Hong Kong > parte prima
di Paolo Pecere
Stefano Ricci è il medico che, fino al 1982, ha sostanzialmente rivoluzionato gli studi di immunologia virale e oncogenesi, ponendo le basi teoriche per le più promettenti ricerche sulla realizzazione di nuovi vaccini per affezioni virali nell’uomo come l’epatite B e l’AIDS. Gli studi sulla sua opera scientifica, bruscamente interrotta nel 1983, sono numerosi, e si distinguono nettamente, come capita di consueto, dagli scritti agiografici sulla sua vita successiva. Questi ultimi sono pochi, scarsamente documentati, inclini alla mitologia da quattro soldi. L’attenzione per la figura di Ricci è cominciata alla fine degli anni ‘80, in un periodo in cui il bisogno di eroi credibili non corrispondeva più da tempo all’offerta culturale. E dato che, sempre per una sola volta, molti continuavano ad avere quindici anni, si raschiava il barile dei cantanti drogati (forse perché il rantolo disarticolato era l’espressione più diretta dell’ansia sgangherata di quegli anni). A quell’epoca, Ricci aveva da poco pubblicato il volume di denuncia con cui ha raggiunto una prima notorietà al di fuori degli ambienti scientifici. Deluso dal litigioso e scarsamente finanziato mondo della ricerca e dalle discussioni improduttive sull’applicazione delle sue ricerche, aveva deciso nel 1983 di dedicarsi alla cooperazione in Niger. Così aveva chiesto un congedo anticipato all’istituto Pasteur, dove era approdato giovanissimo dopo la formazione universitaria in Italia. Era il primo di quattro anni di devastante siccità nel deserto del Sahel. Ricci aveva lavorato per due anni e mezzo in Niger, contribuendo a programmi di sviluppo delle colture presso i Tuareg, i Peul, i Woodabe. Poi ancora in altri paesi dell’Africa soprattutto occidentale, per un totale di quattro anni. Dopodiché si era dimesso da ogni incarico, il giorno prima di essere formalmente espulso dall’organizzazione privata per cui lavorava. Nell’ultimo anno in Africa, infatti, Ricci aveva accettato di partecipare ad alcune spedizioni diplomatiche volte a stabilire nuovi rapporti di cooperazione tra paesi europei e governi africani, ai fini dello sviluppo sostenibile e delle varie riconciliazioni nazionali. Nel corso del viaggio, come è noto, Ricci si era dedicato a documentare le falsità e gli abusi messi in atto da diversi dirigenti di organizzazioni cooperative private, nonché da esponenti politici africani ed europei. Misfatti che avrebbero mostrato al mondo come a tirare le fila della cooperazione, al di sopra di giovani o semigiovani appassionati come lui, si nascondevano spesso uomini senza scrupoli, che si arricchivano discretamente e portavano avanti interessi imprenditoriali e politici personali, oltre a trattare la popolazione africana con diffidenza, sostanziale antipatia, sfruttamento (anche sessuale), spesso con malcelato e feroce disprezzo. Ricci scelse di non pubblicare un resoconto documentario accurato, ma i suoi diari, che contenevano anche alcuni dati e si riferivano ai materiali in suo possesso: testi, immagini, registrazioni audio. Ne emergeva anche che lui stesso, durante i tre anni in Niger, aveva vissuto, al pari dei suoi colleghi, come un sovrano in una villa coloniale: con servitori personali che dipendevano direttamente da lui, e continue opportunità di approfittare dei favori che personalmente poteva concedere ai suoi «compagni» e «informatori» nigeriani, opportunità che, divenute sistema, prevedevano come contropartita tutta una serie di obblighi personali non scritti, che costringevano Ricci di continuo a assoldare guardiani per proteggersi dai suoi precedenti inquilini. Le foto di una festa nella gigantesca villa di un alto dirigente della FAO, reminiscenti di un fasto imperiale che si era abituati a vedere solo a Hollywood, finirono sulle scrivanie di Roma e New York. Ricci raccontò anche di un collega giapponese che aveva costretto dieci ragazze del luogo ad abortire, dopo averle avute come cameriere o collaboratrici a tempo determinato. Il volume, pubblicato in Francia e subito tradotto in dieci lingue, ebbe un enorme successo popolare, soprattutto a livello giovanile. Piuttosto che screditare la cooperazione, riuscì a dirottare l’attenzione sui suoi meccanismi e problemi, innescando una pioggia di finanziamenti e una vera e propria corsa alla trasparenza delle organizzazioni governative e non. Le intenzioni dell’autore, che lo definì «una storia d’amore senza lieto fine», restarono comunque poco chiare. Sulla levatura morale della sua figura, come si dice, era comunque difficile dubitare. Ma al di là dei fatti noti, sono pochissime le testimonianze personali sul suo periodo africano. L’unico uomo che gli fu molto vicino, e che si può definire il suo ultimo amico, è il chirurgo polacco Krzisztof Gajos, che collaborò con Ricci alle dipendenze di un’associazione di medici volanti. Gajos raccontava che Ricci aveva imparato a pilotare un Cessna e in breve tempo era diventato capace di atterraggi quasi impossibili nei luoghi più remoti della Tanzania, del Kenya, del Congo. «Uno sterrato di 500 metri, in pendenza e con il vento contro, gli bastava a portare giù l’aereo. Lo ricordo così: un giorno che stavamo per atterrare e mi chiese di riprenderlo durante la manovra. Quella volta, come se il fatto di parlare in video creasse una distanza e lo rendesse disinvolto, mi fece qualche confidenza personale come mai era accaduto», ha dichiarato Gajos. «Ci incontravamo di solito alla fine dell’estate, quando i suoi incarichi lo lasciavano libero per qualche settimana (…) Ricci non parlava mai di sé. Ma sento che tra di noi si era creato un legame profondo. Lui mi trasportava e faceva da anestesista, io operavo: milze ingrossate, ferite profonde provocate in scontri tribali, amputazioni, ricostruzioni plastiche. Si interessava dei casi di epatite, cercava di convincere la gente del luogo a rispettare le più elementari regole cliniche per salvarsi la vita: non stendersi per terra con le infezioni, non nutrire i congiunti prima delle anestesie, prendere in considerazione il sesso protetto. Tutte cose che gli africani capiscono con grande difficoltà. Non l’ho mai visto perdere la calma (e non era facile). Ma in sua presenza si percepiva costantemente un sentimento d’urgenza. Era come se lui avesse costantemente presente l’orologio della vita, interrogandosi sulle possibilità effettive. Si lamentava spesso del fatto che i piccoli sforzi dei medici occidentali in Africa assomigliano più a testimonianze eroiche che a primi mattoni di un solido sistema sanitario. “Tutto è spettacolarizzato, o non esiste – disse una volta – La vera immortalità, ai fini pratici, si ottiene così. Per proteggere questa gente, bisognerebbe essere grossolani e rumorosi. Noi siamo precisi e silenziosi. In questo c’è una vanità religiosa, in fondo, maggiore di quella dei predicatori con le loro lagne ossessive”. Intanto continuava a decollare con il suo Cessna verso vallate inaccessibili, dichiarando calmo che avremmo potuto morire in ogni momento». Gajos lo definiva «… uno spirito incendiario, incapace di arrestarsi su un progetto avviato. Un giorno, dopo il passaggio di uno sciame di locuste, mentre ci aggiravamo sudati e indolenziti nella desolazione dei campi distrutti, vidi nei suoi occhi uno strano sguardo di sconvolta ammirazione. Ancora oggi, quando mi domando cosa pensasse, non so darmi una risposta». Dopo la diffusione dei diari, le denunce per diffamazione inseguirono Ricci, che nel frattempo aveva lasciato l’Africa. Nel 1989 era partito per il suo viaggio in Asia. Mentre si disinteressava delle cause che lo coinvolgevano, e rifiutava le proposte di diventare una penna d’oro del giornalismo occidentale, cominciò a girare l’Asia per osservare direttamente la bellezza e la miseria delle sue terre sconfinate. La cronaca e le immagini del suo viaggio comparivano su un sito internet che Ricci intitolò “Tourism low cost teenies ass”, per assicurarsi maggiori contatti sui motori di ricerca. Mentre Ricci si rifiutava di concedere interviste, il che innalzava a vette nebbiose il fascino della sua figura presso l’opinione pubblica occidentale, comparivano sui laptop di mezzo mondo i filmati delle sue visite ai bordelli di Manila e delle sue scherzose imboscate ai turisti in Borneo. Il suo volto avvenente divenne familiare a molti che ne avevano appena sentito parlare, o che avevano letto i suoi libri. Ricci aveva il fascino vulcanico di un ragazzone americano, tra Cobain (ci assomigliava molto) e Jackass (sport estremi come il bungee jumping e il parapendio erano l’unico divertimento che si concedeva). Aveva insieme – altro volto del suo evidente disturbo bipolare – una serietà funebre, una scrupolosità e una forza che lo rendevano credibile anche agli occhi di chi era più anziano di lui, anche solo per costringere a prenderlo in considerazione, e giudicarlo negativamente: un disonesto, uno svitato, un oltraggio, un «fenomeno biologico: merda» (“The New York Times”). Le speculazioni sulla sua bisessualità – il genio poliedrico, i lisci capelli biondi e la vocina da bambino, le occasionali compagnie riscontrabili dai suoi resoconti e dalle sue foto – prendevano per mano alcuni. Altri venivano attirati dal suo amore per i bambini e gli animali, continuamente coccolati e raccontati nel suo viaggio, in cui pareva che il mondo degli umani adulti fosse invisibile, come il colpevole di un antico crimine. Qualcuno riscopriva la sua opera saggistica degli anni ‘80 (aveva scritto e pubblicato a sue spese anche due libri divulgativi: Le concept de la guérison dans la médecine occidentale (Paris 1985), Love and Hatred in Tibetan Buddhism (Paris-Pondicherry, 1986)). Dopo una lunga malattia in Cina, Ricci giunse a Hong Kong nel 1990, insieme a un’infermiera taiwanese che aveva conosciuto in India. Nell’isola di Hong Kong, nei pressi dell’estremità sudorientale, si trova la sua ultima casa, sulle cui pareti sono ancora appese le foto di Ricci e dell’infermiera che nuotano nudi vicino agli squali, sorridenti. Si tratta di una di quelle villette immerse nella vegetazione tropicale in cui si sono ritirati molti cinquantenni inglesi, prima che l’isola fosse restituita alla Cina: si sono portati dietro i loro ricordi degli anni dei Rolling Stones e di Andy Warhol, un metodo di chitarra, le foto delle sorelle rimaste in Inghilterra vicino a loro quando erano ancora impiegati e frequentavano corsi serali di disegno. Ritirato in questa isoletta Ricci curò per breve tempo i suoi rapporti con l’occidente, lavorando alla costruzione della sua immagine di eroe atipico. Fornì informazioni contrastanti sul suo luogo e data di nascita per comunicare la propria assenza alle udienze che lo vedevano imputato. Da qui pubblicò il suo ultimo libro, tutt’altro che il migliore: un’antologia di testimonianze orali (e mai accuratamente controllate) di bambini vittime del turismo sessuale, incolonnate accanto a annunci hard presi da diversi siti occidentali. In questo periodo, pare che i momenti di depressione lo spingessero all’uso di droghe. Inviò un lungo videotape a una televisione che intendeva intervistarlo in cui lui, ferito e malato nella giungla malese, sedeva tranquillo parlando con una tigre, sostenendo di amarla. All’epoca le illazioni sulla sua dipendenza dalla droga, dopo esser comparse come sospetti seducenti, cominciarono a essere usate come argomenti di discredito. Un giovane scrittore gli inviò il manoscritto di un romanzo in cui si parlava di tossicodipendenza e immigrazione, pregandolo di aggiungere qualche commento. Sul margine Ricci aggiunse a matita frasi come: «Abbreviare, proteggere i bambini». «È vero. È duro. Ma questa è la mia vita». «Amo le vespe che si posano sui fiori e muoiono». Nonostante tutto, sfruttando la sua visibilità e la sua capacità di convinzione, Ricci riuscì a farsi mettere sotto contratto da diverse multinazionali per sponsorizzare un vero e proprio viaggio intorno al mondo. Fu l’ultimo contratto che avrebbe firmato. All’inizio del 1992, Ricci indossò la sua maglietta Nike, la t-shirt bevi pepsi, il cappellino microsoft, e partì in direzione dell’America Latina. Poco tempo dopo l’infermiera taiwanese partorì un maschio. Ma Ricci era già in Sudamerica, lontano dalle rotte turistiche, a farsi fotografare vicino a bambini col volto annerito dalla fatica e dalla terra, per poi far comparire le foto sul suo nuovo sito. Il viaggio doveva attraversare luoghi suggestivi previsti dal contratto, e ritrarre il testimonial vicino alla prima pietra della scuola che la raccolta di fondi doveva contribuire a far edificare, in nome di un marchio di caffè, e così via. Ricci si recò come previsto al primo degli eventi fittizi, in un paese del Messico, e fu ritrovato disteso su uno sterrato all’alba del giorno previsto per gli scatti, sussurrando frasi quasi indecifrabili su cui esistono solo indiscrezioni infondate. Le sole foto che circolarono – vendute a caro prezzo da un fotografo dilettante che si trovava da quelle parti – furono quelle di lui che veniva trascinato a braccia, dichiarando, a quanto testimoniarono diversi messicani, di «essere stato sul punto di fare qualcosa di ignobile». Successivamente ignorò il programma, e le tute Nike e i cappellini pepsi e microsoft vennero fatti indossare a bambini e vecchi disgraziati, negli angoli meno noti del continente. L’effetto fu deflagrante. Le immagini comparivano sui quotidiani. Non era quasi mai chiaro da dove provenissero, né Ricci le accompagnava con un corredo giornalistico di analisi critiche e parole incandescenti, come era avvenuto in precedenza. C’erano solo queste immagini, talvolta apertamente demenziali, talvolta gioiose (i bambini che si tuffano nel lago, in cui poco dopo vedremo galleggiare i bidoni arrugginiti), solitamente tese tra l’apparente innocenza dei bambini e di Ricci che si scambiano segni affettuosi e i circostanti scenari da incubo. Alcuni scatti fecero il giro del mondo: Ricci sorridente che allunga la testa tra le fauci del coccodrillo, mentre il piccolo messicano con le stampelle fa per applaudirlo. Ricci che porta in giro manifesti pubblicitari di moda nelle stradine più infernali del Cairo. Ricci vestito da tycoon che gioca a pallavolo con delle bambine seminude su un marciapiede diroccato di Bangkok. E la più celebre: Ricci che fa la foto ai bambini sorridenti nella fabbrica di scarpe in Indonesia, mentre un guardiano vestito alla occidentale gli punta un fucile al volto. Immagine drammatica, scattata in circostanze poco chiare, sulla cui autenticità si è congetturato inutilmente. Quel che è certo è che il viaggio, dopo aver attraversato diversi paesi dell’America meridionale, dell’Africa centrale e settentrionale, del Medio Oriente e dell’Asia Centrale, terminò nei pressi della Cina. Almeno, fin qui giungono le immagini disponibili. Nelle foto degli ultimi due mesi, Ricci non compare mai. Si è congetturato su una compagna, che lo avrebbe seguito per mesi scattando le foto, e che poi si sarebbe separata da lui. Comunque, tra l’agosto e l’ottobre del 1993, si sa che Ricci trascorse un periodo in carcere in Myanmar. Successivamente c’è un vuoto di notizie. Le spese legali vengono liquidate, forse con i residui degli anticipi conseguiti dagli sponsor. Ricci si fa versare i diritti dei suoi volumi su un conto indiano. Ricompare a Mumbai, nel 1994, dove lavora presso un orfanotrofio. Di questo periodo sono state raccolte finora pochissime testimonianze. Ricci non si limita a fare il medico volontario, ma cerca di dedicarsi all’educazione. Si racconta del suo enorme successo con i bambini, per i quali diventa una specie di padre affettuoso, e dei contatti sempre più difficili con gli adulti, soprattutto occidentali. Qualcuno lo vede leggere Tolstoi, qualcuno gli rimprovera metodi dittatoriali, la maggior parte di coloro che lavorano a stretto contatto con lui, per lo più suore indiane, lo elogia con rimpianto. Nel dicembre del 1997 si frattura entrambe le gambe in seguito a una caduta con il paracadute da cui si salva miracolosamente. All’inizio del 1998 assume un ruolo dirigenziale nell’asilo, e tenta di riallacciare dei contatti con l’occidente, presentando un progetto ambizioso di riforma degli istituti per orfani e cercando invano di ottenere enormi finanziamenti. Alcune star di Bollywood mostrano interessamento alla sua figura, viene proposto un musical sugli orfani, ma Ricci litiga ferocemente con il produttore che lo viene a trovare nel suo ufficio di Mumbai e tutto va in fumo. Nel 1998 lascia l’asilo, consegnando alla direzione, di cui è all’epoca l’unico membro, una lunga lettera di dimissioni in cui spiega di non riuscire più ormai a lavorare «per inserire i bambini in questa società di uomini e insieme desiderare amorevolmente il loro bene». Voci su una sua presunta (e conflittuale) pedofilia, come venne dimostrato con un’accurata indagine del governo indiano che assunse la guida dell’orfanotrofio, si rivelarono infondate. In ogni caso, Ricci aveva preso la via di quello che si sarebbe rivelato una specie di esilio tra i monti. Per qualche tempo, come sappiamo dalla testimonianza di una ragazza francese con cui aveva avuto una breve relazione, spostò la sua tenda dall’uno all’altro capo del massiccio Himalayano. Per un certo periodo presidiò il sacro monte Kailash, nel Tibet occidentale, sostenendo di esserne il guardiano inviato direttamente da Shiva. Come è noto questo monte è sacro a indù e buddisti, ma è attualmente minacciato dall’espansione turistica cinese. Si progetta addirittura di costruire un’autostrada lungo il kora, il sentiero di pellegrinaggio che circonda il monte, raggiungibile finora solo con tre giorni di duro cammino, e comunemente percorso dai fedeli in tre settimane di genuflessioni e allungamenti sul ventre. Dopo essersi fatto una reputazione presso i pellegrini, che cominciarono a portargli riso e focacce, Ricci sparì improvvisamente. Ricomparve in Ladakh (India settentrionale), al di sopra dei cinquemila metri, dove si era fabbricato un rifugio rudimentale. Aveva deciso di vivere con i leopardi delle nevi e gli altri animali che vivono intorno ai massicci quasi inaccessibili della regione del fiume Zanskar. A quell’epoca risalgono le ultime informazioni su di lui, riferite su siti di viaggiatori da parte un paio di saccopelisti olandesi che lo ammiravano. Si seppe che aveva lavorato per molto tempo a un manoscritto, che aveva chiamato “Nella natura”, di cui però non si sapeva nient’altro, perché all’epoca aveva deciso di non comunicare più con gli uomini: «ogni volta che parlo, filmo, scrivo, sento prodursi la menzogna e la doppia coscienza che ingoiano le mie parole. E allora. Non ho nessun messaggio. Questo posto è tutto quello che conosco e voglio. Anche questo, che dico ora, mi suona falso. Ma questo, questo che non potete vedere, questa creatura vicino a me, che ora si fida di me dopo tanto tempo, senza una parola, questo è forse insignificante per molti di voi, ma è vero. Stefano Ricci non mente più». Questa, più o meno, sarebbe la sua ultima dichiarazione pubblica in inglese, resa al saccopelista dalla pelle bruciata.
Cos’è, un nuovo Kurz?