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Il professionista e il dilettante

Una lezione di scrittura sulle lezioni di scrittura

di Sandro Veronesi

(Questa è la trascrizione di una lezione tenuta da Sandro Veronesi a un corso di scrittura presso minimum fax)

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Il problema di questi…chiamiamoli corsi, più o meno strutturati, è sempre il rapporto che si determina tra chi viene a parlare e chi va ad ascoltare. C’è tutta una teoria secondo la quale questi corsi sono inutili perché non si può imparare e non si può insegnare [a scrivere] ma molto dipende dall’atteggiamento di chi viene. Io lo so per esperienza. E mi sono reso conto che la qualità di un corso, di un seminario, di una serie di seminari su questo argomento è in primo luogo determinata dal progetto, da chi ci partecipa, dalla qualità degli interventi, ma anche dalla qualità dell’attenzione di chi partecipa. Perché capita di rado nella vita di passare due ore a parlare di cose che ci interessano tutti quanti qui presenti come la letteratura. Non lo fa la televisione, non lo fa la radio, non lo fa nessuno. Tendenzialmente nelle conversazioni private in terrazza se ne parla, ma non per due ore.

Mi sono reso conto molte volte che il cosiddetto allievo di questi corsi viene con un ingombro che è determinato dalla più che legittima aspirazione a dare visibilità al proprio lavoro. Un lavoro che già c’è, che già va avanti, magari da un po’ di tempo. Già uno è fortunato a vivere a Roma, per esempio, perché a Roma, in un modo più o meno istituzionale, si possono generare quelle condizioni per essere coinvolti a vario livello, con interlocutori credibili in progetti come questo. A Prato, dove son cresciuto io: niente. Uno scrittore in carne e ossa l’ho visto a Roma. Poi c’erano i corsi, ma chi li fa? Lì ci sono le sovvenzioni, il comune, la regione, però è roba da sottobosco, si sa, e per disperazione uno ci può andare. Ma è chiaro che non producono nulla. Sono solo utilizzo di danaro (anche poco), quelle rotelline che fanno funzionare gli apparati burocratici degli assessorati. Però in una città come Roma, in città con un po’ più di fervore, sono occasioni importanti.

Però c’è un atteggiamento ingombrante di tutto ciò che è venuto prima di quest’esperienza per uno dei cosiddetti allievi. Questa è una delle ragioni degli insuccessi dei corsi e dei seminari di scrittura: l’ingombro che ognuno porta e quindi la fatica che fanno a passare certe cose, che in realtà servono per bombardare uno stato di fatto. Uno stato di fatto vi ha portato qua e evidentemente è legato alla vostra aspirazione a scrivere e a pubblicare.
Che però, per l’appunto, si è determinato in assenza di questa esperienza. Naturalmente, io vengo qui, faccio un intervento solo e questo non può cambiare le cose. Però, ho intenzione di dare una serie di testimonianze, in fondo, nella speranza che queste attivino anche dei cortocircuiti di natura forse anche piacevole lì per lì.

Io alla Scuola Holden di Torino – dove ho insegnato e dove ancora ogni tanto insegno – avevo questa classe di ragazzi che stavano lì due anni (è un master) e li conoscevo, e costruivo via via un rapporto, e mi allargavo anche un po’ nella gestione delle ore. Un giorno mi misi lì a distruggere sistematicamente Smoke perché non mi era piaciuto, non mi era piaciuto strutturalmente. E naturalmente i ragazzi, non per piaggeria, ma per il semplice fatto che seguivo delle correnti, dei corsi, che avevo già preventivamente percorso con altri argomenti, mi seguivano nella distruzione di questo film che in quel momento era uscito e sembrava molto trendy. E poi Paul Auster– parlo di tanti anni fa – era l’autore di culto per tutti quanti. E io, soddisfatto di questa mia azione di demolizione di un film, un potenziale brutto modello che rischiava invece di sedurre molti di questi studenti che erano già sedotti da Paul Auster, finisco. Dopo di me c’è una lezione di Bergonzoni e io rimango perché mi piace Begonzoni anche se non ci si ricorda mai di quello che ha detto. Andai a bere il caffè, rientrai a lezione iniziata e lui stava facendo un peana di Smoke. Stava ricostruendo tutto quello che io avevo distrutto, da tutta un’altra parte e questi ragazzi erano a loro volta molto attratti da questa ricostruzione di Smoke. L’avessimo fatto apposta non ci sarebbe venuta così… Allora io ho detto: questa è una buona scuola. […] È stato un caso, ma una scuola che determina questi casi mette in condizione chi ci si è iscritto a ragionare con la propria testa. […] La diversità delle voci è uno stimolo fondamentale perché le persone si distanzino dall’ingombro che le ha portate lì. Il caso della Holden, dove sono più compatti, più schiacciati, verso i 22-24 anni, è un insieme di problemi personali: che cazzo faccio con la mia famiglia, con l’università, la finisco, non la finisco… sono molto omogenei su questo genere di ingombro, che però è un ingombro, no? In altri casi quell’ingombro non c’è perché sono più grandi, però più grandi significa più ingombro: per i cazzi personali, perché stai scrivendo da tot anni e a parte certe pubblicazioni, così, al volo, su riviste… uno comincia anche a sentire un senso di frustrazione e questo può incarognire la qualità dell’attenzione perché poi può capitare che passi di lì (non c’è bisogno di Bergonzoni) chiunque per dare un contributo. E se viene ascoltato con la mente pulita può dire quella frase chiave (è molto probabile che la dica) per la penetrazione – questa volta veramente efficace – nel garbuglio che ti ha frenato.

Perché c’è poco da fare: siccome non c’è nessun’altra maniera di concepire il lavoro che non sia scrivere…non c’è un altro modo per pubblicare libri che non sia scrivere, uno deve scrivere, ok?… vabbè, fai il corso, fai il seminario, vai alle presentazioni, vai alle lezioni dei grandi scrittori, partecipi a delle cose, magari tangenti tipo, non so, produzioni teatrali e cose del genere, però poi si deve scrivere. La cosa fondamentale che anche un corso di scrittura alla fine può fare è rafforzare l’apparato che tiene su la scrittura, che è la mente, la sensibilità. Cioè ripulirlo anche un po’ da quegli in ingombri, da quelle calcificazioni che spesso mutilano la capacità. E questo vale sia per chi non ha pubblicato niente sia per chi ha pubblicato venti libri. Insomma, il problema è che tu hai un potenziale, non conosci qual è il limite di questo potenziale, puoi aver avuto più o meno fortuna, più o meno incoraggiamenti, ma poi finisci sempre per andare in crisi.

Sei in crisi all’inizio quando scrivi e non pubblichi, poi sei felice perché t’hanno pubblicato, poi sei di nuovo in crisi perché t’hanno pubblicato ma non ti caca nessuno, poi sei di nuovo felice perché ti hanno cacato, poi sei infelice perché non sai più che cazzo scrivere te. Sei felice perché hai avuto un grandissimo successo e poi sei infelice perché non riesci a concepire di essertelo meritato. Io conosco gente che al primo libro, PUM, ha fatto un botto vero, tipo, non so, Brizzi e che poi è andato in crisi. Perché se son persone intelligenti perché visto che ce le cerchiamo con il lumicino le ragioni per soffrire, ecco, quella è una buona ragione per soffrire […] Quindi alla fine non si scappa, il problema è sempre lo stesso: liberarsi di quell’ingombro lì. Perché l’ingombro ce l’hai. Hai avuto fortuna? Quella fortuna è un ingombro. Hai avuto scalogna? Quella scalogna è un ingombro. Non hai tempo per scrivere perché devi lavorare perché non c’hai i soldi? Quello è un ingombro. Però, lì non ci sono corsi che ti insegnino come fare. Sei tu che devi farlo. È proprio una questione di forza e di peso specifico che si dà allo scrivere rispetto alle altre cose. Se si concepisce che quelle altre cose, gravi, serie quanto si vuole, sono in grado di impedirti di scrivere, di impedirti di pubblicare, sei bello che fottuto. Non devono essere in grado di impedirti niente, queste cose. Le cose condizioneranno, condizioneranno il tuo modo di scrivere, magari anche quello che scrivi. Però questo è un equilibrio, diciamo un’alchimia mentale, direi anche di spirito, che potete controllare soltanto voi. Non è possibile…non ci sono strumenti, ecco, strumenti che vi possano essere dati per controllare queste cose se non c’è prima la profonda convinzione che quello è il lavoro principale dello scrittore, cioè tenere pulito il proprio potenziale. Tutti gli ingombri, che, ripeto, sono più che legittimi – la donna v’ha lasciato, i cazzi, i soldi, la monnezza, quello che volete – però se comincia questa roba a intaccare la vostra capacità di avvicinarvi al limite, di spingervi verso il vostro limite, sono scuse, sono ottime scuse per non farcela, per dire: vabbè, a me m’ha rovinato ‘a guera, come diceva Sordi. Tutti quanti abbiamo una guerra che ci può rovinare, non è una buona ragione. E da qui consegue quella che forse è l’unica massima che io mi sento di… qui come davanti a cento persone… mi sento di prendermi la responsabilità di pronunciare.

Anche perché io mi appoggio su una sponda forte che è Carmelo Bene, il quale diceva, per il suo specifico, di volta in volta scagliandosi sulla partner, sull’attrice che lavorava con lui… Nello specifico era Elisabetta Pozzi (ma lo faceva con tutte) perché nell’Adelchi, Elisabetta Pozzi, Ermengarda, recita a memoria. Era nel camerino tutto sudato, incazzato come una biscia, e diceva: i dilettanti recitano a memoria, i professionisti leggono. Poi aggiungeva anche, diciamo, epiteti. Però voi capite bene che quella roba lì è immediatamente comprensibile, io capisco immediatamente che ha ragione. Però non ci sarei mai arrivato a formularla in quel modo. La differenza fra Elisabetta Pozzi e Carmelo Bene nello stesso Adelchi era quella dilettante.

Allo stesso modo, appoggiandomi qua – e quindi diciamo che la radice di questo pensiero non è mia – io mi sento di poter dire che quando soffrono, i professionisti, smettono di scrivere, e i dilettanti si mettono a scrivere. Ovviamente alle volte ci son momentacci in cui si produce proprio un vento contro, doloroso. Allora lì il professionista – e non vuol dire che il professionista viene pagato, il professionista alla fine verrà pagato, per forza: è un professionista – ma il professionista questa cosa non la tocca: questa roba è la mia vita , è la mia professione addirittura, se perdo questo perdo tutto. Il professionista lì si ferma, lotta con ‘sto vento, risolve, per quel che può, o vi è travolto, se non riesce a risolvere i problemi, poi, dopo, quando questo momentaccio è passato, scrive. Il dilettante, invece, BUM, subito prende questo flusso di merda che gli arriva addosso, e, per terapia, per consolarsi, per reggere meglio l’urto e illudendosi addirittura che questo nobiliti il suo gesto, scrive. In quel modo tu dài un imprinting alla tua natura di scrittore che non ti rappresenta. E ti porti appresso, anzi addirittura ci lavori…è come lavorare con una penna con un macigno sopra e scrivere con ‘sto macigno. Ti porti dietro questo ingombro addirittura nella pagina, addirittura dài alla pagina che scrivi, e che chissà perché io dovrei leggere, gli dài addirittura il compito di guarirti, di farti star meglio, di lenire il tuo dolore, alla scrittura o all’arte, diciamo, terapeutica. L’arte terapeutica c’è: è per i dilettanti, quelli che oggi lo fanno e domani non possono più farlo perché hanno vinto il concorso alle poste e non possono più scrivere, più recitare, più dipingere. Allora sì: scrivete quando state male. Se il vostro approccio alla letteratura è di tipo dilettantistico, ma ripeto… ci sono dei dilettanti straordinari in questo senso qua, proprio per la freschezza, la prontezza con cui trasferiscono nella loro arte quello che stanno vivendo. Il professionista si protegge, perché si deve proteggere, perché è oggi, è domani, dopodomani, è sempre. Non puoi permetterti di caricare su un momento molto difficile tutto lo stress che consegue a un lavoro letterario. Perché, ok, scrivi, ti alleggerisci del peso perché l’hai trasformato in scrittura, l’hai trasformato in una storia, ti sei preso le tue rivincite, hai mescolato le cose – come diceva Sartre: “la letteratura è dove chi perde vince” – chi perde vince, e uno già sta meglio. Te lo puoi permettere dopo quello che stavi passando mentre scrivevi, quello che stai forse ancora passando, con un speranza aggrappata a questo manoscritto – te la puoi permettere tutta l’altra merda che ti arriva per il fatto che hai scritto? O ti spazza via?

Perché, hai scritto, ok: e mo’? Siamo sempre lì: perché io dovrei leggere quello che hai scritto? Perché la gente dovrebbe correre in libreria a leggere quello che avete scritto anche ove ve l’abbiano pubblicato? Allora lì sono botte vere. Perché uno non si è protetto. Ma addirittura proprio nel momento vulnerabile, nel momento di maggiore difficoltà è andato a rischiare su una cosa dove si sente ancora più male. Perché si sente più male. Allora bisogna che dentro di voi – se non ve l’hanno detto ve lo dico io, (se v’hanno detto il contrario bene, farà l’effetto Bergonzoni) – bisogna che voi ve lo diciate se il vostro approccio alla letteratura è di tipo dilettantistico o professionistico, nel senso che ho detto io. Poi, ci sono dei dilettanti che guadagnano molto di più dei professionisti, non è una questione di soldi. Se mi avete inteso, è una questione di approccio. Cioè, uno che dice “io sono professionista e dunque leggo, l’Adelchi lo leggo. Ma che cazzo me l’imparo tutto a memoria. Lo leggo! Non sono gli strumenti del mestiere, la memoria, la mnemonica… sta scritto là. Perché devo riportare a memoria una cosa che sta scritta lì? Io leggo, perché sono un professionista, perché la battuta non la perderò mai se io la leggo. Anche solo per questo, mentre te puoi essere bravo quanto ti pare, ma c’hai i cazzi tuoi; vuoto, non ti viene la battuta. E allora c’è il mestiere, quell’altro ti dà la battuta, ti aiutano i guitti, la compagnia cantante, tutti insieme affiatati. Il cazzo! Quello è l’Adelchi. Elisabetta Pozzi non poteva leggere, non accanto a Carmelo Bene. Veniva spazzata via. Lei doveva sfaccendare, almeno quello, perché lui essendo handicappato, praticamente morto, non poteva muoversi, allora tutto quello che non poteva fare Carmelo lo faceva lei. Ma lei era dilettante. Eppure si tratta di una delle attrici di teatro più affermate. Non è certamente in cerca di lavoro Elisabetta Pozzi, ma di fronte a Carmelo Bene, su un testo come l’Adelchi, lì viene fuori la natura del tuo rapporto con, in quel caso, appunto, il teatro. Stai a fare Adelchi, l’Adelchi l’ha scritto Alessandro Manzoni, sta scritto su un libro che si chiama Adelchi, Carmelo Bene legge e te no, non te la senti.

Uno studente: Gassman non leggeva, magari. In un caso del genere Gassman non avrebbe letto.
Sì, però te sei con Carmelo Bene che legge. Non è una follia. No! Se il tuo mentore, in questo caso Gassman, ti dice “non leggere” allora non leggi. Ma se quello ti dice “leggi” e te non te la senti, lui ha tutto il diritto di dire: dunque, la differenza tra me e lei è che lei è una dilettante e allora recita a memoria. Qui non è la stessa cosa.

E’ noto che la letteratura, la poesia trattano il dolore, lo trattano, lo penetrano, lo affrontano, lo rappresentano, a volte addirittura lo spiegano. Ci sono sofferenze che vengono capite leggendo certi libri e mentre le vivi non le capisci. E mentre le leggi dentro dei libri che spesso per questo sono chiamati classici ti viene chiaro perché. Perché il risultato di queste operazioni umane è la sofferenza. Quando le vivi non lo capisci. Quindi la sofferenza, il dolore, sono materia prima, sono risultato, sono prodotto. È proprio una specie di ciclo che parte dalla sofferenza e arriva alla sofferenza, con i personaggi che soffrono, con l’autore che soffre insieme ai personaggi, per i cazzi suoi, per i cazzi dei personaggi, perché si deve immedesimare, perché deve comunque immaginarle certe sofferenze se non le ha vissute. Allora, siccome ci leggiamo tante sofferenze, scrivere perché si soffre, addirittura aumentare la dose, buttarsi lì perché è un momentaccio, è molto rischioso, e un professionista questo rischio non lo corre. Il professionista sta zitto, sta fermo, e cerca di risolvere le cose, almeno alcune delle cose, che gli fanno soffiar contro tutto ‘sto vento. Perché poi quando prendo la penna in mano non voglio il macigno, perché poi quella roba condiziona, non c’è niente da fare.

Certo, però da quello si parte e si parte veramente se si è allievi. Voi siete davanti a uno che ha avuto più fortuna di voi, che è andato più avanti di voi, ha avuto più esperienza di voi, ha lasciato lo stato dilettantistico obbligatorio dell’inizio, si è scontrato con questo dilemma: ma sono un dilettante o sono un professionista? e sono cazzi suoi, va avanti – mentendo a se stesso o no, sono sempre cazzi suoi – però poi lui passa di lì, viene lì e dice delle cose. Se voi foste capaci di essere così sgombri davanti a chiunque allora a quel punto veramente il primo stronzo che viene qua vi può giovare, può farvi assimilare le cose che vi ha detto. Esattamente come sono state assimilate le cose che io ho detto contro Smoke e cioè con la capacità di ripristinarle due ore dopo, subito, perché passa un altro stronzo che dice il contrario. Cioè dare neutralità alla vostra mente, allora queste esperienze servono. Servono molto di più di quanto non si pensi e non tanto perché vi danno la possibilità di approcciare un certo ambiente […]

[…] Il corso è un’occasione per sbarazzarvi di cosa lo sapete solo voi perché quello che viene qua a parlare non lo sa. Sa che c’è un ingombro in ognuno di voi ma non sa quale, è l’occasione di farvi attraversare il più possibile da un flusso che è il flusso di questa persona che è venuta qua a dirvi delle cose. Magari viene qua a dirvi come bisogna mettere il punto e virgola. Potrei stare due ore a parlare del punto e virgola. E voi potreste annoiarvi, sbagliando. Perché io anche c’ho i miei ingombri, io anche piglio una strada che è quella che posso prendere. Però non è che se sto due ore a parlarvi del punto e virgola – ripeto: cosa che ho anche fatto, ci ho scritto un saggio sopra, sicché non sto scherzando – lo faccio per farvi del male, per farvi pensare che avete buttato i soldi, se li avete spesi, che avete speso per iscrivervi a ‘sta cosa. Perché in due ore qualunque sia il pretesto, una persona che viene ascoltata è molto probabile statisticamente che vi dica la cosa che avevate bisogno di sentirvi dire quel giorno. Non deve essere così fondamentale, né che vi cambi la vita per sempre però limitatamente a quell’esperienza, a quelle due ore, a quell’ora e mezza la pagnotta, questo, anche parlandovi per un ora e mezzo del punto e virgola, se la guadagna. E voi ovviamente dovete accorgervene perché se invece sono io che mi devo preoccupare – voi siete pochi – ma ci sono delle scuole di scrittura dove ci sono 20-25-30 allievi – se io mi devo preoccupare di dire a ognuno di voi e fare con ognuno di voi la cosa risolutiva che vi sblocca e che vi dà… e no, non funziona no.

Allora è vero quello che dicono i dilettanti e cioè che non si insegna a scrivere, che non si impara a scrivere, il che non è vero. È vero il contrario: si impara a scrivere e si insegna a scrivere. Si insegna tutto. E chi insegna non è detto che debba essere più bravo di quello che impara. Solo che chi insegna fa il suo e chi impara fa il suo. Se chi impara fa il suo, già siamo a metà dell’opera. Spesso chi impara non fa abbastanza la sua parte. Può benissimo capitare che noi ci vediamo al bar e chiacchieriamo e i ruoli non sono questi, ma qui sono questi, e questa che è un’impostazione di fondo che investe, come vi ho detto, fin dall’inizio, addirittura la natura della vostra passione, se è una natura professionistica o dilettantistica. E non c’è nulla di male se fosse dilettantistica. Non è che uno dive dire: eh, vabbè, io sono dilettante. No perché bisogna capire anche con quanta drammaticità uno si è posto o si è trovato addosso senza averlo nemmeno mai deciso l’obiettivo di scrivere e dunque di essere letto, e dunque di essere giudicato, possibilmente in modo favorevole, dagli altri. Bisogna vedere com’è nata ‘sta cosa. Bisogna vedere, appunto, quanti cazzi amari ci vogliono perché uno dica, vabbè, ritiro la bandierina dello scrittore, perché c’ho un problema troppo grosso adesso, e perché poi non posso, perché la mafia letteraria è troppo forte. Se invece ti va bene, con quello stesso atteggiamento che in un’opzione sfortunata ti farebbe arrendere di fronte alle difficoltà, siccome le difficoltà non ci sono, te puoi andare, navigare, essere uno scrittore felicissimo. Felicissimo proprio nel senso del gesto. Io ne conosco – non mi chiedete nomi perché non li faccio – però io li conosco gli scrittori dilettanti, fortunati adesso, in un bel momento, ma sono persone che nel momento della difficoltà invece che smettere rincarano la dose e si fottono. Non hanno la difficoltà: buon per loro. Conosco altri scrittori, meno famosi forse di quelli dilettanti, che però si sono resi subito conto che qualunque cosa consegua alla tua vita quotidiana che finisce dentro la scrittura va vagliata e lavorata molto prima. Perché se tu hai un rapporto familiare, è ovvio che questo rapporto familiare finisce per formare quello che scriverai. Il disagio, quello che non funziona nel tuo rapporto familiare, con i tuoi genitori, con tua moglie, con i tuoi figli, finirà per formare in un modo o nell’altro quello che scrivi. Però c’è il rischio che dopo tu trasferisci sulla scrittura la soluzione del rapporto famigliare. Se ti va bene il libro, perché lo pubblichi, perché viene anche apprezzato, rischi di non considerare più un problema familiare quello che è diventato addirittura la chiave del tuo successo. Ecco, allora: un professionista questo sbaglio non lo deve fare, perché è troppo fragile, lo capite, troppo fragile quello che costruisci. Ti appoggi su un problema, lo trasformi in soluzione senza avere toccato il problema, semplicemente perché nel contesto del tinello è un problema, nel contesto del romanzo non è più un problema, ma addirittura ti dicono “bravo”. Però sempre un problema c’è. Ci sono dei momenti in cui le cose sono veramente merdose, c’è poco da fare. Tanto più la pressione che viene dagli altri si fa forte e dolorosa, tanto più uno si deve dedicare ad arginare quella pressione. Perché se quella pressione uno si limita a deviarla sulla scrittura fa un gesto da dilettante. Ti affidi allo sbaraglio delle cose. Ora io non so quanti di voi vanno a fare la spesa al supermercato. Ci andate? Come vai a fare la spesa te? Dimmi come fai la spesa?
E quindi non fai la lista della spesa.

Studente: no

Vabbè. Poi? Che fai.

Studente: mah, prendo i prodotti. Generalmente poi alla fine diventa una cosa metodica, perché in linea di massima prendo sempre le stesse cose. Poi magari dài uno sguardo, c’è qualcosa in offerta speciale, dici, oggi, vabbè, mi concedo questo, lo metti là nel cestino, ma alla fine, non lo so, fai bene o male un resoconto di quello che ti può servire. Perché io ci vado due-tre volte a settimana a fare la spesa, quindi…

Però non fai la lista della spesa

Studente: non faccio la lista della spesa

Vai sempre nello stesso posto?

Studente: in linea di massima sì

E però se ci sono le offerte speciali prendi, qualche volta

Studente: sì

Allora, se io ti faccio su una lavagna che non c’è, ma ve la immaginate facilmente, ascisse e ordinate, c’è un 10%, c’è proprio una specie di curva gaussiana nel primo 10, da 0 a 100, nel primo 10 siamo nella parte bassissima della campana gaussiana. Poi c’è un 80 alto e poi c’è un 10. Allora che succede qui? Te sei qui, alla fine del primo 10, cioè te sei un pollo quando vai a fare la spesa. Ti pigliano. Coi tre per due. Ti chiappano. L’hai detto: poi me lo concedo… Ma te eri partito per comprarti delle cose che ti servivano e in parte quelle cose le hanno decise altri

Studente: le spiego, il discorso è un altro. Ogni supermercato ha la sua dinamica, nel senso che ogni volta che vai a fare la spesa sai che troverai un tipo di pasta in offerta, un tipo di caffè in offerta, eccetera. Tu alla fine raggiri loro, nel senso che tu, comprando le offerte che loro ti propongono, ti pigli le cose che ti servono al prezzo che vuoi tu.

Vabbè, diciamo allora che tu sei nella parte dal 20 al 90, quelli che fanno la spesa a ragion veduta. Però, la maggior parte delle persone che conosco io, compreso me, stanno qua, nel primo 10. Sono veramente grilli nell’uragano, fuscelli al vento. Poi c’è l’ultimo 10, conosco una persona, un ingegnere che c’ha la pianta del supermercato e prevede prima – sa tutto, dove sono i reparti – prevede prima il percorso che farà.

Studente: ma esce una volta a settimana dal manicomio?

Sì, gli levano la camicia di forza e parte. Lui sta là. Sta nella cosa maniacale. Quindi non si accorge che c’è un’offerta vantaggiosissima, perché lui già ha deciso, la spesa l’ha già fatta a tavolino. Deve solo eseguire un gesto, risparmia tempo e tutto quanto, però se quel giorno imprevedibilmente c’è una roba che te la tirano dietro, lui non ci passa e non lo sa.

Studente: al contrario di una signora con il volantino che alle otto di mattina sta là perché inizia l’offerta. Succede anche questo. Tu hai detto una parola, hai detto, c’è una metodica che compensa la tua sprovvedutezza, – sei tu contro i geni del marketing, quindi è chiaro che sei sotto –la metodica ti dà un po’ di chance di resistere. Però la maggior parte delle persone che conosco io, degli artisti che conosco io stanno qua. Se scrivessero i romanzi come fanno la spesa… non andrebbe bene. Possono permettersi di far la spesa a cazzo. Perché così è fare la spesa a cazzo, come la faccio io, ma non possono permettersi lo stesso atteggiamento quando fanno un quadro se sono pittori o un romanzo se sono scrittori. La metodica se la devono inventare. Pure se sono le persone più scombinate di questo mondo quando sono a fare la cosa di cui sono professionisti, la cosa che potrebbero anche insegnare, lì la gaussiana si deve trovare al punto alto, non al punto basso. Perché se te fai un romanzo come fai la spesa, puoi essere Rimbaud, puoi essere Pynchon ma non viene. Io quando vado a far la spesa non faccio altro che dare il mio contributo a linee produttive e di marketing di questi cazzoni che decidono come devo far la spesa io. Perché io non lo decido. Io sono in preda, in altre parole, all’ingombro che mi impedisce di prendere sul serio, come va preso, l’impegno di fare la spesa. È buona cosa farsi una lista, la lista della spesa.

Studente: però anche i tetragoni della spesa sono passati attraverso la fase della sprovvedutezza.

Certo. Certo. Io non ti contraddico, per carità. Il problema è che nel momento in cui voi andate a un corso di “fare la spesa”, i famosi corsi creativi di fare la spesa creativa, vi insegnano a usare un criterio, poi dopo il criterio ve lo dovete scegliere voi. Però ci vuole un criterio. Io vado a fare la spesa quando non niente in casa, questo è il problema, che torno e non ho risolto i problemi che hanno determinato la vuotezza del mio frigorifero, perché non ho usato un criterio, perché non ho metodica, perché non ho esperienza e non ho intenzione di averla. Perché se avessi intenzione di averla, e l’avrò, perché cambiando vita dovrò anche avere una metodica nel fare la spesa, io dico, vabbè, all’inizio mi piglieranno, mi pizzicheranno, per 2, 3, 4 mesi con le offerte speciali di zerbini… mi ritrovo uno zerbino, ma io non lo volevo, uno zerbino… ma era in offerta, l’ho comprato, non so dove metterlo… per un po’ ci casco, ma dopo, io so di cosa ho bisogno, so di quanti soldi dispongo, so di quanto tempo dispongo, non posso andarci… te, la metodica, ma ci vai tre volte a settimana è un po’ una spesa di tempo.

Studente: no, ci sto un quarto d’ora

Ci stai un quarto d’ora e poi magari c’è la fila di quelli che invece ci stanno un’ora. Io sono un esperto delle file inutili. Perché io arrivo, compro le pile e faccio mezz’ora di fila perché la gente ha fatto le provviste per la guerra nucleare.

Studente: esiste il tempo continuato, esistono pure gli orari in cui andarci […]

Però se uno va al supermercato con la stessa frequenza con cui andrebbe alle bottegucce sotto casa, sarebbe meglio che al supermercato ci andasse una volta a settimana e basta, e portasse via tutto quello che gli servirà durante la settimana salvo le cose fresche che si comprano sotto casa.
Se voi scriveste come fate la spesa, ci sarebbe veramente d’andà alla scuola della spesa: lesson one. Perché di fare la spesa a cazzo potete anche permettervelo sebbene poi dopo tra gli ingombri ci saranno anche quelli economici, no? Che uno dice, però io devo guadagnare… e non pensate che magari quando andate là a fare la spesa buttate via ‘sti soldi che poi dopo non sapete come fare a guadagnare e che per guadagnarli dovete abbandonare la scrittura e questa è una buona scusa per dire, che cazzo, eh, vedi, però, non ci riesco. Cioè fare la spesa comunque bisogna farla bene. Il messaggio è questo. O la spesa la fa qualcun altro, con i soldi suoi. Però ora non funziona nemmeno più con i genitori. Ai miei tempi funzionava ancora, erano buoni tempi per rimanere il più possibile a carico dei genitori, ma ora già voialtri siete di una generazione in cui vi mandano fuori presto…

Studente: magari

Non vi mandano? E allora questa è una grande risorsa, quella di non doversi preoccupare …

Il dilettante, siamo sempre lì, vuole andare a vivere da solo. Il professionista dice no, io sto scrivendo un romanzo, poi quando avrò pubblicato il romanzo vado a cercare di vivere da solo, il lavoro, l’affitto, dopo m’incasino. Se vado a vivere da solo adesso, già faccio fatica così… certo non c’ho la mia casa, c’ho la mia cameretta come quando avevo 14 anni, però, ‘sti cazzi, al supermercato ci va la mi’ mamma, insomma, di queste cose qua non me ne devo preoccupare. E è vero che viviamo in una società che ti spinge a considerare fico l’essere autonomi, e in un certo senso, alla fine di un percorso corretto, è fico essere autonomi, è necessario. Però è anche vero che se per te è molto più importante scrivere il romanzo e pubblicarlo che essere fico, perché comunque non puoi essere fico se non finisci ‘sto romanzo, allora stai a casa dei genitori. Ma chi te lo fa fare di andar via? Dice, ma non vado d’accordo… Ma vacci d’accordo, fa tutto parte del tuo lavoro per il romanzo, perché se no, allora vedi, c’hai i cazzi con i genitori, devi andar via, non c’hai i soldi, devi far la spesa, ti spennano, lo zerbino…

Vedete, io è questo che dicevo, tutta questa roba qua poi va a finire – voi non volevate parlar di questo – ma va a finire che rispunta anche nelle cose che scrivete perché vi porta via tempo, vi porta via soldi, vi porta via risorse, sono maniere con le quali voi affrontate la pressione che vi dà la vita e poi l’unico modo per digerirle, tutte queste cazzate, perché son cazzate, per non aver avuto il coraggio di dire: io sto scrivendo il romanzo. Non mi rompete i coglioni finché non ho finito questa missione non ce n’è per nessuno. Io son nato qua e resto qua in camera e mi date da mangiare come prima.

Studente: Quando ti sei accorto di essere diventato un professionista?

Per me… la cosa più audace che ho fatto io, naturalmente non la vedevo così all’epoca, quindi è uno sguardo retrospettivo… è stato dopo la bocciatura del mio secondo romanzo scritto e presentato. Perché io m’ero preso del tempo dopo finito di laurearmi a Firenze in architettura, con anche una fortuna, cioè possibilità di lavoro subito… via da lì, a Roma, parassita più che potevo, scrivo, scrivo, scrivo e alla fine ce la farò. Primo romanzo, segato. Era ancora un residuo della vita, l’errore di portarsi appresso il manoscritto di quando eri giovane. La vuoi picchiare la capata? Va bene, capata. Allora, se ne fa un altro da capo, pirpim, purupum, parapà… BOM anche quello me lo rifiutano. Passato un anno io ne scrivo un altro. Lì è stato il momento – perché lì veramente puzzavo come il pesce marcio – perché ero proprio veramente… non guadagnavo una lira. M’ero distanziato dalle possibilità di guadagnare. M’ero distanziato anche da casa mia quindi non è che direttamente io pesassi sui miei genitori o almeno non sembrava, certamente poi è ovvio che in un modo o nell’altro ti aiutano. Però io cercavo di essere parassita di persone nuove, qui a Roma. Quindi io andavo a cena… non lo sapevano, ma tutte le sere andavo a cena da qualcuno, nessuno sapeva che questo era sistematico da parte mia, quindi tutti pensavano d’invitarmi a cena, così, invece io mi procacciavo tutti i giorni queste cose qua, un po’ perché non c’avevo i soldi, ma un po’ perché non c’avevo il tempo né la voglia d’andar al supermercato per farmi gli spaghetti a casa mia… via gli spaghetti. Io devo scrivere ‘sto romanzo, se no qua mi tocca tornare a fare l’architetto. Allora il momento è stato quando la seconda bocciatura era già passata, volendo essere un dilettante, come scusa… per dire, io c’ho provato, cazzo, me n’hanno bocciati due ‘sti stronzi, mafiosi, son tutti che se non conosci quello… vaffanculo vado a fare l’architetto, sono imbufalito col mondo. E poi a scrivere il sabato e la domenica e riprovarci magari negli anni, lì invece fu proprio il caso di dire, no, porca troia, a me mi ci devon portar via col cellulare…. ora son qua e sto qua, e che cazzo! E ci riproviamo. E alla terza è andata. Però è lì che inconsciamente io ho stabilito, dovendomi sbilanciare, io sono un professionista, non sono un dilettante, non è che adesso il problema è che siccome non m’è andata bene, non me l’hanno accettato… il giocatore di poker professionista… badate che questi sono i modelli… il giocatore di poker professionista gioca tut

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43 Commenti

  1. Confesso che ho fatto un po’ fatica ad arrivare fino in fondo e, adesso che ci sono arrivato, faccio ancora più fatica a tirare le somme. Se ho capito bene, la preoccupazione dell’autore è di dire agli studenti “fate sul serio o lasciate stare”. Difficile dargli torto…

    Se posso permettermi di spendere due parole sulle scuole di scrittura creativa, vorrei dire che secondo me sono l’equivalente delle “botteghe” rinascimentali. Nessuno poteva insegnare a Michelangelo a essere Michelangelo, ma Michelangelo avrebbe combinato ben poco se qualcuno non gli avesse insegnato a tenere in mano il martello, a puntare lo scalpello, a scegliere il marmo, la carta, gli stracci, ecc. (per non parlare di disegno, prospettiva, anatomia, ecc.). Insomma: anche la scrittura, come tutte le arti, contiene una grossa parte di artigianato. Non è vero che “è del poeta il fin la meraviglia”, ma se uno vuole scrivere deve anche imparare a stupire il lettore, oltre a non essere noioso, pedante, didascalico, a evitare i luoghi comuni, i troppi aggettivi… (e non vado avanti per non incorrere in quanto sopra).
    Tutte queste cose sono probabilmente date per scontate in un intervento che vuole volare alto come questo di Veronesi. Ma io credo che un sano richiamo ai “fondamentali” non guasti. Credo che sia il caso di avere più fiducia nel talento dei principianti, ma di esigere perseveranza nell’apprendere la tecnica del mestiere (più che nell’atteggiamento con cui ci si pone davanti allo scrivere). Tanto poi, la professionalità di un artigiano (o di un artista) si misura soltanto dal risultato.

  2. cari principianti, ascoltate ferrazzi, e lasciate stare i consigli di sandro veronesi. ferrazzi del resto è l’autore di frasi come: “il cielo è una lama che cade a picco e trancia l’orizzonte”; “scese in strada galleggiando su una nuvola di incoscienza, con in bocca uno strano sapore di nostalgia.” ascoltate ferrazzi. è una garanzia. altro che veronesi!

  3. Conosco solo per sentito raccontare il mondo delle scuole di scrittura. Mi fido di quei racconti fatti da gente che vi insegna e vi impara, gente seria. Quello che dice Ferrazzi mi sembra ben detto, la frequentazione non da garanzia, è il talento e la perseveranza che contano per arrivare a un risultato. Le motivazioni, poi, possono essere a mio parere di “ascoltatore” esterno le più diverse; voglia di fare qualcosa di nuovo, esprimersi comunque, incontrare gente nuova e interessante, tutte queste cose insieme più il desiderio di pubblicare. Ma ciò ovviamente non basta. Si desidera ciò che non si ha ma anche ciò che non si conosce. E pubblicare è solo il primo passo di una lunga – o breve, dipende da tanti fattori- marcia. Una marcia costellate d’intoppi, incontri fortunati o sfortunati, caso, opportunismo e impegno. Secondo me per diventare davvero scrittori (che non significa, lo dico chiaro, necessariamente pubblicare) bisogna sentirselo dentro; è qualcosa che ti prende allo stomaco fin da bambino, una specie di premonizione che agisce da languore. Non so se mi spiego. Te lo devi sentire come ti senti bene se stai bene e male se stai male,diciamo.
    Ora però vorrei estrapolare alcune frasi del discorso, invero leggermente confuso (perlomeno alla mia percezione di lettore) di Sandro Veronesi.

    “L’arte terapeutica c’è: è per i dilettanti, quelli che oggi lo fanno e domani non possono più farlo perchè hanno vinto il concorso alle poste ecc.”
    E’ un teorema, questo? Io penso di no. Personalmente sono diventato scrittore un pò per caso e un pò per tigna e con un pò di talento e tante letture; e nel frattempo ho lavorato, ho guadagnato, ho speso, ho buttato via, ho ripreso, ho mandato al diavolo ecc. Insomma: ho vissuto. Forse ci ho messo più tempo, ma anche questo è opinabile: alla base secondo me ci vuole molto autocontrollo e molto, molto spirito autocritico. Diventare il critico spietato di sè stessi è un ottimo metodo, almeno per me lo è stato.

    Io ora sintetizzerei il discorso di Veronesi sull’approccio dilettantistico alla scrittura in una frase:
    ho qualcosa da dire e lo dico quando mi pare/quando lo sento/ quando non ne posso fare a meno.
    Per l’ approccio professionistico riprendo le parole di Veronesi:”Io sto scrivendo il romanzo. Non mi rompete i coglioni finchè non ho finito questa missione non ce n’è per nessuno. Io son nato qui e resto qui in camera e mi date da mangiare come prima”.
    L’approccio professionistico, mi chiedo, è, al tirar delle somme, riservato solo ai figli di papa?…

  4. Sono d’accordo con Capote e Ferrazzi. Dietro la scrittura c’è molto di più così come in ogni forma d’arte, e la falsa democrazia delle opinioni ha portato purtroppo ad una sub-interpretazione della scrittura contemporanea intesa come pancreazionismo e facilità d’uso… “scrivi… basta che scrivi, e se qualcuno anche uno solo recepisce emotivamente al di là dei contenuti ivi espressi, allora può dirsi scrittore”. Situazione di comodo. I corsi sono utili laddove il depositario della conoscenza in questione riesca a creare un buona forma mediatica di trasferimento delle nozioni. Molti dei corsi di scrittura sono basati sul “plagio” stilistico dell’insegnante, o per meglio dire, quest’ultimo deve essere in grado di recepire le forme individuali di ogni partecipante per creare in altro momento un recupero pieno e flessibile della componente ideativa dell’interessato, non condizionandola e per di più asservendola ad un propria visione della letteratura; molti purtroppo impongono il loro stile durante i corsi. Le nuove leve hanno bisogno degli strumenti necessari per poi introiettarli e farli propri, come accade nella dimensione esperienziativa di ogni individuo. Il ritorno ai “fondamentali” è necessario poiché vuoi o non vuoi, nelll’uso del termine “moderno”, “contemporaneo”, il loro sostrato si poggia sull’ombra del passato ma ivi data l’incapacità dell’individuo di analizzarne le profonde tinte, è preferibile dimenticarli piuttosto che occuparsene con atto di dedizione. Ciao ciao.

  5. caro corselli, mi sa che tu non hai capito l’ironia del mio messaggio, altrimenti non saresti d’accordo con me…

  6. Hai ragione Capote, me ne sono accorto adesso. Allora, rettifico, sono d’accordo con Ferrazzi. Ciao ciao

  7. Trovo la distinzione dilettante-professionista uno schematismo non solo inutile, ma inverosimile e irreale. Ogni autore ha il proprio sentimento e modo di scrivere. La scrittura è un piatto che va consumato freddo? E chi lo dice? Ci sono autori, non per questo non professionisti, capaci di scrivere cavalcando emozioni o impressioni del momento. E altri autori “da laboratorio” che, masticando e rimasticando emozioni e impressioni passate, non sanno darcene un’immagine viva.
    Aggiungo, inoltre, il mio rifiuto di qualsiasi scuola di scrittura. I veri scrittori non nascono da là. La pittura richiede una sapienza tecnica nella gestione dei colori e del pennello che non è richiesta allo scrittore (prendi la penna o la tastiera e scrivi!). Mi si parlerà, allora, dell’armamentario retorico del buon scrittore… Ma, in verità, chi usa meglio la retorica è colui che la desume implicitamente dalle proprie letture ed esercizi di scrittura, che la assimila più o meno cosciamente a forza di leggere e scrivere, di certo non colui che viene “imboccato”, al quale si dice “le regole sono queste, queste e queste…”. La differenza è simile a quella che passa tra chi impara una seconda lingua parlandola e chi studiandone pedissequamente la grammatica: chi la parlerà meglio? Per questo le scuole di scrittura non sono che delle botteghe in cui si espone una merce che non è in vendita… Che uno scrittore affermato possa dare consigli, suggerire qualche tecnica o miglioramento agli apprendisti scrittori, questo ci sta… ma che ciò venga pagato… ecco, lasciatemi rimpiangere i tempi in cui si inviava per lettera il proprio racconto o la propria poesia a un Pontiggia o a un Montale e questi, disinteressatamente e in forma del tutto gratuita, dispensavano suggerimenti e consigli…

  8. Sacrosanto Malatesta! Quando la smetteranno gli “scrittori di professione” (spesso incompetentissimi!) di ammorbarci con la loro inutile sapienza da prof? Quando chiuderanno, per decreto, le scuole di scrittura? Quando la si smetterà di trattare lo scrivere – che insegue le meccaniche del desiderio – come una vile merce? Speriamo presto.

  9. Molte volte i corsi li trovo inutili. La conoscenza della tecnica può avvenire da un proprio studio approfondito, lo scrittore può conoscerla per caso e andarvi incontro con i propri passi, ma nasce da lui l’operare questa meditata ricerca della struttura. Il principio della tecnica prevede la metabolizzazione degli strumenti acquisiti, un percorso esperienziativo introiettato e non imboccato, perché la maggior parte dei corsi è questo, un mero imboccare il partecipante con nozioni e basta, tralasciando la sua flessibilità di pensiero. Il grosso lavoro spetta a quest’ultimo che dovrà rielaborarli a casa e crearsi un proprio percorso formativo orientato verso la costituzione di un proprio stilema. è un pò come la palestra, potremmo fare esercizi ginnici per i fatti nostri a casa, non pagando nulla, ma si è così apatici e indolenti (in questo caso nella volontarietà d’azione mentale) da doverci costringere a farli col pretesto della palestra. Lo scrittore può studiare da solo e da solo imparare più di quanto lo faccio ad un corso. Sono un grande assertore dell’autodidattica (con criterio s’intende). Ciao ciao.

  10. Malatesta, ma che esempi fai? Pontiggia non teneva un corso di scrittura a Milano, strapagato? Ma la testa dove l’hai messa?

  11. Scusate l’errore. Non ne ero a conoscenza. Sostituite Pontiggia col nome di Vittorini o altri: vedrete, comunque, che il senso del ragionamento non cambia…

  12. “… potremmo fare esercizi ginnici per i fatti nostri a casa, non pagando nulla, ma si è così apatici e indolenti (in questo caso nella volontarietà d’azione mentale) da doverci costringere a farli col pretesto della palestra…” (Corselli).
    Ma la domanda è: perché uno DOVREBBE scrivere? Quale obbligo c’è a scrivere? Gli esercizi ginnici SERVONO al corpo, e va bene. Ma SCRIVERE a cosa dovrebbe esser utile o SERVIRE, e, quindi, perché DOVREMMO avere la VOLONTA’ di scrivere? Perché, lorsignori, scrivere dovrebbe riguardare la didattica e l’autoformazione (!!!), e, infine, le scuole di scrittura? Possibile che nessuno si accorga o dica o urli che scrivere non serve a niente? Il peggior umanesimo si nasconde dietro le scuole di scrittura. Il peggiore.

  13. Mi sembra che tutti abbiano le loro ragioni, anche se concordo con molte delle cose che dice Malatesta in particolare. Le scuole di scrittura spesso sono palestre di velleitarismo. E’ chiaro che ci sono docenti che lo fanno solo per soldi e per altri -veramente secondi – fini. E’ altrettanto chiaro che ci sono docenti , chiamiamoli così di una certa serietà. Si, il laboratorio di una scuola di scrittura creativa può essere paragonato, anche se alla lontana, a una bottega rinascimentale. Ma è anche vero, come ha scritto mi pare Corselli, che gli strumenti qui sono diversi, e diversi i contesti; e diversa è la scrittura dall’arte figurativa. Lapalissiano Watson, certo. Ma le cose sono sempre più sfumate di come vengono per forza di cose estratte da una giustificata razionalizzazione forumistica. E allora, dato che (mi perdoni l’ottimo Malatesta) è un pò da lacrima sul visohocapitotantecose stare a pensare ai consigli di Pontiggia visto che non c’è più, ci si augura che alcuni docenti siano prodighi di consigli giusti com gli alunni dei loro laboratori. Il problema è: quali questi docenti giusti?
    Questo se si ha veramente la voglia di andare a farsi smussare gli angoli in un corso del genere. Perchè di questo si tratta,signori: lì ci si deve andare per farsi smussare le imperfezioni e per fare qualche conoscenza che – si sa – piò servire. Nulla di più. Se il costo di tale operazione supera una certa cifra allora la domanda che nasce spontanea è la seguente: ne vale la pena?
    Insomma, alle scuole di scrittur, se proprio ci si vuole andare, bisogna andarci con l’assoluta consapevolezza che al massimo si potrà imparare, più che a scrivere molto meglio, a leggere molto meglio. E questo non sarebbe poco.
    In ogni caso, tutti gli scrittori che conosco (e anche che conosco per conoscenza “indiretta” tramite la lettura dei loro libri) non vengono dalle scuole di scrittura. L’autodidattica è la vera forza, e anche l’autocritica e il talento. Spesso molti ragazzi credono di averlo. Ecco, una scuola di scrittura seria dovrebbe anche aprire gli occhi agli alunni. L’insegnante professionalmente onesto dovrebbe avere il coraggio e prendersi la responsabilità di dire: tu X sei negato. Lascia perdere. Datti al cucito, alla danza etnica, alla cucina indonesiana, scopa di più, fatti meno seghe (anche mentali) ecc.
    E’ interessante la domanda di Altro J. Provocatoria. Perchè uno dovrebbe scrivere?
    E chi lo sa? Tu Altro J hai la risposta giusta?
    Nel caso facci sapere.

  14. Aggiungo qualche spunto di riflessione, soprattutto concentrandomi sul “plagio” inevitabile (o difficilissimo da evitare) dell’insegnante di cui ha parlato Corselli. Dico solo due cose:
    1. è casuale che Quasimodo e Montale, giusto per fare due nomi, non avessero neanche una laurea? è casuale che quasi tutti gli autori di rilievo, narratori e poeti, siano autodidatti? non sarà magari che la scuola – e qui parlo di scuola in generale, non solo delle scuole di scrittura – non solo non facilita, ma addirittura ostacola le capacità creative dell’individuo, da un lato gravandolo di nozioni che fanno da zavorra (o “ingombro, per dirla con Veronesi) al decollo della fantasia e originalità poietica e dall’altro producendo una sorta di castrazione mentale, di atteggiamento acritico e di dipendenza (non abbiamo parlato di “imboccare”?) nell’allievo?
    2. E poi riflettiamo su una cosa. In fondo, Veronesi ci dice che l’aver sviluppato il senso critico negli allievi fornendo loro due intepretazioni antitetiche della stessa opera (da parte sua e di Bergonzoni) è stato un caso e non qualcosa di programmato. E’ l’eccezione e non la regola in una scuola di scrittura. Senza questa coincidenza – se per caso Bergonzoni quel giorno avesse parlato del numero in Parmenide e del catalogo in Omero -, gli allievi se ne sarebbero tornati a casa convinti che la giusta intepretazione di Smoke fosse quella fornitagli da Veronesi, o no? E d’altronde dalla descrizione stessa di Veronesi ci sembra di vedere gli allievi protesi in avanti sui banchi, con l’orecchio teso e affannati a prendere appunti, per non lasciarsi sfuggire nulla, pendenti come saliva dalle labbra dell’insegnante, pronti a considerare oracolo ogni sospiro che esce dalla sua bocca, per il semplice fatto che egli E’ l’insegnante (ma nelle scuole di scrittura l’atteggiamento acritico e la dipendenza dal maestro sono ancora più radicali che nelle altre scuole, poiché al ruolo in sé dell’insegnante si aggiunge il carisma esercitato dalla figura di uno scrittore di fama, come nel caso di Bergonzoni).
    E questo sono le scuole di scrittura…

    P.S. Si potrebbe anche parlare di come queste scuole facciano perno, come lo stesso Veronesi ci informa, sul desiderio frustato dei giovani di voler pubblicare. E più importante è lo scrittore che tiene lezione, maggiore è la considerazione in cui gli allievi tengono la possibilità di ottenere, attraverso la scuola, una “patente” di scrittore.
    Infine un ultimo spunto. Come suggeriva Claudio Ciriaco, forse è meglio scoraggiare che incoraggiare a scrivere. In un clima di deriva editolirialistica come quello attuale, in cui tutti scrivono e – dati ormai i bassi costi di pubblicazione e la presenza di editori fortemente commerciali – pubblicano, incoraggiare le velleitarie aspirazioni delle borghesia media e alta (ché di figli di papà, come ha detto qualcuno, trattasi: chi pagherebbe determinate cifre per imparare a scrivere?) non è forse un gesto svantaggioso per la letteratura stessa?

  15. Aggiungo qualche spunto di riflessione, soprattutto concentrandomi sul “plagio” inevitabile (o difficilissimo da evitare) dell’insegnante di cui ha parlato Corselli. Dico solo due cose:
    1. è casuale che Quasimodo e Montale, giusto per fare due nomi, non avessero neanche una laurea? è casuale che quasi tutti gli autori di rilievo, narratori e poeti, siano autodidatti? non sarà magari che la scuola – e qui parlo di scuola in generale, non solo delle scuole di scrittura – non solo non facilita, ma addirittura ostacola le capacità creative dell’individuo, da un lato gravandolo di nozioni che fanno da zavorra (o “ingombro, per dirla con Veronesi) al decollo della fantasia e originalità poietica e dall’altro producendo una sorta di castrazione mentale, di atteggiamento acritico e di dipendenza (non abbiamo parlato di “imboccare”?) nell’allievo?
    2. E poi riflettiamo su una cosa. In fondo, Veronesi ci dice che l’aver sviluppato il senso critico negli allievi fornendo loro due intepretazioni antitetiche della stessa opera (da parte sua e di Bergonzoni) è stato un caso e non qualcosa di programmato. E’ l’eccezione e non la regola in una scuola di scrittura. Senza questa coincidenza – se per caso Bergonzoni quel giorno avesse parlato del numero in Parmenide e del catalogo in Omero -, gli allievi se ne sarebbero tornati a casa convinti che la giusta intepretazione di Smoke fosse quella fornitagli da Veronesi, o no? E d’altronde dalla descrizione stessa di Veronesi ci sembra di vedere gli allievi protesi in avanti sui banchi, con l’orecchio teso e affannati a prendere appunti, per non lasciarsi sfuggire nulla, pendenti come saliva dalle labbra dell’insegnante, pronti a considerare oracolo ogni sospiro che esce dalla sua bocca, per il semplice fatto che egli E’ l’insegnante (ma nelle scuole di scrittura l’atteggiamento acritico e la dipendenza dal maestro sono ancora più radicali che nelle altre scuole, poiché al ruolo in sé dell’insegnante si aggiunge il carisma esercitato dalla figura di uno scrittore di fama, come nel caso di Bergonzoni).
    E questo sono le scuole di scrittura…

    P.S. Si potrebbe anche parlare di come queste scuole facciano perno, come lo stesso Veronesi ci informa, sul desiderio frustato dei giovani di voler pubblicare. E più importante è lo scrittore che tiene lezione, maggiore è la considerazione in cui gli allievi tengono la possibilità di ottenere, attraverso la scuola, una “patente” di scrittore.
    Infine un ultimo spunto. Come suggeriva Claudio Ciriaco, forse è meglio scoraggiare che incoraggiare a scrivere. In un clima di deriva editolirialistica come quello attuale, in cui tutti scrivono e – dati ormai i bassi costi di pubblicazione e la presenza di editori fortemente commerciali – pubblicano, incoraggiare le velleitarie aspirazioni delle borghesia media e alta (ché di figli di papà, come ha detto qualcuno, trattasi: chi pagherebbe determinate cifre per imparare a scrivere?) non è forse un gesto svantaggioso per la letteratura stessa?

  16. Malatesta ha svelato con quest’ultimi due interventi (uno il doppione dell’altro)un nocciolo d’uranio. Ma non si tratta esattamente di scoraggiare i giovani, ma di aprire loro gli occhi: incoraggiarli, semmai, a fare altro. Il problema è che la scrittura si presta più di molte altre forma d’arte a una malinterpretazione alla fonte. Abbiamo la carta, la penna (oggi il pc) sappiamo scrivere abbastanza correttamente, e abbiamo capito che se ci è riuscito lui, Mr.Y (e qui riprendo in mano il sacrosanto discorso di Malatesta sull’inflazione sudamericana di testi pubblicati), che scrive delle boiate tremende (perchè diciamolo, al 90% si pubblicano stronzate per fare “massa critica”), perchè non cidevo riuscire io? Io che scrivo con uno stile a metà tra il Faulkner di Luce d’agosto e il Dylan Thomas del suo periodo bruno-malto? Ecchecazzo, io son meglio di Y, son meglio di Z, io a questi gli faccio (faccio loro non si dice più?) un culo così. Un culo a metraggio. Ecco cosa c’è che non va. Che molti giovani si mettono in paragone coi loro coetanei o coi trentenni/quarantenni che pubblicano. E molti di loro, sempre per l’effetto notte “massa critica” sono scarsi. E i giovani,non si può dar lorotorto su questo, dicono che son meglio loro a e magari non è vero perchè sono leggermente più cani, ma insomma la differenza non è molta. Invece i riferimenti devono essere totali. Leggiti i russi insieme alle splatterate, leggiti Dylan Dog e poi Dylan Thomas e poi fatti il mazzo su Hemingway. E leggi soprattutto coloro che sapevano scrivere semplice e ti facevano vedere le stelle senza pr forza fartele rivedere. Leggi Moravia, piccolo; leggi Parise. Leggi Bianciardi e Henry Miller tradotto dallo stesso Bianciardi. Trasgredisci e ascolta il tuo sesto senso. Entra in libreria e come un rabdomante vai a caso sui classici. E poi vedi un pò se ti ci puoi minimamente, umilmente, molto umilmente, avvicinare.
    E intanto imponiti la lezione di vivere, non di succhiare il sangue ai tuoi ricchi genitori.

  17. Il problema è che tale mal interpretazione nasce anche, ma direi meglio viene alimentata dalla deformante e degenerativa pratica pseudo democratica delle Associazioni artistiche, in cui avviene l’illusivo lancio dello scrittore. Esso per propria disperazione nel voler vedere pubblicata la propria opera o almeno messa in risalto, cede irresponsabilmente con piena cognizione alle false lusinghe del direttore dell’Associazione, il quale s’adopra in tutto e per tutto per vedere tale e “talentuoso” “scrittore”, iscritto o forse sarebbe meglio “circoscritto”. L’individuo viene circuito, adulato e diciamo subisce un vero e proprio lavaggio del cervello. Quando tale e “talentuoso” individuo esce da quel contesto si sente in pieno diritto di fregiarsi del titolo di scrittore. Secondo voi questa è una pratica meno pericolosa dei corsi finalizzati ad estorcere soldi illudendo il partecipante?!

  18. Ciriaco nel tempo si è addolcito, me l’ha fatto notare Gabriella. Mi ricorda un po’ il percorso fatto dal mitico Carotenuto, che, detto fra noi, manca da molto tempo. Anzi, scusate l’invasione di campo: Dottor Carotenuto, ci leggi ancora? Che pensi delle cose dette qui, in questo post?

    ciao, scusate, tolgo il disturbo, gianni

  19. Biondillo, lei è di una simpatia che prorompe (e naturalmente non rompe). Non so se mi sono addolcito. In fondo è da poco che scrivo su questo sito.
    Ps: sto leggendo il suo libro; complimenti, ha ragione il D’Orrico.

  20. Grazie, troppo gentile. in effetti mi sono sempre sentito un po’ un soprammobile, o un nano da giardino. Goffo e ridicolo di fronte al mondo.

    … ma tanto simpatico…

    G.

  21. Non basta essere un filosofo per farne un’insegnante di filosofia, non basta essere il migliore venditore di una azienda per farne un
    formatore di venditori, non basta essere uno scrittore per divenire un insegnante di scrittura, non basta essere un grande calciatore per farne nemmeno un mediocre allenatore, non basta essere un campione di bodybuilding per farne un allenatore che sa costruire nuovi fisici . Le qualità che servono alla didattica appartengono a un segmento dell’apprendimento che non può ignorare un principio fondamentale: il modo come io apprendo non è necessariamente o sempre possibile esportarlo e fatto proprio da altri. Un bravo didatta, di qualsiasi cosa si tratti, deve, dovrebbe capire quali sono le vie, i metodi più consoni all’esperienza soggettiva dei suoi allievi, di ogni suo singolo allievo.
    Un bravo insegnante di italiano, pur non essendo uno scrittore, se è un bravo didatta, è in grado di insegnare scrittura, come certamente ci saranno scrittori che sono anche bravi insegnanti, in possesso di didattica. L’acquisizione non è però automatica, né certificata dalla categoria dello scrittore.
    Ci sono anche bravi scrittori incapaci di insegnare scrittura perché non riescono a trasferire la loro esperienza di apprendimento ai presunti allievi, né sono in grado di strutturare un piano di scoperta
    dell’esperienza della scrittura per i loro allievi; ignorano la possibilità e la necessità di dover capire come un loro allievo
    potrebbe, per come è strutturato, apprendere. E’ evidente che chi insegna qualcosa debba avere una seppure esperienza minima di cosa insegna, ma è una grande ingenuità pensare che “insegnare qualcosa” sia travasare come io ho appreso (sempre che poi io sappia come apprendo, e
    poi eventualmente sappia comunicare come io so di avere appreso, e qualora sappia e sappia fare tutto questo, non basta, non è assolutamente detto che vada bene per un altro; in genere non va proprio bene per un altro!) ad un altra persona. Non sono contro le scuole di scrittura, spero ne sorgano di più ma competenti; ma certo
    che di persone valide che sanno insegnare a scrivere ce ne sono poche.La sensibilità linguistica, l’interesse ai molteplici aspetti della comunicazione scritta e della scrittura in generale o nello specifico dei generi di scrittura, gli aspetti del significato, l’esercitazione ai temi della complessità dell’infrastruttura semantica fluente,
    dell’intensionalità e dell’estensionalità, del differenziale cronodetico fra progetto linguistico ed espressione, l’esercitazione al
    disvelamento dell’implicito, l’esercitazione all’attenzione percettiva della realtà, l’esercitazione a sottolineare la reificazione e
    all’introiezione della logica cosale, lo studio e l’esercitazione sull’alone semantico, sulla natura segnica della scrittura (ambiguità,
    indeterminazione, genericità, metafora, metonimia, polisemia, ecc…), sui meccanismi semantici dell’inconscio, sulla distinzione di
    traferibilità fra linguaggio profondo e linguaggio superficiale, sull’uso della parti del discorso (aggettivi, verbi, ect…) sono una
    necessità didattica e rimedio forte all’abuso d’inconscio che diversi scrittori che insegnano scrittura esercitano nei confronti dei loro
    allievi, in quanto ignorano tutto questo e ciò che poi alla fine insegnano è quello che meno importa e serve a chi vuole scrivere, e che potrebbe benissimo fare a meno di questo tipo di scrittore che crede di insegnare scrittura. C’è tutta una mitologia fantastica su certi
    scrittori famosi, di successo, di tendenza che hanno insegnato scrittura nelle università o altrove. L’anticipazione della noesi e della prassi è incremento e disvelamento delle potenzialità multiple. Fin dai primordi della psicologia sperimentale e della psicofisiologia dello sport, si prese in esame l’effetto cronodetico dell’allenamento (aumento della velocità di esecuzione e miglioramento delle prestazioni). Quindi la sperimentazione rivelò che l’allenamento ad agire con crescente
    rapidità, precisione e duttilità non appartiene solo al genere di attività come suonare uno strumento musicale, scrivere a macchina o
    camminare in equilibrio su una fune, ma anche alle attività conoscitive, alle azioni complesse, al lavoro intellettuale. Esiste
    nell’agire umano una quota parassitaria di coscienza che va gradatamente soppressa con l’allenamento e l’esercitazione (tralasciando la letteratura specializzata su questo discorso, ricordo: Kohler W. 1945, Keys K.S.195; Bagnara S. 1984, 1986; Dilts R, Grinder, Bandler Delozier 1980).
    Ma un punto è molto importante: mentre gli errori dell’esecuzione musicale vengono pazientemente corretti e il ritmo utilmente e
    gradatamente accellerato, mentre l’imbarazzo e la legnosità delle prime esecuzioni cedono alla ricchezza di coloriti e di sfumature, questo
    procedimento non viene seguito nella preparazione degli scrittori che
    insegnano, dagli insegnanti nelle scuole, nella preparazione dei quadri professionali, scientifici e intellettuali in relazione al pensare, allo scrivere, parlare, fare un lavoro di ricerca, condurre operazioni complesse (o meglio: questo tipo di allenamento connessionale, quasi completamente ignorato da molte scuole di scrittura o a scuola e all’università, viene oggi utilizzato molto settorialmente e solo per alcune attività complesse come ad esempio nelle scuole di arte teatrale e cinematografica, o nelle forme nuove di training per la pubblicità e nel marketing).
    In più devo dire con forza un cosa in senso lato sull’apprendimento. Nel presente periodo storico ciò che viene insegnato ai bambini e poi ai ragazzi delle scuole secondarie e agli studenti dell’università è rallentare tutto: i ridicoli divieti di iscriversi alla prima classe elementare prima di una certa età non sono che l’altro volto della generale credenza che gli esseri umani divengono intelligenti solo
    quando incominciano a somigliare agli adulti: la psicologia cognitivistica attuale, gli scacchi, l’informatica e gli studi sulla delinquenza minorile dicono sperimentalmente il contrario!
    Altro discorso è poi ciò che viene fatto a scuola!

  22. Thanks God is friday… E c’è il mitico Luminamenti.
    (Interessante in particolare il tuo discorso sulla velocità di apprendimento).

  23. siete dei poveracci. avete eliminato il mio messaggio che diceva: “no, luminamenti no!”. anche la censura adesso?

  24. Veramente il messaggio “no, luminamenti no” è nell’altra finestra dei commenti: al pezzo di Montanari… dovrebbe ricordarsi dove posta, gentile ******* !

  25. Gentile ********, fino a quando ozierai beato in excelsis ospite ignoto della sgomitolante moira, a incatramare, invisibile, di questue religiose sub species inferories sui, la improvvida accortezza del canapo del naspo rutilante negli inferi occidui si terrà pronto per il suo fantoccio esangue che nella miscredente trasfigurazione di ogni mostruoso tabor rovesciato nei deserti mondani di un forum, vorrebbe accogliere i cori supplici intercessori di vocianti maledizioni che mi vorrebbero fare smettere ogni excelsis trionfante e lasciare inascoltato il mio cantare che ho recintato nel settimo giorno, nell’ottusa sordità della sua festa inumana.

  26. Grazie a te riprende vita e può darsi che ti faccia risuscitare a un minimo di fantasia nel saper dire due parole messe in fila che ci consolino…E’ acerba la palinodia del morire, che resuscita ritorni ancestrali e concede di riascoltare la litaniante sequela che ti assicura i benefici della sua deità e l’usufrutto chierico della mia benevolenza creaturale che ti offro generosamente donanti il mio tempo! Quando arrivando a quel sacro spazio dove per sempre tu sarai congiunto al coro dei miei eletti, anche tu diverrai mia musica! Alle soglie accordato lo strumento su questo mio canto mi soffermo a pensarti. Questo svelamento del mio ritorno di luce (lumina-la-tua-menti) per fretum febris attraverso questo stretti al morire, m’illumina scorgere in queste vie il tuo tramonto. A me il tuo declino solo danno può recare! Mi dispiacerebbe che tu declinando sul pendente lucreziano ti acconci alla flagranza atomica e mercenaria del lucro nefasto delle fastose ordalie empiamente penitenziali, e reciti umilmente un deflagrante nunc dimittis che cerca il suo dio, e naufragando nomade vagabondo non vorrei che tu diventi l’antiveggente elegia o acerbo primaticcio, presago della disfatta del mio frutto postremo! Più profonde ferite che a me inflisse il tuo tacere, più grandi stelle ti irretiscono nella loro insidia di sguardi, più bianca cenere giace sulla tua parola cui hai creduto. Stai attento ai miasmi edenici della morta gora che crocefigge empiamente i gorghi indemoniati che ti possono fare affogare nel mio cifrario rabbinico delle sinossi kabbalhistiche e sotterrino lo Stige navigato dai tuoi cenci disfatti. Placa la tua lamentazione che non riesce a essere jobica,né ira di lamentazioni primordiali per violato verginale! Non liberarti da questa mia croce, legno inconsutile del tuo dolore insignificante che andrebbe reso possente, àncora segretamente luminescente che incatena la zavorra della vita alla terra trasvolata dall’ombra splendente della mia ala che falca l’infinito! Se mi ascolti, se ascolti il silenzio, se ti ascolti, se sfami l’astinenza tenebrosa con il mio numen, non puoi poi trastullarti con l’impotente gioco dei tuoi verbi muti e rassegnati al ghetto filisteo del transustanziato fonèma di una metonimia idolatra: mai nelle tue orecchie ti percosse un forte duolo? Se così fosse, c’è speranza che tu fiorisca dal meristema, nell’onda nudo come una preda dalla tristezza infinita mutante nell’innamorato moto specchiato su di me, e ti porterò a navigare gli indomati dolcissimi flutti egei e canterai per me fedele negli splendori luciferi l’ardente scirocco che inanella folate stellanti il frangersi insonne della tua onda appisolata sulla mia tempestosa in calma piatta. Figlio mio, come può accadere che tu soffra così miseramente a tal punto questo bello sconsolato che mi appartiene? Nell’anima si edifica la parola a farsi corpo, a seguir la Quinta lezione di ebraico, e annienta ogni mistero per quelli che stanno sulla pelle di toro stesa tra i fiumi. Così, Tempio del Tempo, in un sospir riassunto, eone yogico, salgo e m’abituo a questo puro punto inanimato che sei, e cinto del mio marin sguardo lontano, nell’offerta mia suprema, lo scintillio sereno dissemino, sopra l’altura un disdegno sovrano…

  27. Ciao Lumina. Qui hai ancor più superato te stesso. A questo punto, urge dirti di preparare più che mai il materiale per ciò che sai tu. Ciao ciao Fabrizio!

  28. Se fossi costretto a rinunciare al mio dilettantismo, è nell’urlo che vorrei specializzarmi.

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