Luce, buio. Didi-Huberman
UNA ALLEGORIA POLITICA RISCHIARATA DALLE LUCCIOLE
Nel 1975 Pier Paolo Pasolini scrive per il Corriere della Sera una pagina diventata in seguito famosa come L’articolo delle lucciole. Le lucciole, racconta, metafora del sottoproletariato nell’Italia del Centro-Sud degli anni ’60, non esistono più, annichilite dalla luce abbagliane dei fari del “neofascismo dei consumi”, umiliate da un conformismo che ne ha distrutto ogni tratto peculiare.
Oggi, più di trent’anni dopo, Georges Didi-Huberman, storico dell’arte tra i più autorevoli della nostra contemporaneità, risponde alla provocazione pasoliniana con un’altra provocazione. Non sono le lucciole a essere scomparse, ma è lo sguardo disilluso di buona parte della nostra cultura filosofica ad aver perso il dono di vederne la sagoma evanescente, non sapendo più riconoscere, nel bagno di luce violento e massivo imposto dalle nuove “società dello spettacolo”, ogni forma, pur tenue, di speranza.
Abbiamo incontrato Didi-Huberman a Roma, in occasione della sua conferenza di stasera a Villa Medici per il ciclo di proiezioni “Pasolini/De Martino: scienza dei gesti e danza dei conflitti”, e abbiamo discusso con lui del suo ultimo libro (che uscirà in aprile da Bollati Boringhieri con il titolo Come le lucciole. Una teoria della sopravvivenza), e di questa nuova apertura del suo pensiero critico.
Quando lei definisce le tematiche del mio discorso come “ossessioni politiche”, non posso che darle ragione. Descrivere la situazione delle donne in un ospedale psichiatrico nel XIX° secolo significa, di fatto, avere a che fare con un problema politico. Devo dire però che soltanto recentemente sono riuscito a chiarire a me stesso quanto queste “ossessioni” abbiano avuto una parte davvero fondamentale all’interno di tutto il mio lavoro. Per anni infatti, una sorta di inquietudine verso l’oggetto politico in sé mi ha sempre impedito di rubricare la politica sotto la sfera delle mie competenze, quasi riconoscessi in me una sorta di incapacità nel saper formulare una regola d’azione che fosse unilateralmente buona. La politica però, di fatto, appartiene alla storia dell’arte come un dato impossibile da aggirare, basta soltanto pensare a quel cambiamento epocale che è stato innescato, durante la Seconda guerra mondiale, dalla migrazione forzata dell’intera comunità degli storici dell’arte ebrei-tedeschi in territorio anglosassone.
Ancor prima di questo ultimo testo (il cui titolo francese è La survivance des lucioles), direi però che è stato, in realtà, il mio testo sulle immagini di Auschwitz a rappresentare un punto di svolta sul rapporto tra arte e politica. La violentissima polemica che è nata dalla pubblicazione di quel libro, ha cambiato considerevolmente la mia idea su che cosa significhi oggi essere storico dell’arte. Ogni volta che commentiamo un’immagine, in effetti, facciamo della politica. Parlare delle immagini significa, di fatto, “prendere posizione” riguardo all’efficacia di queste stesse immagini sulla comunità. A posteriori, devo dire che la più grande “ossessione” del mio lavoro è stata, ed è tuttora, quella di capire quale sia il rapporto tra dolore e immagine. Non è l’immagine a interessarmi in quanto tale, ma ciò che questa immagine veicola sul dolore degli uomini, sulla sofferenza dell’umano.
A differenza della lingua italiana, in francese esistono due termini per indicare la sopravvivenza: survivance e survie. La survie è quando tutti sono morti intorno a noi, e noi invece siamo ancora e inaspettatamente vivi. Un chiarissimo esempio di survie è Philip Müller, uno dei membri del Sonderkommando di Auschwitz: Müller sarebbe dovuto morire, ma per un caso fortuito è sopravvissuto. Nel campo della storia delle immagini, così come l’ha teorizzata Warburg, la survivance è invece la sopravvivenza alla propria stessa scomparsa. La survivance riguarda tutto ciò che si credeva morto, obsoleto, finito e che invece, in altri luoghi, in altri momenti della Storia, ritorna nuovamente alla superficie del mondo. Per rispondere alla sua domanda, credo che nel caso specifico delle lucciole si possano trovare entrambi i termini mescolati. Le “mie” lucciole sono un’allegoria politica che unisce sia i sopravvissuti nel senso della survie (sopravvivere allo stato di fatto che ci viene imposto), sia quelle immagini dormienti che riaffiorano per effetto di una vera e propria survivance nel corso del tempo.
Per Warburg ogni oggetto culturale è il risultato e il vettore di una migrazione. Prendiamo ad esempio uno dei libri più warburghiani che esistano al mondo: la Storia del ritratto in cera di Julius von Schlosser. Questo libro è straordinario perché ci mostra che, se si vuole seguire una sopravvivenza, è necessario passare da un dominio sociale a un altro. Le effigi in cera, fino al XVIII° secolo, erano prerogativa dei re. Il problema è che con la rivoluzione francese, le teste reali cominciano a cadere una dopo l’altra. E l’artigiano incaricato di effigiare Luigi XVI, al momento della sua morte cosa fa allora per salvare il suo lavoro? Va con il popolo, inizia a eseguire i calchi delle teste dei ghigliottinati, attuando con questa sua nuova collezione di ritratti quel “cambio di registro” di cui possiamo ritrovare traccia oggi nel Musée Grévin, museo delle cere a carattere espressamente popolare. Non ci può essere sopravvivenza senza spostamento temporale e sociale.
Cosa fanno gli artisti, gli scrittori, gli studiosi con il loro lavoro ? Niente altro che mettere in atto la capacità critica dello sguardo attraverso questa concezione di continuo spostamento. La peggiore delle cose è credere che la storia del pensiero si svolga nel territorio di un unico dominio. Lo stesso Pasolini si è sempre spostato da un dominio all’altro. Dalla poesia nazionale italiana, alla poesia in dialetto friulano. Dalla rappresentazione dell’eroe borghese, all’eroe sottoproletario di Accattone. Probabilmente l’Articolo delle lucciole coincide per Pasolini con un momento di stasi, di non-spostamento; ed ecco allora, ai suoi occhi, ogni cosa prendere necessariamente una sfumatura di morte.
si chiude con l’immagine di un rifugiato curdo, di notte, nel campo francese di Sangatte, colto nell’atto, folle e insieme pieno di grazia, di danzare. Prima del suo tentativo di fuga verso l’Inghilterra, la gioia dionisiaca di un uomo sulla soglia del proprio destino, viene presa da lei a esempio di quanto lo sguardo critico dell’ultimo Pasolini si fosse fatto cieco a ogni possibilità di speranza. Questa immagine, la danza dell’innocente di fronte alla tragedia, è però, direi, un’immagine del tutto pasoliniana.
Le sono molto grato per questa sua osservazione, perché mi permette di chiarire quanto il mio libro non rappresenti affatto, come è stato detto in Francia, una presa di distanza nei confronti di Pasolini e di Giorgio Agamben, due autori per i quali nutro la massima stima e ammirazione. Anzi, direi che è proprio grazie al Pasolini di Accattone che io oggi sono in grado di osservare questo rifugiato curdo in maniera così intensa e di cogliere nella sua danza una sorta di gioia malgrado tutto. Quella stessa gioia malgrado la fame, la stanchezza, la paura che Pasolini definisce come Abgioia, mescolanza di dolore e gioco, espressione fisica dell’irrinunciabilità della vita all’interno della tragicità dell’esistenza. Quando Benjamin parla di “organizzare il pessimismo attraverso uno spazio di immagine” non posso fare a meno di pensare a Pasolini. Ogni personalità creativa molto spesso si accompagna a una sorta di sinusoide di stati psichici al cui limite estremo si trova la psicosi maniaco-depressiva di cui soffriva Warburg. Nel momento in cui Pasolini non riesce più a vedere le lucciole, la linea di questa sinusoide è arrivata probabilmente, per lui, a toccare il suo punto più basso, ma tutto questo non significa affatto che attraverso il proprio lavoro Pasolini non sia riuscito in altri momenti a “organizzare il suo pessimismo”.
La cosa è un po’ più complessa. Negli anni ‘20-‘30 sono due i grandi maestri del montaggio: Eisenstein da un lato, e Leni Riefenstahl con il suo Trionfo della volontà dall’altro. Come si può ben vedere da questo esempio, il montaggio non ha in sé alcuno statuto speciale, tutto dipende dal valore di utilizzo che gli si dà. Riprendendo Warburg, direi che il montaggio è la forma obbligata per sfuggire a una genealogia lineare del racconto. Di fronte al modello di una temporalità che si presenta non più come una serie di “tradizioni”, ma di “sopravvivenze”, siamo obbligati ai tagli e agli spostamenti del montaggio perché solo così possiamo rendere conto dei necessari “vuoti”, della necessaria sparizione di alcuni elementi del nostro insieme. Il montaggio diventa allora una sorta di riformulazione dei rapporti di genealogia tra le immagini, la maniera di produrre una conoscenza non-standard.
Certamente. Il linguaggio più significativo che si possa mai formulare, non può che formarsi a partire da un momento di buio, di impossibilità di parola. Anche il linguaggio, in quanto linguaggio-lucciola, è un linguaggio malgrado tutto. La tesi di Survivance des lucioles credo si possa riassumere perfettamente nell’esortazione ad accompagnare ogni nostro “no” concettuale con un “sì” rispetto a quello che noi, in quel momento, stiamo rivendicando. Oggi come oggi, i due filosofi che sollecitano maggiormente il mio interesse, Deleuze e Foucault, sono infatti, a ben guardare, due persone che hanno anche saputo ridere, gioire nella forma più intensa concessa a un essere umano. Nel momento in cui mi rivolgo a loro, non provo soltanto stima per la loro coscienza critica, per la loro lucida capacità di dire “no”, ma anche perché sono stati in grado di ridere malgrado tutto, perché hanno saputo, malgrado tutto, dire ancora una volta “sì”.
(pubblicato su il manifesto, 20/2/2010)
bellissima intervista.
Ho letto La survivance des lucioles un paio di mesi fa, e dentro vi ho trovato una frase molto bella (che traduco con il mio francese cattivo)
“I profeti della disgrazia, coloro che imprecano, sono folli e demoralizzatori agli occhi di alcuni, profetici e affascinanti agli occhi di altri. E’ facile condannare (réprouver) il tono pasoliniano, con i suoi accenti apocalittici, le sue esagerazioni, le sue iperbole, le sue provocazioni. Ma come non provare (éprouver) la sua stessa inquietudine lancinante quando tutto, nell’Italia di oggi – per non parlare che dell’Italia -, sembra corrispondere sempre di più all’infernale descrizione proposta dal cineasta ribelle? Come non vedere all’opera quel fascismo televisivo di cui parla? un neofascismo che esita sempre meno a riassumere tutte le rappresentazioni del fascismo storico che l’ha preceduto?”
L’immagine-francobollo è tratta dal film “Una tomba per le lucciole” di Isao Takahata. Un capolavoro del cinema che la tv nazionale giapponese trasmette ogni anno per ricordare la guerra mondiale.
Chi ha intenzione di vederlo si prepari a un film durissimo.
Chi pensa che il cinema di animazione, diretto a un pubblico universale – e universale significa anche i marmocchi – non possa stare più in alto Pasolini, si prepari a una tranvata intellettuale (sempre meglio che una tranvata fisica).
http://laefe.files.wordpress.com/2008/07/una-tomba-per-le-lucciole.jpg
http://it.wikipedia.org/wiki/Una_tomba_per_le_lucciole