli ridono dietro e lo mandano affanculo, barboni che gli chiedono l’elemosina sulla metro, mentre un bambino gli sfila il portafoglio dalla tasca, la denuncia del furto scarabocchiata su un bancone della questura, i carabinieri che lo pregano di tornare domani perché c’è riunione sindacale, e poi lo minacciano con la mano sulla pistola d’ordinanza quando lui protesta, e l’indomani lo aggrediscono di domande sulla sua data di nascita, gli dicono che ottenere un duplicato del documento in queste circostanze è impossibile, gli chiedono chi è, quale è il suo stato civile, quale la sua professione, infine lo prendono per uno sbandato e lo invitano a presentarsi alla questura generale, dove lui va a prendere il numeretto per mettersi in fila, e il tagliandino dice 457, e al momento lo sportello sta servendo il numero 63 e si tratterà di aspettare l’indomani mattina, per cui Ricci perde il suo già scarso autocontrollo urbano e comincia a imprecare per la strada, e le mamme con i bambini e le buste piene di regali fanno il giro largo per non passargli vicino, finché non arrivano un paio di carabinieri in borghese che gli fanno un discorso umiliante, e magari lui reagisce insultandoli (lui che non ha mai saputo alzare una mano contro persona umana, ma una volta ha stordito una tigre con un pugno), gli dice «io sono Stefano Ricci, pezzo di merda!», e uno degli agenti mi evita l’esperienza conflittuale di spaccargli il naso: e alla fine il mio telefono di casa squilla. Immaginavo mio padre che chiede di me alla portiera del condominio di viale Libia, la quale gli fa un sorriso radioso. «…Per favore. Sono molto dispiaciuto di questa situazione. Io ti voglio bene, Stefano Ricci non ce l’ha con nessuno». Per un po’ non disse nulla. La comunicazione era disturbata. Me lo immaginavo che saltellava da un piede all’altro nella minuscola cabina del call center di Leh, che cercava di far ripartire i centri neurali della logica e del linguaggio da tempo in disuso, mentre il ragazzo annoiato vedeva il costo della chiamata che cresce. «Il manoscritto non ha valore, non è finito, ma è importantissimo che io lo abbia indietro. Se solo mi prometti di spedire questo pacco oggi stesso: ti aspetto all’aeroporto di Leh, ci vediamo. Parliamo. Io devo tornare al più presto nel mio luogo, io non posso stare qui, ti darò tutto quello che posso. Io sono malato, non posso muovermi, ho la febbre, ho una specie di febbre che non guarisce. Ci sei?» «Ti ascolto». «Forse, posso vendere le riprese e fare ancora dei soldi, se ne hai bisogno, molti soldi. Prendere un aereo è impossibile, gli impiegati sono intrattabili, e poi adesso non posso pagare il biglietto. E sono molto malato. Io.. sono molto dispiaciuto se ce l’hai con me, e ho molto apprezzato la tua compagnia, e hai fatto delle ottime riprese. Ascolta, ci sei?, possiamo fare una cosa importante insieme. Voglio mostrarti una cosa molto bella che ho scoperto quassù, voglio mostrarti il lago segreto dei…». Ho riattaccato il telefono di scatto. Nonostante le sue frasi ancora molto deludenti, mi sentivo un po’ meno peggio, e poi che cosa ancora? Ah sì, c’era questo slancio irriflesso, che assecondai. Cominciai a infilare la roba nello zaino ancora mezzo pieno. Lasciai l’appartamento senza lasciare traccia. Telefonai a un tizio che avevo conosciuto in aereo, mentre andavo in India, e gli chiesi ospitalità per qualche giorno. Poi distrussi la mia tessera telefonica. Il ragazzo era candido e gentilissimo, il tipo dell’alpinista solidale, e mi disse che stava per andare al confine tra India e Bhutan, sei mesi a cooperare: proprio la settimana precedente, a Delhi, aveva firmato il contratto. Insomma poteva lasciami la sua stanza in affitto, per questo periodo. La cosa divertente era che abitava anche lui in viale Libia, per cui avrei potuto forse osservare dalla finestra mio padre che impazziva al citofono della mia camera deserta, e magari decidermi all’ultimo momento ad aprire la finestra e gridare: forse sì, forse no. Il ragazzo partì per il Nepal e io rimasi in questa stanza spoglia a riflettere. Mi accostavo di tanto in tanto alla finestra. Cercai di valutare con calma. La conclusione fu che avevo una sola possibilità. Di mio padre non potevo avere notizie, nessuno aveva notizie, né le cercava, tecnicamente era considerato disperso. Realizzai che, avendo deciso di non fare più niente per cercarlo, non lo avrei più rivisto. Come un giorno era spuntato al mondo, così ora svaniva, senza dissolvenze o episodi rituali, senza che quell’ultimo giorno, come quello della sua nascita, fosse chiaramente determinabile. I filmati che mi ero portato dietro dall’India erano mediocri, l’audio quasi indecifrabile. Ero solo. Mia madre era ancora in giro, è vero. Ma mia madre, ingiustizia tra le ingiustizie, per me non è mai stata più che una pedana per spiccare il volo. Una mangiatoia, poi una base, un comodo attrito, qualcosa da lasciarsi dietro il più presto possibile. La detestavo rimproverandole crudelmente di averlo lasciato andare via senza fare niente, anni e anni prima che fosse troppo tardi. Una di quelle cose che a ragionarci si ridimensionano, ma ragionare non cambia certe cose. Avevo ancora una camera in affitto, un’altra ancora. Avrei potuto cercarmi un lavoro, una collaborazione, come si dice. Ma ora, come se avesse atteso quell’incontro per spuntare da una tana in cui aveva riposato pronta, sentivo quella distanza dalle cose e le persone che sbocciava e mi si allargava dentro, donandomi uno strano senso di angoscia sublime e superiorità. Darmi da fare per trovare un lavoro era fuori questione, semplicemente non ne ero capace, come avevo sospettato per anni, nonostante il buon curriculum. Ma finalmente ora, come se qualcuno mi avesse concesso un pubblico assenso in carta bollata, riconoscevo calmo questo dato di fatto: non era da me. Sul mio letto ancora sfatto dopo tanti mesi c’era però il manoscritto. Un’altra possibilità era: curarne l’edizione. Venire fuori come il figlio-di. Sedermi alla sua ombra di statua. Avrei partecipato a conferenze sulla vita e l’opera di Ricci. Avrei partecipato alla spedizione per andarlo a trovare, con elicotteri e telecamere. Avrei registrato il nostro ultimo dialogo a seimila metri, in una grotta. «Cosa sentivi?» «Questo e questo». «Perché…?». «Perché così e così». Avrei scritto la sua biografia autorizzata, poi un libro di memorie. L’avrei ripudiato, infangandolo con quelle verità che solo io potevo possedere, e in seguito l’avrei assolto, riscattandolo con quelle verità che solo io potevo conoscere. Se la sua fine soffocava in un anticlimax, un clochard delle nevi che non ha evidentemente più nulla da dire, restava l’indagine, infinita, sul suo inizio. Da dove è potuto venire quest’uomo, con i suoi pensieri che non capiamo bene? La stessa pomposità di dedicarvi una ricerca avrebbe rimarcato che c’era qualcosa di enorme da scoprire. La sua origine, come origine e primo senso delle cose che aveva fatto e detto, sarebbe stata anche la nostra origine, quel movimento scattoso da cui proveniamo e che si ricopre subito di false memorie non appena qualcosa di noi affiora. Il segreto di Ricci. Ecco, tutto questo – su cui ho lavorato ancora in questi ultimi giorni – era una concreta possibilità: ma non preferibile a un rapido e indolore suicidio. Una vita da epigono avrebbe infatti significato che la mia vita era già finita, sfregiata dalle stravaganze di quel disadattato responsabile del mio abbandono. Sarei stato un nano sulle spalle di un nano. La gente mi avrebbe guardato con commiserazione, bisbigliando commenti pietosi alle mie spalle. Mentre trascorrevano le ore in quella stanza guscio – non so quanto tempo sia passato, forse giorni – sfogliavo il manoscritto, e finii col mettermi a studiarlo a fondo. Nella natura: piuttosto disorganica insalata di appunti, declamazioni, molti dati approssimativi e ragionamenti sinceri, che avrebbe avuto un sicuro successo. Che coglieva da una distanza unica lo spirito miserabile dei tempi: opera ecologista, nietzscheana, fragile e rabbiosa, a tratti composta come il degno ultimo prodotto dell’antica università europea, in generale così dolce e folle da spezzare il cuore alle pietre. Lentamente passò il tuffo al cuore con cui sollevavo le pagine nelle prime ore, pensando che quei pensieri scaturivano da mio padre – la voragine senza fondo, il tenero bisessuale, l’incapace che aveva trovato una via di fuga – cercando risposte personali che, almeno in senso stretto, non trovai. Mi resi conto che non si trattava di qualcosa che avrebbe in qualche modo riempito il vuoto in cui da sempre sprofondavo, ma nemmeno delle farneticazioni di un hippie stanco con il cervello poco ossigenato. Le lunghe sezioni – «Il mondo dell’uomo», «Il mondo degli animali», «Ritrovare le direzioni di fondo, grazie a me», «Come proteggerci da noi stessi», «Come essere un fiore senza rinunciare al no» – di per sé erano didascaliche, infittite di passaggi interessanti e credibili, talvolta solo comiche e commoventi. Ma c’era un discorso di secondo livello, nascosto. Cifrato. Era come se, dicendo tutte quelle cose, Ricci stesse alludendo ad altro, consapevole dell’effetto delle sue parole sul lettore. Era come se il testo silenziosamente dicesse: «tu, dico a te, che stai leggendo queste pagine morte, tu pensi questo e quest’altro, ti rinserri nella tua sicura distanza critica, lo so, e ora ti spiego come faccio a saperlo, poiché so come funzioni, lo so a memoria come conosco la strada di casa: ma sappi fin da ora che, senza rendertene conto, ti è accaduto di ricevere un secondo senso, che ora è in circolo in te, più profondamente penetrato nella faglia tra la tua ragione e quella moltitudine di animaletti che stanno dietro alla facciata che chiami io, mentre è come se tu fossi piombato, fin dalle mie prime righe affascinanti, in uno stato di ipnosi, incantato dalla mia figura forte, commovente e stupida, non a caso ma proprio perché io ero questa figura folle, forte e capacissima di ragionare e anche di non farsi uccidere da un leopardo delle nevi, ma comunque fallimentare. E adesso (intorno a pagina 300), il libro ti rivela il codice segreto, dunque svegliati, ciaao!, non volevo ingannarti credimi, ma ti ho tenuto tutto il tempo stretto tra le braccia, e credimi ti amo, sei qualcosa di splendido e unico e voglio che tu sia libero, e ora guardati, guarda cosa hai pensato leggendo il senso letterale delle mie parole, guarda cosa eri, e perché, e capisci davvero qual è il messaggio. Va». Se lo capivo io, anche gli altri avrebbero capito, ed era semplicemente geniale: il libro che oltrepassa il libro e entra nella tua carne e te ne dà una ragione, stampandosi sapientemente là dove nessuna delle grossolane impressioni e suggestioni che l’uomo ha finora incontrato, autoprodotto e tramandato, è mai potuta giungere. L’autore di quel libro era uno Zarathustra che aveva lentamente costretto la sua irruenza al silenzio, iscrivendo il suo messaggio nelle trame logiche di un Gödel. Capii che la soluzione era una sola. Sarei stato lui, un’altra volta, diversa però. Avrei pubblicato l’opera, ma a mio nome. Quello era l’inizio. Il libro era la miccia essenziale, ma la gente vuole l’esplosivo. Avrei fatto della mia vita uno spettacolo infinito. Sapevo farlo, non me lo aveva insegnato mai nessuno, ma sentivo di avercelo nel sangue, già il diagramma del piano si disegnava nella mia mente con la naturalezza di un movimento sapiente e familiare. Quel rotolo di fogli macchiati è quanto mi hai lasciato, al posto di vegliarmi di notte mentre stracciavo le coperte e pagare i debiti incalcolabili che hai con me. Avrei tradito il tuo spirito?, per incomprensione, rabbia, per il fatto stesso di rivolgermi ancora ai miei simili con quel testo che non voleva insegnare niente? Che importava. Non avendo avuto un padre – ma un vortice che mi risucchia mentre provo a nuotare – avrò ben il diritto di estrarre dalla sua carcassa silenziosa le parti più efficaci per la mia vita restante. Le più efficaci. Un marchio impresso e la sua cancellatura: la somma di queste due azioni non è zero. Per tutte queste ragioni, dunque, tutti i frutti delle mie ricerche, compreso questo, dovranno adesso essere distrutti.
Non so. Funziona fino a quando, da documento, diviene racconto in prima persona. E’ scritto benissimo, però c’è qualcosa di troppo. Ricci è un personaggio meraviglioso sino a che non compare. E da bi a tridimensionale perde parecchio.
E’ solo un’opinione, naturalmente.
(PS Ma internet era davvero già così diffuso alla fine degli anni Ottanta? Siamo sicuri?)
La prima metà della prima parte è perfetta, poi si comincia a sorridere, c’è troppa roba, ma l’inizio, devo dire, è molto convincente. A levare un po’ di esagerazioni e a lavorare più in profondo potrebbe diventare una storia affascinante. Anche se Cuore di tenebra è già stato scritto.
Sono d’accordo anche con Frascella, qui sopra, il passaggio alla prima persona gli nuoce, si vede che il personaggio non ha un grande spessore.
Com’è che non prende i commenti?