Gli abusivi e le lettere
di
Felice Piemontese
Luciano Caruso- Il palazzo di Odisseo.
Caro Luciano, 1
provo a immaginare cosa proveresti nel vedere che tutti si occupano, oggi, di Futurismo, e ignorano chi l’ha fatto trent’anni fa, in modo sistematico e avvertito, ripubblicando tutti i manifesti, ad esempio, e “riscoprendo”personaggi dimenticati come Cangiullo. Mi sembrava perfino esagerato tanto tuo impegno di fronte al diluvio di ristampe anastatiche, di grossi contenitori, di saggi che arrivavano continuamente a casa, spediti dal povero Belforte di Livorno, che chi sa se si è mai rifatto delle spese.
Il tuo trasferimento a Firenze, nel 1976, fu uno dei tanti traumi legati alla diaspora di amici e compagni di strada che, a un certo punto, gettavano la spugna e si dichiaravano sconfitti nel corpo a corpo con questa città, quella Napoli alla quale pochi anni prima avevamo dedicato un ritratto impietoso fin dal titolo, La disoccupazione mentale.
Un libro, da te pensato e da te fortissimamente voluto, che invece di fermarsi alla solita lamentazione, lasciava “parlare” la città stessa, attraverso le proprie istituzioni, i giornali, gli organismi ufficiali, per realizzare un originale autoritratto di quello che già veniva definito, con buona pace di Marc Augé, un “non luogo”. Nella consapevolezza, parliamo del 1972, che “Napoli va incontro a una disfatta totale”. Ma che “il fatto che si parli di Napoli è pretestuoso”, perché ciò che si dice su Napoli “è valido per molte altre città. Basta sovrapporle una sull’altra, per ritrovare le medesime situazioni”. Il che naturalmente è vero fino a un certo punto, ma sfatava un luogo comune assai diffuso, che porta i napoletani a sentirsi sempre “unici”, nel bene come, soprattutto, nel male.
Il libro fu accolto con l’indifferenza e il fastidio che si riservano ai rompiscatole, a quelli che perdono tempo con le loro elucubrazioni intellettuali, invece di “badare al sodo”. Di lì a non molto, del resto, ci sarebbero stati grandi rivolgimenti nella vita politica della città, con l’elezione – per la prima volta – di un sindaco comunista e di una giunta di sinistra, che avrebbero acceso grandi speranze, seguite dalle inevitabili delusioni. E la tua decisione di partire fu anche un gesto di consapevolezza, di lucidità, di rifiuto di firmare cambiali in bianco, come in tante occasioni ha fatto chi aveva invece deciso di rimanere. Quasi coetanei, cominciammo a frequentarci quando avevamo entrambi poco più di vent’anni. Tu, dopo una brillante laurea in filosofia, speravi in un posto all’università che ti era stato in qualche modo promesso, io cominciavo a lavorare nei giornali. Poi ti dissero brutalmente, o ti fecero capire, che per un guastafeste come te nell’università non c’era posto, e non ci sarebbe mai stato, e tu ripiegasti sull’insegnamento in una scuola.
Ci vedevamo quasi sempre a casa tua, nella palazzina del parco Grifeo in cui tuo padre faceva il portiere, poi in una libreria di piazza Municipio di cui eri direttore e unico commesso, e in cui non entrava mai nessuno, tanto che per tutto il tempo che durò facevamo lì le nostre riunioni. Eh sì, perché, come voleva l’epoca, avevamo costituito un gruppo, che si chiamava Continuum e si riprometteva, con molte mie riserve mentali, di superare l’individualismo artistico, la mistica del giovane artista, per un lavoro appunto di gruppo, in cui le diverse individualità trovassero una sintesi, producendo collettivamente opere d’arte visuali, manifesti artistico-politici, opuscoli di propaganda. Tu, del resto, eri quello che conosceva Debord e i situazionisti, che aveva contatti con artisti d’avanguardia di tutto il mondo, e corrispondevi con persone che vivevano in Giappone o in Perù, ma che condividevano questa spinta verso il nuovo, da noi considerato irresistibile, e volevano a tutti i costi “cambiare la vita”.
Pensavi tutto il male possibile del Gruppo 63 e della neo-avanguardia italiana, ma, stranamente, nemmeno la mia partecipazione all’ultimo incontro del Gruppo (quello che si svolse a Fano nel ’67) e poi alla rivista “Quindici” incrinò i nostri rapporti. Le tue collere erano furibonde, i tuoi sarcasmi micidiali, e non si poteva fare a meno di riconoscerti un ruolo “naturale” di leader, ma si riusciva a convivere anche facendo scelte differenti, e che consideravi sbagliate. Naturalmente, eravamo alla ricerca costante di editori, di mecenati, di sostenitori. Riuscimmo a stabilire un contatto con una rivista, “Uomini e idee”, che arrancava penosamente alla ricerca di una fisionomia, “convertendo” all’avanguardia il suo direttore Corrado Piancastelli, o almeno convincendolo a “convivere”, e a darci spazi sempre più grandi. La cosa migliore che riuscimmo a fare nella prima fase della rivista fu un “saggio collettivo” lucidamente delirante e con un titolo bellissimo, “L’eternità commestibile”.
Poi la rivista (fino a quel momento finanziata, chi sa perché, da un commerciante di pellami) trovò un editore “vero”, un certo Schettini, che da gallerista d’arte aveva deciso di fare il grande passo. Dedicammo un numero monografico a Emilio Villa, che era allora in certi ambienti un personaggio a giusta ragione mitico (e che sarebbe stato faticosamente “riscoperto” alcuni decenni dopo), pubblicammo, credo per la prima volta in Italia, testi dell’Internazionale Situazionista e altre rarità. Poi finirono i soldi e l’editore scomparve dalla circolazione, come era già accaduto e sarebbe accaduto ancora decine di volte.
Di ciò che si può definire “l’avanguardia napoletana” tu, Caruso, eri di sicuro la mente più lucida e quello con più capacità organizzative, oltre che ineccepibile archivista. Mostre, riviste, foglietti, tutto passava per le tue mani, suscitando ammirazione, invidie, gelosie, litigi, rotture insanabili talvolta seguite da clamorose rappacificazioni. Tutto questo ti stancò, a un certo punto, e decidesti di sciogliere il dilemma col quale ci tormentavamo da quando avevamo l’età della ragione: andarsene, o rimanere. A Firenze ti dedicasti soprattutto al Futurismo, e alla produzione di “libri d’artista” in copia unica o in edizioni limitate, come ti consentiva di fare l’asfittico ambiente artistico fiorentino. Facesti perfino, dopo alcuni anni, un tentativo di tornare a Napoli, ma la città che ti aveva ormai espunto si chiuse a riccio, e rifiutò “l’estraneo”. Tornavi ogni tanto, l’ultima volta quando già la malattia era in uno stadio terminale e la manifestazione alla quale partecipasti (stando malissimo) si annunciava come una specie di straziante cerimonia degli addii. Non me la sentii di partecipare, e me ne pentii, perché ci lasciasti per sempre solo poche settimane dopo, il 16 dicembre del 2002, ancora e sempre “eretico e marginale” come avevi scelto di essere (ma marginalità e rimozione non sono, con tutta evidenza, la stessa cosa).
- da Fantasmi vesuviani di Felice Piemontese – Hacca edizioni↩
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Bravo effeffe.
Ho molto gradito questo brano tratto dall’ultimo libro di Felice Piemontese.
Luciano Caruso è un artista ancora tutto da scoprire. E anche Luca Castellano (Luca), Stelio M. Martini, Enrico Bugli, Franco Cavallo, Franco Capasso (amici carissimi)…
Ricordo una mostra interessantissima, a Napoli, Villa Pignatelli, nella primavera del 1995: “Alchimia della scrittura”…
Il libro che mi ha offerto Salvatore brilla sulla scaffale, tra strada per Napoli e un libro di Anna Maria Ortese. Ogni volta che torno a casa è la prima cosa che vedo, questo cuore notturno che fa danzare il fuoco.
Mi sono letto un capitolo, presa nella magia di Napoli di ieri. Non ho tutto letto ancora, è questo brano evoca il punto di partenza, l’impossibilità di vivere la città, eccetto come fantasma, rimpianto, illusione.
Non si parla mai di Napoli con parole per altre città, si parla un linguaggio di sogno, di dolore, di erotismo. Napoli invita al traboccare della lingua, a un miracolo della creazione.
Non si puo palare di Napoli senza abbandonarsi alla pulsione dell’amore o dell’oddio.
Fantasmi Vesuviani è un memoriale ASCIUTTO, NECESSARIO su uomini, artisti e intellettuali scomodi, un po’ messi ai margini, ma che hanno davvero detto e fatto qualcosa di nuovo per questa amata e imprescindibile città/puttana sempre pronta al conformismo e al “teatro”, ma comunque capace di dire l’indicibile e il nuovo attraverso persone “postume”, cui il tempo restituirà forza e statura. Ecco, Felice Piemontese, alla sua maniera scarna, antiretorica, disincantata, scrive questo libro, ripeto, necessario, per rendere il giusto e il dovuto a persone quali il qui ricordato Luciano Caruso, Franco Cavallo, Franco Capasso, Lucio Amelio (bellissima la rievocazione del viaggio in sua compagnia a New York ),Domenico Rea, Giuseppe Recchia, Alberto Marotta, Fabrizia Ramondino, Nicola Pugliese, Mario Guida, Tullio Pironti,Roland Barthes, Jack Kerouac e straneri che hanno lasciato una qualche traccia a Napoli, grazie a Lucio Amelio soprattiutto, Michele Prisco, Luigi Compagnone e Luigi Incoronato. Insomma un memoriale sulla Napoli di chi aveva vent’anni agli inizi degli anni sessanta. Con uno stile leggero, delicato, che non concede nulla alla retorica, Piemontese scolpisce i tratti dei “grandi” (Rea, Compagnone) non mancando di rilevarne senza livore le miserie, dei grandi e misconosciuti ( Anna Maria Ortese) e di coloro che , ingiustamente, furuno un po’ messi ai margini come i citati Cavallo, Capasso, Luigi Incoronato, il cui tragico destino ha lasciato un segno nello stesso Piemontese.
Sì, un libro leggero, elegante e dal bel ritmo, che si fa leggere e apprezzare per lo stile misurato, che dice le cose come stavano ( e stanno) nel campo della cultura in questa città – capitale provinciale e cialtrona, ma anche cosmopolita e capace di grandi genialità, sempre legata ai vecchi vizi -allora come ora – anche nella “politica culturale”. In questo libro, dove ricordo, evocazione, lettera “postuma”, come quella qui riportata a Luciano Caruso, ritratto a tutto tondo, schizzo di persone e situazioni seguono sempre un “filo rosso” riconoscibile: restituire il giusto onore a chi ha davvero espresso il nuovo” e ne è stato espopriato dagli arrivisti e dai maneggioni svelti a smerciarlo e svilirlo nei compromessi di potere, e proporli alle generazioni che oggi lavorano nel campo delle nuove sperimentazioni, isolate, tlvolta con scarsa memoria storica ; una generazione senza “padri” artistici e/o letterari, che invece ne è tributaria e non lo sa. Questo , credo, sia uno degli intenti di FANTASMI VESUVIANI; e per chi conosce lo stile di Piemontese, dell’autore di EPIDEMIA, un gran bel romanzo scritto ventuno anni fa e ancora attualissimo, maestro di riscritture e di collagismo letterario (in Epidemia, Camus e Debord), leggendo FANTASMI VESUVIANI andrà sul sicuro, non vi troverà nemmeno una goccia di “passatismo”. No, troverà un documento asciutto che chi ha ventanni (e più) adesso – e ama leggere di cultura in modo non conformista- apprezzerà con vivo interesse, ne sono certo.