MeTrou!
Metromania 1
di
Paolo Melissi detto Melpunk
Una città è tua se ci sei nato o se la conquisti. La seconda possibilità è la mia. Una città si conquista percorrendo diverse strade. Ognuna di queste va percorsa un passo alla volta: la città va camminata palmo a palmo, con metodo, imparandone le commessure della pavimentazione, consumandoci le suole, guardandola, spiandola e, soprattutto, tracciando nel suo tessuto dei percorsi, luoghi da collegare. Si prendono così le misure alle distanze, si rende famigliare ciò che non lo è mai stato, si acquisiscono abitudini, si impara a guardare in faccia l’ignoto che, poco a poco, si rassicura nella consuetudine. Si costruisce una mappa personale, disegnata dal flusso delle abitudini ma anche dei gusti, delle inclinazioni. Si scelgono i pezzi della città da cucire insieme, i quartieri, gli edifici, i monumenti, le strade. Poco alla volta si individua il codice o l’alfabeto secondo i quali vive e dorme quella città, si imparano le strutture, le ricorrenze, le peculiarità. Le impara l’occhio, prima del pensiero. C’è una rassicurazione nel camminare, il cui orizzonte si sposta all’avanzare del campo visivo, ruota nell’angolo di centottanta gradi. Per quanto sia irregolare il moto lo sguardo è sempre avanti. E colonizza. Rende abitabile.
Doveva essere una necessità profonda fin dall’arrivo, quella. Faceva freddo, aveva nevicato da poco. C’erano ovunque cumuli di sporca neve ghiacciata nella mia prima mattina a Milano. L’aria fredda attraversava il tessuto del giaccone adatto ad altra latitudine. Dovevo andare da qualche parte e, dopo un breve tragitto, scesi nella metropolitana, in una stazione della Linea 1. Entrai nel bar per fare colazione. Il freddo aveva aumentato la mia fame. Chiesi un caffè e un cornetto. Il barista mi guardò perplesso e rimase allocchito e sfavellato dietro il bancone. Un cornetto, chiesi ancora, e il barista si rinfavellò trovando il fiato per dire, Non ne abbiamo in questa stagione. Pensai che fosse un ebete, allora, visto che sul bancone c’era una teca di plastica trasparente strapiena di cornetti, per di più caldi. E questi cosa sono, chiesi al presunto ebete, incerto se fosse solo ebete o avesse anche qualche prevenzione nei confronti del mio accento da immigrato interno. Ah, sfiatò, Vuole dire brioche!
Presi la metropolitana in stato di confusione. Per la brioche e per i nomi strani che c’erano sulla piantina: Rogoredo, Molino Dorino, Cascina Burrona, Inganni, Porto di Mare, Precotto. Ero spaesato, fuori dal paese ma nello stesso Paese. Non è facile o, almeno, non era facile in quel momento non esserlo. Solo uno straniero può sapere quanto siano ostili i volti di chi passa per strada, e quanto possano spaventare i nomi delle fermate di una linea della metro. In quel momento individuare un punto di riferimento visivo nella città, nella città piatta, era già uno sforzo. Era necessario trovare l’orientamento, imparare le cose che andavano imparate, accettare la fisiognomica cambiata, la gestualità e le espressioni, le voci e gli accenti, assecondare lentamente il processo dell’adattarsi, del prendere le misure alla città, trasformandola centimetro dopo centimetro in qualcosa di buono da pensare. Finché èsconosciuta, anche una città come Milano, per quanto semplice da percorrere nella sua struttura radiale, può apparire confusa, caotica e non per il traffico. Può frastornare, confondere le idee. Smarrire.
Si smarrisce la strada, la ragione ma anche una città.
Presto mi accorsi che con la metropolitana, nonostante lo straniamento, era più facile spostarsi, e un primo contatto con la città diventava un processo più agevole anche percorrendo tunnel umidi spruzzati di scintille dei freni. Si poteva raggiungere un luogo in pochi minuti e non era necessario perdersi, sbagliare strada, chiedere continuamente informazioni, tornare sui propri passi, vagare a casaccio nonostante gli occhi incollati alla cartina stradale. Viaggiare a bordo di un vagone della metropolitana è una variabile del camminare, in cui le azioni del vedere, dell’afferrare, sono traslate e differite: del vedere, dell’afferrare, sono traslate e differite: preludono mentre scorrono parallele. Andare in metropolitana non è solo muoversi sotto terra con velocità stando dentro una talpa metallica che stride sui binari. Significa anche percorrere una città. Cambia il punto di vista. Percorrere le strade sotterranee è un altro modo per aver ragione, un giorno dopo l’altro, del mondo ignoto, abituarsi ad abitarlo e, svegliandosi un giorno, riconoscerlo come più familiare. Perché, come diceva Georges Perec, si possa passare da uno spazio all’altro evitando di farsi troppo male.
Ho scoperto la passione per le metropolitane a diciotto anni, quando andai per la prima volta a Parigi. Per me che arrivavo da Napoli, dove fino a pochi anni fa c’era solo una tratta che correva sulla linea ferroviaria e che puzzava spesso di creolina, entrare nella ragnatela del métro parigino fu una rivelazione. Appresi subito l’esercizio che è l’attraversare la città cambiando linee, passando incroci, percorrendo lunghi corridoi e tapis-roulant d’acciaio. Leggevo i nomi delle fermate come parti di un testo poetico che attendeva di essere composto: Cité Universitaire, Denfert-Rochereau, Port Royal, Luxembourg, Cluny-La Sorbonne, St. Michel, o République, Oberkampf, St. Ambroise, Voltaire, Charonne, Boulets Montreuil, Dupleix, La Motte-Piquet- Grenelle, Cambronne, Sèvres Lecombe, Pasteur, Montparnasse Bienvenue. Il fascino della città di superficie si ripeteva anche sotto terra. Si poteva scrivere della città sotterranea come di quella esposta alla luce del sole. Come si può fare per la metropolitana di una città italiana.
Così l’accesso sotterraneo, percorrere le vie illuminate dai neon, può condurre più rapidamente alla città esposta al sole. O quanto meno alla bassa cappa di nuvole che lo nasconde.
Ora, non so se finirò per fare come certe persone di cui parla Alex Roggero ne Il treno per Babylon. Quelle persone, a Londra, che “vagano per la città dalle prime ore dell’alba, rincorrendo sequenze di numeri di griglia a casaccio nella mappa A-Z. Quelle persone vengono chiamate psicogeografi”.
Con maggiori certezze e, forse, minore casualità, continuo ad attraversare la rete metropolitana di Milano. E posso dire con certezza che la metropolitana mi ha dato una mano.
- da Metro Milano, Manuale per conquistare una città,Cahier di viaggio, a cura di Francesca Mazzucato per Historica Edizioni↩
I commenti a questo post sono chiusi
Bel post, mi ci riconosco. Sto facendo il percorso inverso, da una città-brioche a una città-cornetto e gli spostamenti in metropolitana rappresentano il primo tentativo che faccio di radicarmi, imparando i nomi delle fermate, le direzioni, studiando le facce e le parlate. E anche per me Parigi è innanzitutto la sua rete sotterranea, specchio infero e ctonio della sua superficie.
A proposito del metrò (maschile) parigino rispetto alla metro (femminile) di milano, quel che so, dopo un quindicennio di praticantato è che quasi tutte le linee parisiennes, partono povere (M-Porte de Clignancourt) per ritornare povere (M- Porte d’Orleans) dopo avere “raccontato” ogni minima variazione sul tema della bourgeoisie cittadina. Quella borghese varietè e pop Tati (M- barbès) quella tessile puttaniera e Boulevard (M-Strasbourg- St. Denis vs Sentier) quella branché moda (Etienne Marcel) e quella Art Contemporain ( Les Halles) quella teatrale (chatelet) quella gauche caviar (politica) (M-St Michel) e la gauche caviar letteraria et cinoche (M-Odeon) la caviar e basta (st.Germain de près) e quella cafè Restos (M-Montparnasse) quella Hautes Etudes (M-Raspail) per quella nodale Sud (M-Denfert). C’è una sola linea che attraversa tutta la città. e parte ricca e giunge ricca, ricca restandola (gare d’Austerlitz- Boulogne) quella, per intenderci in cui ti può capitare di incontrare gente in tenuta da equitazione o golf.
Comunque sia, accattateve ‘o libre (segue musichetta conseil d’achat)
effeffe
pitié per la mia claustrofobia!
Ogni volta che prendo il metro, il mio cuore manca di fermarsi.
Mi manca il respiro. Preferisco la superficie con l’autobus.
effeffe,
a quando una guida di parigi di tuo pugno? sarebbe, immagino, una guida per dis-perdersi, non per ri-trovarsi
grazie effeffe e frazie a sergio garufi. devo essere sintetico ora!
sergio
in bocca al lupo per il “debriosciamento” allora
Melpunk ,
Ho amato il brano e dovrei leggere per vincere la mia malattia.
Prendre il metro a Parigi è un dolore fisico, mentale. La mia grande
paura è di rimanere tra due stazioni. Se guardo con ansietà i nomi è per sapere quando potrei uscire. E’ strano non ho provato questo a Roma.
Il metro di Milano l’ho preso, ma non sola, e quando sono accompagnata, la mia angoscia se ne va. Ma di manera genrale, ho l’impressione di soffocare.
Una domanda: hai dedicato un brano a quelli che hanno paura del metro, metrou?
Vorrei aggiungere, ma ho paura di passare per uan “rompiballe”, che amo invece di te, perdermi nella città, chiedere al passante il mio cammino, vedere il cielo, respirare, fermarmi, cercare.
Nel metro non vedo niente, guardo i miei piedi, perché sento che l’angoscia mi prende, e incontrare occhi indifferenti mi fa sentire ancora più male.
Sans rancune?
Amo all’invece di te
veronique
ah, sono cose che possono capitare. per me invece non c’è differenza tra sopra e sotto, vivo le cose allo stesso modo. però tu leggi che magari ti passa :::))
allìinvece di te , c’est une pure merveille!
effeffe
Bel pezzo :)
bella la s\crittura,il progetto ,l’idea
di parola anima luogo
una meravigliosa piccola felice visione
un caro saluto
c.
carmine
e contiene anche una serie di esercizi
bel pezzo, stimolante.
pensavo all’incontrare, all’atto di conoscenza reciproca. anche con le “cose”.
cristiano
cristiano
è un “qualcosa” presente in tutto il lbro direi. grazie
pm
che palle costruire un commento pur di spendere un aggettivo pretenzioso e qui superfluo come ctonio
qui sotto posto il link alla presentazione del libro a Milano
http://www.youtube.com/watch?v=VXlrXYpufDo
margriet
ah, certo: ctonio lo userei per Mefite e pochi altri.
Grazie!!!!
p
La prima volta che nevicò a Milano da quando ci vivevo, uscii di casa senza ombrello, tanto mica è pioggia? è solo neve. Dopo pochi istanti di attesa del tram in Piazza Missori ero un pupazzo imbiancato. La gente mi guardava strano.
a milano guardare strano è un habitus normale
effeffe :-)
Carlo Capone, bellissimo la neve nei capelli,
la neve rende tutto come favola,
la neve come stelle sul cappotto.
In milano ti guardano, a Parigi passano
senza vedere, guardare è come marca di scortesia.
Per fortuna vengo presto in Italia.