PARDINI ALLA FESTA INDIANA

[il grande Vincenzo Pardini sarà alla Festa Indiana (domenica 30 alle 14: Provincere o morire); nel frattempo ci concede questo suo testo, nel quale ci si aspetterebbe che spunti da un momento all’altro uno dei suoi stupefacenti eppur veracissimi personaggi e/o animali]

TRE GIORNI DI VENTO

Non mi era mai accaduto di convivere per tre giorni con un vento così forte e pieno di echi. Folate pressoché ininterrotte. Una catena di immensi respiri, frammessi da suoni e lamenti. Venivano dalle gole dell’Appenino bianco di neve, stagliato nel cielo plumbeo. Nonostante quelle spire, le nubi persistevano compatte come marmo.

Non ho voluto sapere s’era tramontana, grecale o libeccio. Era vento e basta. Forte e sottile da entrare nelle minime fessure di porte e finestre e spalancare, come avesse avuto mani,  usci di stalle e metati. Neanche i cani volevano venire fuori dalle cucce. I loro sguardi imploravano di voler stare al coperto. Anziché uccelli, vagolavano nell’aria foglie di castagno; vecchie foglie del sottobosco, marroni e sottili volteggiavano,  innalzandosi senza meta. Momenti che la mia casa pareva investita da un ciclone. I vetri delle finestre vibravano,o forse era l’effetto ottico degli alberi che si piegavano, soprattutto quelli di mimosa, gialli di primavera, al pari di altre piante in fiore. Il vento li umiliava, li strattonava, li piegava: l’invasione di un esercito che s’approfitta dei deboli. Mi sentivo indifeso e impotente. Niente potevo contro una simile collera, se non pregare Dio che lo rendesse più assennato. Da lui investita, l’acqua del torrente a momenti straripava, uscendo dagli argini per disperdersi sul terreno arido; il gettito di quella che usciva dalle fontane si disperdeva nell’aria espandendo granuli d’argento, che tornavano a ricomporsi se calava. Un gioco di prestigio che nessun mago credo riesca a fare.

Divelto un embrice dal tetto del garage lo faceva rotolare sulla tettoia della legnaia, lasciandolo intatto; strappate una a una dalle travi le onduline della medesima, lo spostava sull’unica rimasta. Ma,  i suoi schianti e rimbombi parevano annunciare un’esplosione. Era quando non trovava vie di uscita, prigioniero, fra dossi e crinali; allora scendeva in basso, nella valle; poi, alla stregua di un felino che insegue la preda risaliva le erte, aggredendo quanto trovava. Mi giunse un repentino impilarsi di sonagliere. Era ormai scuro; con la torcia illuminai il cortile: la balaustra di mandolato s’era riversata sul cofano della macchina. Ne è uscita con qualche graffio. Ancora una grazia. La corrente elettrica se n’è andata. Spenta ogni luce. Scomparso il paese. Sembrava di essere fuori da questo mondo. Su un altro pianeta, di quelli dove si potrebbe finire in caso di catastrofe planetaria. Poniamo per uno spostamento improvviso della terra o per un rallentamento della sua costante corsa, quando tutti, schizzeremmo via come schegge impazzite, finendo chissà dove, forse anche su altri pianeti, che non sono come la terra, piena di colori e di armonie, ma stelle fredde, scure e disadorne e sbattute da venti siderali, a noi sconosciuti, ma che certo si contendono gli alti spazi che vanno verso l’infinito, agitando, di giorno, la grande luce e, di notte, il grande buio.

Il vento era infatti un rimbombo di note difformi. Pareva volesse raggiungere oceani  e galassie. A ciò pensavo nel dormiveglia, l’udito teso a quanto ancora poteva crollare. Una calma insolita, come il vento avvertisse i miei pensieri, voleva stessi quieto e ne ascoltassi  mugugni, strida, barriti e sogghigni. Cui, a brevi intervalli, si aggiungeva un lieve mormorare di avventori dentro una solitaria osteria di campagna, quando seduti attorno a un tavolo giocano a carte, sotto una luce tremula; giocano e mormorano qualcosa, tra imprecazione e preghiera. Il cielo permaneva nuvoloso; qualche saetta sfrecciava nell’aria; il tuono non erompeva: il vento doveva coprirlo o rintuzzarlo. Verso l’alba l’aria, da livida, è divenuta limpida; arcipelaghi di nembi ribollivano, disintegrandosi verso l’Appennino. Brillavano le stelle, che mi sembravano  occhi stupiti da un istantaneo risveglio: sbirciavano le gesta del vento.

Il giorno fu nitido sin dal mattino; a mezzodì, addirittura, scintillante. Il vento proseguiva a sibilare, senza però allontanarsi. Doveva contemplare se stesso: tetti scoperchiati, baracche abbattute, alberi sfracellati; un mio antico olivo era rimasto scapezzato dai rami maestri,  rotolati giù dai poggi. Agli altri oscillavano le chiome. Andatogli accanto, ho sentito emettevano sospiri e singhiozzi. A momenti, il vento sembrava essersene andato. Salvo tornare  d’improvviso, quasi stesse facendo una ricognizione. Nel tardo pomeriggio diveniva gelido e tagliente. Ho raggiunto il colle del tramonto sul mare: la linea rossa dell’orizzonte era sfiorata come da una polvere: il Tirreno in tempesta. Un attimo, di quelli che lasciano dentro sensazioni diverse, una sventagliata di luce l’ha illuminato. Il mare era un gigante che voleva impossessarsi del cielo, e afferrare il sole, forse con l’intento di spegnerlo nei suoi rigurgiti.

La notte, il vento ha cambiato di nuovo sinfonia: un tinnire di squille e di altri non ben precisati strumenti, che sembravano scaturire dai cespugli abbarbicati sui muri a secco degli uliveti:  palchetti di un teatro campestre. Sopraggiunta la sera, muterà ancora intonazione: un avvicendarsi di chitarre, violini  e tamburi. Nell’oscurità, allontanandosi,  ha emesso latrati, intervallandoli a fragori di risa. Prima o poi, avvertiva, sarebbe tornato.

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4 Commenti

  1. Io, che in questo periodo scartabello con la fantascienza, il noir e l’azione, leggo questo testo con una sorta di stupore. E’ come chi va in giro con auto popolari con la trazione integrale e l’impianto stereo con le prese USB anche nelle spalliere dei sedili e gli interni in plastica e vede d’un tratto una Mercedes del 1964 fuoriserie perfettamente conservata con gli interni in pelle e il cruscotto di legno di teck e la radio con le manopole e la sonorità calda. Lo leggo lentamente, per cercare di scoprire come accosta le parole e come crea il ritmo. Quando ero un ragazzo mi divertivo a imitare gli stili degli scrittori che amavo. Scrissi testi imitativi (che gli amici giudicavano perfetti – come imitazioni) di Kerouac, di Henry Miller e di Faulkner. Però non credo che sarei mai riuscito a imitare un testo come questo.

  2. Pardini è davvero inarrivabile, senza ombra di dubbio un moderno Faulkner della Garfagnana. La sua partecipazione a Castello in Movimento renderà la festa ancora più preziosa!!!!

  3. Ecco la leggenda del vento. Epico. Il vento entra nelle parole, nella mente, invade il mimosa della poesia, solleva oceani e galassie di sogni, tra deu parole, il silenzio soffia con il vento, un incendio della burrasca, la parola acuta piange gli ucelli della montagna, il ventofischia con gli strumenti della mente.

    Un testo in stato di grazia.

  4. lo stesso 30 maggio, Pardini sarà poi a Massa:

    Domenica 30 maggio alle ore 16, la Biblioteca
    Giampaoli di Massa ospita la presentazione del
    romanzo a due voci Non rimpiango, non lacrimo, non
    chiamo (Transeuropa edizioni) di Marino Magliani e
    Vincenzo Pardini.
    Con l’autore Vincenzo Pardini interviene Giulio
    Milani, editore del libro.
    Vincenzo Pardini, giornalista e scrittore, collabora da
    anni con “La Nazione”, “Nuovi Argomenti”,
    “Tuttolibri” e altri fogli. Autore di romanzi e libri di
    racconti, ha vinto diversi premi, tra cui il Pasolini per
    la narrativa e il Viareggio d’inverno. Le sue ultime
    fatiche sono questo insolito romanzo scritto con
    Magliani e la raccolta di racconti Banda randagia
    (Fandango).

    Scheda del libro
    Un romanzo a due voci. Due terre, la liguria e la toscana, di sensibilità e repertori linguistici contigui, insieme vicine e lontanissime.
    Gli emigranti, i contadini, i pastori, gli struggenti paesaggi rurali popolati di fantasmi e di storie senza tempo, sono i personaggi più incisivi che popolano le pagine di questo libro corale, cupo, potente, a tratti allucinatorio.
    Un assassino, fuggito da un penitenziario, è sull’altopiano. L’aquila insiste nei suoi voli. I giorni passano e un anziano del luogo e l’assassino si affrontano a fucilate. È un’estate rovente. Il toro si rende protagonista di scorribande che incutono paura e rievocano antiche storie. Il padrone, affetto da manie, non riesce a riportarlo nella stalla. Finché il
    toro non verrà catturato dalle forze dell’ordine. Tutto sembra essere risolto. Invece è l’inizio della tragedia.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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