Wrestling Spoon River [vintage version]
di Carlo Carabba
La notte tra sabato 21 e domenica 22 novembre si terranno le Survivor Series, l’ultimo grande evento della stagione del wrestling. Gli organizzatori prevedono che il pacchetto pay-per-view che permette di vedere gli incontri in diretta sarà acquistato da 350.000 persone solo negli Stati Uniti d’America, e che gli spettatori sparsi per il mondo supereranno complessivamente il milione. Nel leggere questi dati, è facile immaginare la voce di migliaia di genitori che, rivolgendosi con tono sdegnato ai figli pubescenti rapiti davanti allo schermo, li scherniranno: “Come fate a guardare questa boiata? Non sapete che è tutto finto?”
Ai tempi della società dell’intrattenimento nessuno spettacolo è sottovalutato quanto il wrestling. È vero, non sono mancati estimatori illustri, su tutti Roland Barthes che al wrestling ha dedicato uno splendido saggio breve, ma la percezione generalmente diffusa è che il wrestling sia un sottoprodotto culturale buono per ragazzini citrulli e camionisti della West Virginia. Lo spettatore di wrestling è considerato una sorta di imbecille incapace di rendersi conto che Babbo Natale non esiste e che la lotta cui sta assistendo con tanto trasporto è assolutamente finta.
In realtà è lo stesso concetto di finzione messo in gioco dal wrestling a essere incredibilmente sofisticato.
Il wrestling è finto quanto lo è un libro o un film, nell’obbedienza a una trama preordinata scritta da alcuni sceneggiatori. Certo, il wrestling finge che quanto accade sul ring sia un vero combattimento, che le rivalità e le alleanze siano autentiche. Ma il wrestling non è un reality show non ha la pretesa (vera o presunta) di documentare la vita nel suo svolgersi. Il wrestling si fonda su un patto narrativo tra attore e spettatore. In un certo senso finge di fingere di essere vero: nessuna persona sana di mente, per quanto scema, potrebbe urlare eccitata alla vista di un indiano affetto da gigantismo che chiude nella bara un omaccione rossastro e tatuato vestito da becchino. Ma in un altro senso finge di essere finto. Ricordo un’intervista a Triple H, uno dei più grandi campioni degli ultimi anni. A un certo punto si diceva stufo di ricevere la domanda “Le sedie di metallo in testa fanno male?”. “Certo che fanno male, pezzi di idioti”, chiosava nervoso.
Che la vita del lottatore non sia rose e fiori c’è l’ha mostrato il regista Darren Aronofski, in uno dei film più importanti dell’anno passato, l’appassionato The wrestler. Ma la trama del film, per quanto drammatica, è una rappresentazione quasi edulcorata della realtà.
Il wrestler è un culturista di centoventi chili che sul ring effettua acrobazie circensi. Passa la sua vita a girare per la provincia americana come i fenomeni da baraccone delle fiere di paese da cui ha preso origine il wrestling come lo conosciamo oggi. Per reggere i ritmi dello spettacolo e ottenere il suo fisico paradossalmente muscoloso e agile fa uso di antidolorifici, steroidi e eccitanti di vari a natura (da qualche anno il wrestling ha chiesto e ottenuto di essere considerato non uno sport ma uno spettacolo, e i suoi atleti non sono tenuti ad alcun tipo di controllo della giustizia sportiva americana).
E molti dei wrestler professionisti non arrivano ai cinquant’anni. Su youtube girano decine di video amatoriali in cui scorrono in sequenza le immagini dei wrestler morti. A volte accanto al nome, alla data di nascita e di morte, compare in sovrimpressione la causa del decesso. Un paio di suicidi, qualche incidente e poi, soprattutto, morti di overdose, di cancro, di infarto.
E, come in una Spoon River virtuale, passano l’uno dopo l’altro sullo schermo i volti e i corpi dei caduti.
È morto Big Boss Man che, vestito da poliziotto, ammanettava gli avversari alle corde. È morto Ravishing Rick Rude, che si definiva l’uomo più sexy del mondo e prima di ogni incontro baciava una ragazza del pubblico che, per l’emozione, sveniva tra le sue braccia. È morto Mr Perfect, figlio di un campione degli anni sessanta, scorretto e antipatico, il wrestler più tecnico della sua generazione. È morto Chris Benoit, tra i titoli dei giornali, uno dei lottatori più amati dal pubblico, in un raptus di follia ha ucciso a mani nude moglie e figlio. È morto André The Giant, malinconico gigante francese, che sul fisico abnorme e mostruoso aveva costruito il proprio successo. È morta Sensational Sherry, la fidanzata cattiva di Macho Man Randy Savage, che colpiva coi tacchi gli avversari del compagno mentre l’arbitro era voltato. È morta Miss Elizabeth, bella e pura, la fidanzata buona di Macho Man, che aveva saputo riportarlo sulla retta via. Sono morti Bam Bam Bigelow, Terremoto e Yokozuna, sporchi e immensi, forze della natura inarrestabili ai miei occhi di bambino. Fa male vederli così. Qualcuno lo amavo, altri li odiavo, potevano cadere dalla corda più alta, venire schiacciati da un uomo di duecento chili, potevano essere colpiti in testa da un gong di acciaio, essere soffocati fino a perdere i sensi, ma sapevano sempre rialzarsi. Non potevano farsi male davvero: erano i miei eroi e poi, era tutto finto.
I grandi personaggi del cinema non muoiono: non muore James Bond, non muore Indiana Jones, non muoiono Luke e Anakin Skywalker. Ma quand’anche alla fine del film siano attesi da un tragico destino resta vivo l’attore che li interpreta. Ci sono casi in cui l’immedesimazione si è spinta troppo oltre, dicono che Heath Ledger sia morto perché il Joker gli era entrato dentro. Ma si tratta di eccezioni, di patologie del metodo Stanislavskij.
Nel wrestling l’immedesimazione totale tra attore e personaggio è la norma, e sempre a favore del secondo. Pare che in un primo momento gli organizzatori chiedessero ai wrestler di far credere al pubblico che non esistesse altro che il personaggio che compariva sul ring (in gergo gimmick). Poi si resero conto che non occorreva spingersi tanto in là, semplicemente era sufficiente che a comparire fosse sempre la gimmick, mai l’uomo che la interpretava. In questo sta la grande differenza tra il wrestler e l’attore. Alle interviste, sul tappeto rosso, vanno Leonardo Di Caprio, Al Pacino, Harrison Ford, non Jack Dawson, Scarface e Han Solo. Al wrestler, come a un supereroe, è chiesto invece di rinunciare alla propria identità civile e di apparire sempre come Hulk Hogan, Jake the Snake, The Undertaker. La gloria è sempre della gimmick, all’uomo che le sta dietro sono destinati l’anonimato e l’oblio.
Ed è facile pensare che molti lottatori siano portati a sviluppare il complesso di Clark Kent, disprezzato dall’amata Lois Lane quando indossa gli occhiali ed è impacciato nei modi, adorato quando vola sulla città con tuta blu e mantello rosso.
Il wrestling diventa l’unica cosa vera la vita fuori dal ring un territorio inospitale in cui non si può più abitare. Per usare le parole di Mickey Rourke – Randy The Ram prima del combattimento fatale in The Wrestler: “Sul ring non mi può succedere nulla, è là fuori che mi faccio male”.
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Considerazioni interessanti: il wrestling come metafora della società virtuale. Basti pensare che tutta la vita politica si svolge sulla base di categorie ideologiche inventate a tavolino: dall’integrazione multietnica all’emancipazione femminile e omosessuale, ai crocifissi da appendere o da togliere…
Una sarabanda dell’inverosimile che deve tenere in piedi un’economia virtuale fondata sulla speculazione!
Sono molto concorde con questo bel pezzo di Carabba.
Due cose veloci:
1) io, a dir la verità, ho conosciuto, eccome, chi credeva che gli incontri fossero veri. Dimostragli il contrario mi ha fatto sentire come chi svela l’inesistenza di Babbo Natale. Mi sono sentito “cattivo”.
2) L’incontro femminile di lucha libre a El Alto, visto l’estate scorsa: spettacolo strepitoso. Sia sul ring che, soprattutto, nel pubblico.
Questo blog sta virando pericolosamente verso il cool fascismo.
Bello! :)
nessun fascismo e’ cool.
@chi:
certo, ma a volte cerca di ingannarti travestendosi.
@ chi
Come sarebbe a dire che “nessun fascismo è cool”? Una possibile definizione di “fascismo”, mutuata un po’ da Benjamin un po’ da Sontag, secondo me potrebbe suonare: “comportamento politico nel quale l’apparenza (cool) si sovrappone alla sostanza (truce), sino a farla del tutto dimenticare al pubblico pagante”.
La passione per il posticcio-in-quanto-esibitamente-tale (ma tale non per tutti, come giustamente annota Biondillo), come quella di certi intellettuali compiaciutamente cinici per Il grande fratello per esempio (non sono d’accordo con Carabba che contrappone il wrestling al reality: anche gli spettatori del reality, in media, sanno bene che “quella non è la vita vera”; ciò non toglie che vi si appassionino), “vira pericolosamente” – per dirla con Paul Olden – verso questa dimensione.
@ acortellessa
forse avrei dovuto specificare nessun fascismo per me è cool.
e che ho la passione per il posticcio esibito.
detto questo gli apparati della cultura popolare, come il wrestling, o come le processioni nell’italia del sud o nei romanzi di saramago, sono esempi di apparenza che sono sostanza, perchè muovono corpi e persone. tutto quello che muove, sommuove e commuove corpi e persone è letteratura. e a me la letteratura interessa.
in ogni modo da susan sontag che ha teorizzato il camp non può derivare nessuna apparenza che copra una sostanza. perchè il camp è la negazione della sostanza. è la sostanza dell’apparenza. è il disinteresse per tutto ciò che non sia canonizzabile come estetico.
“Il gusto Camp rifiuta la distinzione tra bello e brutto tipica del normale giudizio estetico. Non capovolge le cose. Non sostiene che il bello sia brutto o viceversa. Si limita a offrire all’arte (e alla vita) un insieme di criteri di giudizio diversi, e complementari”.
non si può attribuire al camp una cosa della quale si disinteressa.
il camp non è camp. è la legge.
@ paul olden
a esser franco il wrestling, che demistifica la virtù guerriera e la forza fisica, messe in scena enfatizzandone gli aspetti caricaturali e sovente risibili, mi pare quanto di più distante dal fascismo io riesca a immaginare.
in questo senso lo sport fascista, con i suoi richiami all’onore, allo sforzo dell’individuo alla vis bellica e quant’altro, è sicuramente il pugilato.
O ancora il rugby – con tutta la retorica del terzo tempo, dell’amicizia virile, del rispetto dell’avversario anche quando si vince cento a zero e via dicendo.
In merito alla distanza tra i due c’è una bella pagina di Gladiatori di Antonio Franchini (cui sono debitore per molte mie riflessioni).
Ciò detto amo molto già il pugiliato e mi pare un errore ragionare in termini fascismo-non fascismo di uno sport.
@ andrea cortellessa
resto della mia e continuo a dissentire su wrestling e reality. Il patto narrativo su cui si fondano è affatto differente. Il reality, al più, è un finto che finge di essere vero e se io dichiarassi pubblicamente che è tutto finto verrei probabilmente querelato. Il wrestling è un finto che finge di fingere di essere vero, che mi pare finzione incredibilmente più raffinata. Verrei querelato se dichiarassi che è tutto vero.
Il grande fratello blandisce il pubblico e insegna che chiunque può ambire alla gloria televisiva.
Lo slogan del wrestling – che va in onda in ogni trasmissione – è “don’t try this at home”.
Le uniformi delle Schutzstaffeln era pur sempre griffate Hugo Boss.
in ‘miti d’oggi’ rolandino barthes metteva in evidenza, parlando del pugilato, la forte carica omosessuale sublimata in questa pratica agonistica. forse anche il wrestling sublima l’aspetto omosessuale (non parliamo del calcio…)
e in questo senso il wrestling è proprio reality, cioè si porta in scena l’osceno che secondo alcuni maschi dovrebbe stare fuori dalla maschera sociale o forse la colpa segreta di cui si accusava barthes era un filtro per leggere o una paranoia proiettiva e allora né il pugilato né il (a ragion maggiore) wrestling sono sublimazione dell’atto omosessuale e quindi, se così fosse, il wrestling è più che altro sur-reality…
@ chi
Il riferimento a Sontag non è a Note su “camp” ma a Fascino fascista [1974], in Ead., Sotto il segno di Saturno, Torino, Einaudi, 1982, pp. 61 sgg. (Sull’opera di Leni Riefenstahl.)
@ Carabba
La tua distinzione è interessante (anche se non sono d’accordo, come dicevo prima, con la tua idea del reality). E’ curioso come su questo tu sia esattamente sulle stesse posizioni di un intellettuale che non so quanto apprezzi, Tommaso Ottonieri (cfr. L’Apocrifo la Replica il Posticcio: Glossa della Verità, in Id., La Plastica della Lingua. Stili in fuga lungo una età postrema, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 208 sgg.).
@ Carabba, ancora
Anche la tua idea che sia “un errore ragionare in termini fascismo-non fascismo di uno sport” mi lascia alquanto perplesso. Cfr. (ovviamente) W, o il ricordo d’infanzia di Georges Perec.
mitico!!!!!! finalmente lo scontro finale Andrew “The Axiom of Choice” Cortellessa vs. Carl Crab a.k.a. The Marquis of Carabbas ha avuto inizio, a colpi di citazioni e rimandi alla bibliografia…! che evento!
:)
nubar
@ Nubar
E perché “The Axiom of Choice”?
@ Cortellessa.
beh… the Axiom of Choice è comunemente abbreviato con AC. poi ha tanti aspetti interessanti e il soprannome è lusinghiero, e.g. è relativamente coerente con – ma indimostrabile a partire da – gli altri assiomi della teoria degli insiemi, è comunemente accettato anche se la sua verità resta un atto di fede, se lo si assume allora l’universo è bene ordinato, etc. vedi tu… :)
intanto si è resa disponibile l’immagine degli atleti prima dell’incontro, qui: http://www.flickr.com/photos/47113198@N02/4322508621/
ciao,
nubar
@ AC
Se intendo bene il tuo riferimento a W indica la natura intrinsecamente fascista di ogni sport, per il riferimento ossessivo alla vittoria e al coraggio, la funzione oppiacea sui popoli, la pseudosublimazione di tendenze sadomasochistiche da parte della società degli spettatori (o, in genere, di una sessualità repressa, come osservato da aparrag-aculnaig). Questo può anche darsi sia vero, ma se vale vale per lo sport in generale (appunto per ogni sport). Io contesto l’accusa che il wrestling sia fascismo-cool e la pallavolo, poniamo, non lo sia.
Ancora una volta, detto questo non condivido l’impostazione di fondo del discorso. E sono un grande sportivo da poltrona, pergiunta assai tifoso.
Ti ringrazio per la segnalazione di Ottonieri, me lo cerco così poi potrò dirti che no, non ci avevi capito niente, sosteniamo due tesi contrapposte…
@ nubar (chiunque tu sia) io cuore te
@ nubar
E in mezzo l’arbitro (presumo) chi è, Beppe Severgnini?
@ Carabba
Certo, W vale per lo sport in generale. Ma solo se reso-spettacolo. Cioè appunto posticizzato, diciamo. La pallavolo giocata nel cortile della scuola è uno dei rarissimi ricordi felici della mia adolescenza; le ragazze in perizoma del beach volley in tivvù fanno invece parte del Palinsesto Hitleriano Ideale Eterno (cfr. Sontag, appunto). Ora, se lo sport competitivo (dove per es., come noti nel tuo pezzo, viene fatta ancora valere la finzione del controllo antidoping) ancora “vuole illudere” i suoi spettatori (i quali nutrono il bispensiero per cui da un lato rimpiangono gli spezzoni in bianco e nero delle loro memorie-protesi televisive di Omarsìvori et similia – il calcio “vero”, quello di una volta; e dall’altro divorano le “notizie” del Corriere dello Sport sull’ultimo gossip di calciomercato – come se da questo dipendessero le sorti loro e delle loro famiglie: il che poi, televisivamente parlando, ha persino del vero!). Mentre il wrestling, in quanto resa completa – e a-quasi-tutti-manifesta – alla finzionalizzazione, fa appunto cenno alla dimensione “fascista”: di un’apparenza che sostituisce integralmente la sostanza.
Quanto invece alla presunta dicotomia wrestling/reality: non è un caso (dal mio punto di vista) che il testo contemporaneo che ha raccolto il testimone da W di Perec, Acido solforico di Amélie Nothomb, abbia sostituito allo sport-spettacolo, come equivalente della macchina da sterminio statale, appunto il reality show (dal titolo “Concentramento”).
@Carlo Carabba:
Come puoi dire che il W. “demistifica” la virtù guerriera e la forza fisica?
Al contrario, il W. mistifica la violenza proprio perchè la estetizza, la rende parte di un teatro epico (peraltro assai kitch, ma i gusti sono gusti) che esula dalla realtà, rendendo il combattimento, il battersi, l’affronto all’avversario un atto artistico rappresentato in una sua retorica peculiare.
Cos’è il fascismo (e tanto più la sua forma strisciante che qualcuno chiama “cool fascismo” ) se non una forma di estetizzazione della brutalità e della violenza?
Il pugilato è tecnico e terribile, proprio come la realtà della guerra. Non mistifica la violenza: la espone e la rappresenta per quello che è. Per questo non è affatto fascista: è brutale, ma sincero.
Puoi riflettere sul fatto che i ragazzi che morirono assiderati nella campagna di Russia erano cresciuti vedendo gerarchi saltare impavidi nel cerchio di fuoco?
wrestling come fascismo-cool mi fa pensare al ‘fascismo-cul’ delle 120 giornate di sodoma, al film di pasolini.
in genere penso che il fascismo (ma cos’è il fascismo? ovviamente non una ideologia) sia nella lotta archetipica del bene vs male oppure dell’autodifesa come paura del diverso. se penso al quadrato del ring: forse è un caso che si distingua dalla rettangolarità di altri sport o dalla linearità di certi altri o dalla circolarità sinusoidale dei non-sport moto-formulistici.
se poi guardiamo alla teatralità o alla quarta parete che non c’è nel wrestling dove però il pubblico può tifare laddove nel reality il pubblico in silenzio può ‘nominare’.
@ paul olden
dunque se ho ben capito tu postuli due equivalenze (o comunque analogie)
wrestling:circo=pugilato:guerra
ora, nella mia idea di fascismo, mi pare più fascista l’immaginario, l’estetica, legati alla guerra che quelli legati al circo.
però sono d’accordo con aparrag-aculnaig, mi pare che qui il vero problema sia la definizione di fascismo.
@carlo carabba:
no, io dico wrestiling:gioco della guerra=pugilato:guerra.
Quanto alla definizione di fascismo, si potrebbe affermare che fascista è chi tra gli uomini crede nel diritto del più forte di sottomettere il più debole, anche in assenza di altre motivazioni, e in questo vede anche una valenza etico-morale positiva e glorificante.
Non a caso Mussolini parlava di “volontà umana dominatrice di altre volontà”.
ma se vi tolgono le categorie altamente e condivisissimevolmente virtuali di destra e sinistra ce la fate a parlare? fino ad allora posso buttare lì che fare finta di credere a babbo natale è senza dubbio una cosa di sinistra.
e.c.: condivisibilissimevolmente
come si fa a dire che il pugilato è “fascista”?
e sono pure d’accordo contempative, io, così de sinistra.
con temptative
l’unica cosa che mi meraviglia in questi ultimi giorni e’ come una distinzione apparentemente cosi’ manichea tra destra e sinistra in letteratura e arte e cinema e sport non corrisponda a una neppure pallida pallidissima distinzione negli uomini e nei partiti che fanno la politica di questo paese. questo mi inquieta e mi fa sentire veramente sovrastruttura. pure quando la critico.
o forse meglio estremizzare le fenomenologie gestuali e mediare gli evi;
pugilato : grecità = postmodernità : reality.
quanto al fascismo (quello di mussolini era la prima fase, la nostra una ulteriore fase) distinguerei: il fascismo del duce che vuole sottomettere per gusto di potere e fascismo del 70 percentile della gente che ‘vuole’ essere sottomessa, avere un Padre come ha già un Madre Maria Vergine. e di qui l’occhio che guarda e piange della madonna e il pugno duro sul tavolo o i guanti da stigmate dei variegati padri pio al wrestling-reality (secondo il principio di incredulità sospesa d’ognuno) il passo è assai breve o lunghissimo ma pur sempre in odor di olismo non si può non considerare i due fenomeni del corpo pubblico e dello spettatore (com)partecipe parti di un unico grande corpo sociale demitizzato e reso a livello immaginario-elettrico.
il coté fisico, nel senso di educazione fisica, nel senso di esibizione della minaccia fisica, nel senso di un messa in scena di virilismo ormonale e mascelluto, nel senso della continua ri-affermazione di una supposta incrollabile volontà fine a se stessa, eccetera, fa parte del progetto mussoliniano di rifondare il carattere degli italiani, da lui (correttamente?) percepiti come degli slombati, inetti, codardi e perciò stesso fuori della storia, eccetera.
detta questa cosa ovvia – la violenza fascista è uno strumento di conquista del potere assieme alla riaffermazione disperata di un’esistenza che si vorrebbe tutta risolta nell’agire et polemicamente anti-intellettuale – credo si possa affermare che la violenza in sé non è né di destra né di sinistra: è solo un’opzione, talvolta una necessità, bipartisan.
la violenza testosteronica e oggettivamente pericolosa del pugilato si sublima nell’intelligenza, nella tecnica, nell’astuzia, nel coraggio e nella capacità di soffrire: niente a che vedere con niente di fascista, peffavore.
la messa in scena della violenza nel wrestling, nel suo essere finto-vera, o vero-finta, come si vuole, è teatro acrobatico, un po’ triste e ridicolo, luogo comune dei patetismi terminali sui vecchi campioni.
peffavore non la si accosti in nessun modo con l’essenza sublime e terrificante del pugilato.
@ francesco pecoraro
sono d’accordo con te. non è fascista né il pugilato né il wrestling. come si è capito dal mio pezzo il wrestling lo amo molto, lo trovo uno spettacolo estremamente sofisticato, pazzo e romantico, su cui ci sarebbe molto da riflettere e che viene di solito liquidato con una certa superficialità
quello che dal mio pezzo non si poteva capire è che amo molto anche il pugilato, che ho praticato per cinque anni, frequentando diverse palestre (in generale qualche fascista devo ammettere che c’era). Non mi sognerei mai di pensare al pugilato come a uno sport di per sé fascista. Ero solo infastidito dal fatto che la patente di fascismo fosse data, per motivi che non condivido, al wrestling.
Ho delle perplessità sulla definizione di fascismo come “apparenza che sostituisce integralmente la sostanza” (tra l’altro, nelle due definizioni mutuate da Sontag proposte da AC, mi pare ci sia uno slittamento dal “coprire la sostanza” al “sostituire la sostanza”), che mi pare vaga, adattabile a cose che fascismo non sono, e pericolosa, come molte definizioni vaghe, perché può portare a dire che tutto è fascismo e dunque nulla è fascismo.
Allo stesso modo dire che tutto lo sport mostrato in televisione è di per sé fascista mi pare generalistico, assolutistico (la solita storia della notte e le vacche nere), falso. Ed è un approccio che non condivido. Sono d’accordo con chi (chiara) che lo sport costruisce storie “muove, sommuove e commuove corpi e persone, è letteratura. e a me [nel senso di chi e di me] la letteratura interessa”.
@ francesco pecoraro
avevo scrito la risposta prima di leggere il tuo commento che precede il mio.
sono comunque concorde con te su tutto tranne che la visione del wrestling.
… ma noi sguazziamo nel fascismo… tranne qualcuno che vive all’estero…
fascismo morbido ma sempre fascismo. è nel genoma degli italiani. è aria.
no? se contemporaneamente al pugilato al wrestling ecc ecc mandassero in tv due uomini che si baciano, allora non sarebbe fascismo.
vabbé non diciamo fascismo, diciamo gallismo… è sempre uguale. perché due uomini che si picchiano anche per finta o per finta che non sia finta non è censurabile come due uomini che si baciano in prima serata in un film?
se avessi un figlio gli proibirei pugilato e wrestling e gli consiglierei del sano porno gay, :))
Ogni sport reca in sé una poesia che non mi pare assimilabile al fascismo. E’ il contesto che spesso è fascista. Basta seguire la serie A italiana per rendersi conto che gran parte dei calciatori e allenatori e presidenti e giornalisti nutre sentimenti di cameratismo, machismo, aggressività, oltranzismo, e coltiva una spaventosa superficialità culturale e mentale, uno pseudo/fascismo a mio avviso parzialmente inconsapevole. Però il gesto calcistico in sé (un tackle di Nesta o un cucchiaio di Totti o un tiro a effetto di Del Piero o un dribbling alla Ronaldinho o una serpentina alla Messi eccetera) non è prossimo a nessun altro concetto etico-estetico che la creatività e la bellezza; e la bellezza, diceva Dostoevskij, salverà il mondo. Insomma io spettatore posso distaccarmi dal becero e arrogante Ibrahimovic e gustare la straordinaria dimostrazione di grazia e potenza fuse assieme che mostra su un rettangolo verde, se ho abbastanza senso critico per farlo – e non è che ce ne voglia molto. Esiste un’epica nel pugilato e una nel ciclismo (doping a parte, ma qui bisognerebbe aprire una parentesi chilometrica), e c’è mera gratitudine estetica nel veder sciare Bode Miller o guidare Valentino Rossi o giocare Roger Federer (su cui Foster Wallace ha scritto un bellissimo articolo-saggio, “Roger Federer as a religious experience”), e c’è l’incanto di trattenere il fiato vedendo nuotare Phelps o correre Bolt. Insomma mi sembra di poter dire che nessuno sport si muova in una cornice d’elevati valori morali – data anche la quantità enorme di denaro che circola – ma al tempo stesso che nessuno sport nella propria essenza, nell’atto che lo raffigura e lo significa (un tiro, un jab, una schiacciata, una curva, uno sforzo in salita, uno scarto, uno smash, uno scatto, eccetera), insomma nella propria intimità (laddove l’atleta, anche in un gioco di squadra, è solo con la propria invenzione) sia assimilabile a qualsivoglia ideologia; l’atto sportivo puro è idea intesa come fatica volontà estro coraggio rischio divertimento e addirittura catarsi. Occorre insomma distinguere fra testo e contesto.
Ps: tutto quel che ho detto faccio fatica ad applicarlo al wrestling, dove l’elemento della finzione sottrae (mi sembra) ogni epica ed estetica. Mi si dirà: e i ciclisti dopati? Ma quelli, dopati o no, quando sono sul Mortirolo o sull’Alpe d’Huez soffrono lo stesso, hanno la lingua penzoloni e gli occhi fuori dalle orbite, e di tanto in tanto ci rimettono la vita (Simpson morì di farmaci e sforzo sovrumano sul Mont Ventoux e Merckx rischiò di rimanerci secco pure lui, mentre Fignon quando perse il Tour da Lemond per otto secondi diede quasi letteralmente la vita nella crono finale). Mi si dirà: e le partite truccate? Vero, ma quando io guardo una partita in diretta e un calciatore fa un bel numero, quel numero è “fuori” da qualsiasi accordo o patto o sistemazione precostituita, è un accadimento assoluto e presente e individuale e imprevedibile anche per colui che l’esegue. Lungi da me giustificare ogni tipo di frode sportiva; dico però che una componente di purezza estetica rimane, che un residuo di bellezza splende pur nell’equivoca palude del marketing e degli affari.
@ enrico macioci
molto bello il tuo lungo intervento (tra l’altro, da appassionato anche di ciclismo non ho dubbi che l’unica via possibile per salvarlo sia la liberalizzazione del doping sotto controllo medico)
sul wrestling, ancora una volta – e prometto che sarà l’ultima – intendo solo far notare che è una forma di narrazione (assimilabile più a un libro, a un film, o meglio ancora, a un fumetto, o un prodotto seriale di fiction televisivo in genere), il che, senza dubbio, inficia il valore sportivo ma non la godibilità.
il fatto che i wrestler(s) siano degli stuntman(men) che in più recitano una parte complessa mentre eseguono strane manovre e che il wrestling – con barhtes – sia da intendersi come una sofisticata commedia dell’arte contemporanea accresce, ai miei occhi, il suo fascino.
come scrivevo nell’articolo di cui sopra, l’accusa che il wrestling sia finto è impropria e ingenerosa.
@ Carabba
Solo per correggere la tua citazione dal mio commento – “Ho delle perplessità sulla definizione di fascismo come ‘apparenza che sostituisce integralmente la sostanza’ (tra l’altro, nelle due definizioni mutuate da Sontag proposte da AC, mi pare ci sia uno slittamento dal ‘coprire la sostanza’ al ‘sostituire la sostanza’”).
In verità ho detto “apparenza (cool) che sostituisce integralmente la sostanza (truce)”. Nello sport finzionalizzato e clamorosamente tradito dalla società dello spettacolo l’apparenza cool (le finte di Zidane, il petto in fuori di Cannavaro, l’eroismo di Lance Armstrong) copre e “sostituisce” (cioè: soddisfa esteticamente ed emotivamente anche coloro che ne riconoscono lo statuto finzionale) una sostanza non meno che truce (i telefonini di Moggi, i festini di Mosley, l’EPO a fiumi ecc.).
Alla stessa stregua, nel post-fascismo contemporaneo, tutti o quasi tutti sanno benissimo che certi leaders politici hanno una morale “che sta appena più in basso di quelli che s’inchiappettano i bambini” (Woody Allen, Annie Hall) ma se ne strafottono: pur di godersi lo spettacolo.
Il wrestling, ai miei occhi, è la celebrazione trionfale, quintessenziata e paradossalmente “onesta” – proprio nel suo essere conclamata – di questo cortocircuito. La “letteratura”, beninteso, interessa anche a me. Ma chi gode a essere “mosso, sommosso e commosso” da queste forme di ottundimento programmato non è un amante di letteratura (la quale è sempre, perfettamente al contrario, demistificazione dell’inganno: proprio nel momento in cui lo si architetta in modo perfetto).
Semmai potrebbe diventare un interessante personaggio letterario, che però è un’altra cosa. (E poi c’è già Emma Bovary.)
@aparrag
rileggiti e\o rivediti Fight Club….
Mi trovo perfettamente in linea con l’ultimo intervento di Andrea Cortellessa. Quello che volevo dire, adesso è stato detto.
anche io sono d’accordo con l’ultimo intervento di cortellessa.
perchè è vero che la letteratura è demistificazione dell’inganno. che sta sotto qualsiasi apparato e apparenza. ma è pure vero verissimo (disse mrs finch e pure CC) che per stare sotto questo apparato e apparenza deve avere una trama, un ordito, un senso (anzi cinque) che si sintetizzano in forma. e certe volte, en passant, questa forma sembra pure “forme di ottundimento programmato.
ripeto. e.g. le processioni di saramago e il suo modo di montare i dialoghi.
sono appassionata di patologie, so che esistono modelli assiomatici in cui l’assioma della scelta è falso, che esistono enunciati equivalenti all’assioma della scelta e che non lo sembrano, e sto aspettando che qualcuno scriva che qualsiasi canone è fascista. e allora addio armonie.
ripeto. non trovate che questa dicotomia sinistra destra, cool/troce non abbia nessuna ricaduta, reificazione, o maledetto controesempio nella nostra vita politica? non vi pare immorale continuare a mantenere le distrinzioni solo in comparti d’etere o di astrazione.
@ chi
Avverto il tono, l’inquietudine di una domanda reale, non retorica, in queste tue parole: “non trovate che questa dicotomia sinistra destra, cool/truce non abbia nessuna ricaduta, reificazione, o maledetto controesempio nella nostra vita politica? non vi pare immorale continuare a mantenere le distrinzioni solo in comparti d’etere o di astrazione”. Vorrei però che ti spiegassi meglio; che riformulassi più terra-terra, questa medesima domanda.
ma voglio proprio fare la parte della casalinga di voghera. il wrestling (solo per fare un esempio) è nato in una coltura – sì, con la “o” – dove spettacolo e ingenuità erano finzioni reciproche e al tempo stesso materia reale di quotidianità. è un perfetto campo di battaglia per i luoghi comuni. e carabba ha fatto un ottimo slalom. questo mi chiedevo: come mai avete meno voglia di parlare della leggerezza di carabba e vi basta invece un primo commento – non sto dicendo quanto legittimo – per ricominciare a parlare di quanto una cosa, qualunque cosa, è di sinistra o di destra: e anche dopo che tutte le cose sono state accuratamente catalogate, cosa cambia?
@tempative:
quel commento voleva proprio mettere in risalto la pericolosità insita nella leggerezza (si potrebbe dire “coolness”) dello scritto di Carabba.
@paul olden
la leggerezza di carabba era troppo voluta per essere pericolosa, era appunto un esercizio di stile a scardinare i luoghi comuni.
@temptative:
non tutti i luoghi comuni sono fondati su presupposti falsi.
@paul
caro paul, se vuoi darmi la tua mail.
@ tutti.
vorrei dire “basta, alzo le mani”.
ma questa affermazione di AC
“chi gode a essere “mosso, sommosso e commosso” da queste forme di ottundimento programmato [leggi il calcio, l’NBA, il wrestling, il ciclismo] non è un amante di letteratura”
è quantomeno smentita da migliaia di esempi validissimi.
che poi può sempre essere che nei propri momenti migliori uno sia un amante della letteratura e nei momenti di ottundimento che ci colgono (o almeno che mi colgono) uno sia un amante di wrestling e calcio – visto, non giocato.
Però, a essere franco, mi pare tutto molto più olistico…
@temptative:
why?
@paul
perché, caro paul, se neppure carabba nota che uno apprezza il suo tocco, mi sa che ne possiamo parlare tra di noi.
@ acortellessa
dopo l’affaire pagine-culturali-di-noto-quotidiano-di-destra che ha impazzato altrove e pure qui mi sono chiesta perche’ nonostante il problema destra/sinistra sia un problema prima di tutto politico, quindi di progettazione di strutture sociali, di meccanismi civili, di riforme scolastiche sensate, le uniche discussioni virulente, davvero arroccate su una idea di cultura di destra e di cultura di sinistra siano state espresse non da politici o da tecnici politici ma da (in qualche senso) intellettuali.
e mi sono accorta, con un po’ di malanimo, che questa a e’ una ennesima parentesi narrativa dove persone, che ne sono capaci, si raccontano una distinzione destra e sinistra che non appartiene al paese, alla sua classe politica e alle persone.
riguardo l’articolo di Carabba, per me il wrestling rimane come le processioni, come le sagre, come le serate estensi in maschera, racconto in maschera di una realta’ e di un desiderio collettivo e plurale, epico.
@ chiarav e temptative
sono d’accordo con voi, l’utilizzo delle categorie destra/sinistra e l’uso generico di “fascismo” mi sembra fornire una chiave interpretativa della realtà fuorviante e infeconda
@ temptative e basta
faccio pubblica e tardiva ammenda per la mia ingratitudine. ho molto apprezzato le tue mie difese…
@chiara valerio, che scrive:
“e mi sono accorta, con un po’ di malanimo, che questa a è una ennesima parentesi narrativa dove persone, che ne sono capaci, si raccontano una distinzione destra e sinistra che non appartiene al paese, alla sua classe politica e alle persone”.
Parentesi narrativa?
Nel senso che dalla lezione che la «realtà» ci impartisce dovremmo invece dedurre che tutto è uguale a tutto?
Vuoi dire che se nelle menti che formano la maggioranza del paese, se nell’agire e nel dire della politica, non ritroviamo distinzioni tra destra e sinistra degne di nota, cioè se le parole «destra» e «sinistra» non hanno più molto senso nelle narrazioni (queste sì lo sono) di massa, allora tanto vale adeguarsi e lasciare perdere?
Che equivale a dire smettere una buona volta di percepire la sequenza micidiale di anomalie – ce la fai Chiara a convergere sulla parola «anomalia»? – che marca di sé in modo profondo, allarmante questo paese e questo tempo.
Eccheppalle dirai tu (con un po’ di malanimo), ecchéssarà mai, che ce ne potrà mai fregare di tutti questi cavilli così antichi, sorpassati, quando si sta così bene tutti assieme a mollo nel tiepido zuppone delle narrazioni di massa, dove un «giornale» come Libero diventa a tutti gli effetti un foglio come tutti gli altri, solo fatto da un bel gruppo di spiritosoni?
E basta con questo dualismo destra/sinistra, disci tu, checcefrega, non vedete che il paese è altrove?
Non vi accorgete che mentre voi ve la menate con il dilemma destra/sinistra l’unica cosa seria da fare è adeguarsi, recensire libri-cacata che vendono molto come fossero capolavori, pubblicare ovunque ti facciano scrivere «liberamente», smetterla di distinguere et catalogare tutto secondo categorie obsolete?
Ora – spostandosi dalla questione del wrestling fascista o no – io sarei d’accordo ad abbandonare il dualismo destra/sinistra, se non ci fosse un problema con le parole, cioè se disponessimo di termini altrettanto sintetici (nonché piuttosto antichi), per designare coloriture etico-politiche molto diverse del sentire e dell’agire umano.
A meno di non voler ammettere, come di fatto fai tu, di essere affetti da daltonismo, cioè di non riuscire più a percepire nessuna differenza – non solo tra le cose come sono, ma anche tra come sono e come Dovrebbero Essere –, se non un invitante e calduccio Tutto-Uguale.
@ pecoraro
io ce la faccio a convergere sulla parola anomalia, tu ce la fai pero’ a non utilizzare le eccezioni a tuo uso e consumo? “Nel senso che dalla lezione che la «realtà» ci impartisce dovremmo invece dedurre che tutto è uguale a tutto?” chi ha dedotto cosa da cosa? (e ioltre se fosse p implica q la negazione sarebbe comunque non q implica non p e non non p implica non q…) io ho detto solo che se siamo solo noi a menarcela (per utilizzare un tuo termine) sulla dicotomia destra-sinistra e non il paese allora non stiamo cercando nessuna soluzione, ci stiamo solo arroccando in una posizione elitista che non incide sul dibattito culturale in senso ampio. io non voglio posizioni elitiste mentre fuori c’e’ il delirio confusionale.
parentesi narrativa ho detto e parentesi narrativa ribadisco.
dice @chi
“nonostante il problema destra/sinistra sia un problema prima di tutto politico, quindi di progettazione di strutture sociali, di meccanismi civili, di riforme scolastiche sensate, le uniche discussioni virulente” sono state fatte da intellettuali.
provo un certo stupore per il “virulente”, perché a parte qualche sporadico commento, tutto quello che ho letto mi è parso al massimo appassionato, ma in ogni caso, la progettazione delle strutture sociali ecc. è sempre legata a un pensiero e a un dibattito esterno alla mera gestione della politica come macchina amministrativa.
Anche oggi, nella crisi del pensiero politico nel nostro paese, c’è sempre un’idea di uomo, anche se impallidita, logora e depotenziata, dietro agli schieramenti politici, che a loro volta stanno dietro a ogni idea di ingegneria civile e legislativa. E questa idea di uomo è un prodotto collettivo.
Credere di poter separare gli intellettuali dalla politica equivale a credere di poter separare gli intellettuali dalla realtà. Potrà riuscirci qualche appartato filologo, finché resta chiuso nello studio, e sempre che decidiamo di dargli il rango di intellettuale.
Persino chi fa quello che può sembrare il gran rifiuto e si chiude a doppia mandata la porte alle spalle lo fa di solito avendo ben chiara un’idea di politica che magari non trova soddisfazione. Persino l’apota ha una visione politica del mondo, avara e strumentale, ma ce l’ha.
Un’ idea di mondo è di per se stessa un’idea politica.
Una volta lo sapevamo, com’è che adesso molti non se ne rendono conto?
E’ inutile cercare di sfuggirle, la politica è in tutte le cose che viviamo, persino in quelle che ci sembrano privatissime.
E tanto per fare un esempio: a volte leggo gli apprezzamenti dei commentatori ai post di Buffoni e poi vedo sotto altri post quegli stessi commentatori predicare l’allontanamento dalla politica. Non ha senso, bisogna fare due + due, altrimenti cosa approvate, solo l’ordine della frase?
Quanto all’idea di @Cortellessa sul fatto che chi ama la letteratura non ami il calcio, anche se sono spesso d’accordo con lui, temo che si sbagli, forse interessa poco agli studiosi, ma scrittori che hanno amato il calcio ce n’è, il calcio, come tutti gli sport, si trascina dietro talmente tante metafore che uno scrittore può esserne affascinato.
a chiara
“dopo l’affaire pagine-culturali-di-noto-quotidiano-di-destra che ha impazzato altrove e pure qui mi sono chiesta perche’ nonostante il problema destra/sinistra sia un problema prima di tutto politico, quindi di progettazione di strutture sociali, di meccanismi civili, di riforme scolastiche sensate, le uniche discussioni virulente, davvero arroccate su una idea di cultura di destra e di cultura di sinistra siano state espresse non da politici o da tecnici politici ma da (in qualche senso) intellettuali.”
Purtroppo Chiara l’affaire era un’occasione di riflessione – modesta in sé, come ogni occasione – intorno a temi importanti: rapporto letteratura-ideologia, pagine politiche-pagine culturali, reponsabilità dello scrittore come scrittore e/o come cittadino, scrittore come funzionario dell’industria culturale. Anche su NI si è tentato di articolare questi temi, di dare chiarezza concettuali ad essi, affinché non si giungesse a lettura puramente schematiche in un senso e nell’altro. Ma questa riflessione non è stata condivisa, purtroppo. E quindi ne rimane un’impressione di astratta contrapposizione tra culture di destra e di sinistra da parte di (sedicenti) intellettuali. Almeno, questa è l’impressione che tu ne hai ricavato. Ma la riflessione era proprio questa astrattezza-vaghezza che cercava di evitare.
Quanto alla questione destra-sinistra, concordo ancora una volta con Pecoraro.
@ alcor
virulento non era utilizzato con accezione negativa. ma semplicemente come qyalcosa che porta bacilli.
@inglese.
se discutiamo solo tra noi e non in una piazza piu’ ampia, se quello che diciamo rimane relegato alle pagine culturali, se quello che pensiamo rimane una schermaglia pura di pensiero, astrazione, opere e omissioni, allora rimango della mia idea di parentesi narrativa. detto questo sai quanto ami le parentesi narrative di qualsiasi genere. ma questo per l’appunto non ha niente a che fare con una idea di destra o di sinistra o di centro.
@Chiara
quando dici “io ho detto solo che se siamo solo noi a menarcela (per utilizzare un tuo termine) sulla dicotomia destra-sinistra e non il paese” eccetera
guarda che è sempre stato così, il “paese”, anzi “i paesi” sono formarti da piccoli gruppi (non voglio chiamarle élites per non dare il mal di pancia a nessuno) che dibattono pubblicamente, gruppi più ampi di cittadini che dibattono in modo non pubblico e magari non lineare, e grandissimi numeri che non dibattono e seguono con maggiore o minore partecipazione e automatismo a seconda del momento storico e della capacità della politica di offrire sedi non solo fisiche per il dibattito.
Non penso affatto che destra e sinistra siano categorie obsolete. E’ vero che la politica oggi si riduce spesso alla mera gestione del potere, quindi destra e sinistra si travestono entrambe da centro moderato per squallidi motivi di accalappiamento del consenso.
Destra e sinistra esistono ancora. La differenza, rispetto a prima, è solo che entrambe sono disposte a qualsiasi compromesso pur di ottenere almeno una fetta della gestione del potere.
La causa di questo processo è, secondo me, la mancanza di una visione del futuro, lo schiacciamento sul presente. Basta riuscire a mettersi di fronte all’ipotesi del futuro migliore possibile, ed ecco che ritroviamo nitide e ben distanti tra loro le distinzioni ideologiche e filosofiche tra destra e sinistra.
In conclusione, credo che sia sbagliato dire che oggi destra e sinistra si assomigliano. Semplicemente direi che sembrano assomigliarsi perchè entrambe evitano accuratamente di confrontarsi su ciò che realmente le divide.
@ chi
Sono d’accordo con Alcor. Oggi le discussioni che abbiamo studiato a scuola (il Politecnico vs Vittorini, Apocalittici e Integrati ecc.) non si fanno più sui giornali, che in gran parte purtroppo sono solo megafoni degli uffici stampa, e non si fanno più sulle riviste, che muoiono per mancanza di abbonati e spazi sempre più esigui nelle cosiddette librerie di oggi. Ci resta la Rete. Ne abbiamo già parlato. Non è un caso che quello che è stato per lungo tempo un parco giochi, un cazzeggiodromo più o meno divertente (con numerate eccezioni quale quella che ci ospita in questo momento), sia oggi sempre più massicciamente invaso da rompipalle come me. Romperci le palle a vicenda è uno dei connotati più sicuri dell’Essere-Di-Sinistra (non a caso nostro emblema parodico è Tafazzi, che letteralmente le rompe a se stesso).
Recentemente a Mantova ho ascoltato una certa Scrittrice Di Grandissimo Successo Commerciale dichiarare ammiccante “non ci dobbiamo vergognare di far commuovere la gente”. Ecco, io direi al contrario: noi non ci dobbiamo vergognare di rompere le palle. Rompere le palle non è piacevole, lo so: e non solo per chi lo subisce. Anche a me piacerebbe in questo momento scrivere il mio libro su Landolfi; ma fare un altro tipo di cose mi pare in questo momento più necessario. Ricominciamo a sentirci in dovere di rompere le palle, di romperci le palle, di raccogliere i pezzettini per terra col cucchiaino. E’ necessario (ancorché non sufficiente) a non scivolare nella melassa del tutto-uguale, dell’anything goes, del todos caballeros.
Il Politecnico vs Togliatti, of course (e se qualcuno dirà che è un lapsus, touché)
a chi
“se discutiamo solo tra noi e non in una piazza piu’ ampia,” ecc.
qui davvero non ti seguo; innanzitutto non è vero che discutiamo tra noi su queste faccende… magari. Vige, spesso, una cordiale indifferenza. Ma questo è una delle caratteristiche tipiche dell’ambiente letterario su questioni spinose;
poi, se parliamo di scrittori sulle pagine culturali, chi deve prendere la parola, se non coloro che appunto “fanno il mestiere”, ossia coloro che scrivono e che intervengono di rado o spesso su pagine culturali? Se pareliamo di insegnanti e scuola pubblica, chi deve prendere la parola? O si dirà – come alcuni dicono – ma gli insegnanti parlano tra loro, difendono i loro interessi?
Infine: le piazze. Cosa intendi dire? Io come insegnante partecipo alle manifestazioni di piazza a difesa dei precari, contro i tagli delle cattedre, l’aumento di allievi per classe, la chiusura nella mia città delle scuole civiche, ecc. Tutto ciò non lo trovo per nulla in opposizione con le mie riflessioni di scrittore sulle pagine culturali di un quotidiano che difende una certa politica sulla scuola. Per fare solo un esempio.
e
“io ho detto solo che se siamo solo noi a menarcela (per utilizzare un tuo termine) sulla dicotomia destra-sinistra e non il paese”
chi, lascia parlare altri a nome del “paese”… una scrittrice come te, che ha orecchio fino, sa bene che non esiste LA voce del paese…
@ ainglese
LA voce, come tutti gli articoli determinitivi che utilizzo hanno un senso statistico, medio. sono laica pure con la grammatica :-) o almeno spero.
inoltre non mi passa proprio per la testa di parlare a nome del paese, assolutamente. se adesso utilizzare “paese” in una frase significa parlare a nome del paese…
@ acortellessa
io mi chiedo solo perché queste discussioni su cosa sia di destra e cosa sia di sinistra non appartengano alla gente che scende in piazza (e che una voce in senso statistico, ribadisco, ce l’ha) per chiedere cose che attualmente in italia non sono (nel senso di “non appartengono partiticamente”) né alla destra né alla sinistra. è una cosa semplice, non sono polemica, voglio capire perchè non ci capiamo.
Andrea: e se la quadratura fosse: “non dobbiamo vergognarci di commuovere la gente rompendogli le palle”?
;-)
@ chi
Vuoi dire che oggi si scende in piazza per difendere solo i propri diritti/tornaconti? E’ possibile. E’ possibile che oggi ci si mobiliti solo quando il nostro immediato benessere (per esempio di insegnanti, per esempio di studenti) viene con tutta evidenza minacciato. E’ possibile che si difenda l’ambiente solo quando l’ambiente minacciato è quello della nostra valle. E’ possibile, anzi è sicuramente così. Ma è giusto?
In un altro tempo si scendeva in piazza per i diritti di un popolo lontano, e Gianni Morandi (non Luigi Nono) ci faceva una canzone. Perché si sentiva – si era stati educati ad avvertire – che l’offesa a quel popolo lontano significava, alla radice, un’offesa al genere umano. Un’offesa e una minaccia a ciò che di più importante ci accomunava: al compagno in catena di montaggio come al contadino con gli occhi a mandorla.
Che tempi remoti, che tempi ideologici. Si stava peggio allora, secondo te?
@ Biondillo
A me quelli che commuovono la gente rompono terribilmente le palle, lo sai. Ma non in quel senso. E poi io non faccio testo, si sa.
i distinguo, le rotture di palle, sono come minimo necessari. specie in una situazione – antropologica prima ancora che politica – che pochi altri hanno descritto bene quanto Dana Schutz in quest’opera del 2007:
http://1.bp.blogspot.com/_HncYa98fnhk/Rj-LXYoWOdI/AAAAAAAAAbk/cNbVKJaHufc/s320/DS-Howwewouldgiveb06_b.jpg
@chiara
“mi chiedo solo perché queste discussioni su cosa sia di destra e cosa sia di sinistra non appartengano alla gente che scende in piazza …per chiedere cose che attualmente in italia non sono (nel senso di “non appartengono partiticamente”) né alla destra né alla sinistra”
il fatto che in una manifestazione mirata non venga posto pubblicamente il problema vuol dir solo che quella manifestazione era mirata in modo molto preciso.
certo, anche questo vuol dire qualcosa, ma più che disinteresse, io ci vedo disabitudine e mancanza di cultura politica, oltre che di memoria e di capacità, se non di visione, almeno di strategia
E’ interessante, per me, leggere affermazioni come queste, perché io al contrario incontro sempre gente (anche di destra) che della situazione politica generale, ideologica, diciamo così, del paese non fa che parlare.
Sono stata persino invitata appositamente a cena da un berlusconiano e da un grande conservatore perché spiegassi loro perché ero di sinistra, cosa che non ho avuto nessuna difficoltà a fare, benché dall’altra parte abbia notato una certa difficoltà a capire.
Anzi, mi sono convinta che la battaglia per l’annacquamento delle identità e diversità politiche è di interesse soprattutto della destra attuale, così plastica, così poco identitaria, (anticomunismo a parte) così pragmatica e pronta a includere, purchè si dica di sì e non si rompano – appunto – le palle.
E a forza di martellate, e anche avendo in mano la maggior parte dei martelli, pare che abbia vinto la sua battaglia.
Io però sono qua, e so di essere in buonissima compagnia.
.
PS
come si può capire (e lo dico in riferimento alla polemica dei giorni scorsi), non solo leggo i libri di tutti, ma non mi tiro indietro neppure dal conoscere gente di ogni tipo
visto che ogni tanto passa qualcuno, butta un’occhiata e dice siete settari, meglio chiarire fin da subito
Mi piace questa frase di Carabba:
Il wrestling è un finto che finge di fingere di essere vero.
Mi si arrotola nella testa, non riesco a risolverla.
Vorrei averla inventata io.
@ mauro baldrati
dopo i fiori finti che imitavano i fiori veri, voleva i fiori che imitavano i fiori finti. (Des Esseintes)
Chiara, barcollo! Voi mi mettete di fronte al mistero dell’universo, io… io…
Mauro, “accetta il mistero”… ;-)
Arrivo tardo in questa discussione, ma voglio tre cose, spero non oltre il tempo massimo:
1) lo sport non ha nulla a che fare con il fascismo. Lo sport è una straordinaria invenzione della cultura umana che consente di sfogare in modo regolamentato, simbolico e non distruttivo la violenza che alberga in ogni persona e in ogni comunità. La competizione è un rituale di morte, perché la sconfitta dell’avversario è a tutti gli effetti una metafora della sua uccisione. Leggi la consapevolezza della morte negli occhi de ciclista staccato in salita, del portiere che ha subito il gol, del pugile finito al tappeto. Ma questo rituale di morte si svolge secondo le regole rigorose della competizione e non arreca danno a nessuno, tanto che lo sconfitto di rialza, esce dall’arena con il vincitore ed è pronto a reiterare la sfida. E là dove chi muore davanti agli occhi del pubblico si rialza e torna allo stato originario, non si ha violenza pura o fascismo, siamo nel regno della rappresentazione, di qualcosa che è forse più vicino al teatro che alla guerra. E poi la competizione prevede le regole e soprattutto prevede l’arbitro, cioè una autorità in grado di controllare e sanzionare, di imporre limiti al dispiegamento della violenza senza limiti, cosa questa lontanissima dall’egotismo che non ammette limiti del fascismo. Grazie allo sport, le comunità non si fanno la guerra e consumano le pulsioni di reciproca affermazione e sopraffazione delegandole ad atleti che con le insegne nazionali mettono in scena scenari di uccisione e di morte regolamentati, non distruttivi, controllati. In breve lo sport e la competizione sportiva sono violenti non per il piacere di ostentare la sopraffazione della violenza fascista, ma per ritualizzare e rendere inoffensiva la violenza dei singoli e della comunità
2) la vicenda sportiva è anche narrazione, perché ha in comune con la narrazione un elemento essenziale, il non sapere come va a finire. Anche per questo attrae e anche per questo ci è facile ricondurre molte vicende sportive agli schemi narrativi più comuni. Che poi il wrestling complichi un poco le cose su cosa sia finzione e su cosa non lo sia, non se questo sia raffinata complicazione tipo teatro nel teatro nel teatro o semplice incasinamento, francamente non lo so, ma il wrestling non mi incuriosisce molto.
3) non sono d’accordo con il definire il pugilato non fascista per la sua violenza è temperata da coraggio, eleganza, scaltrezza, capacità di soffrire. Il pugilato non è fascista a priori, per il fatto stesso di appartenere a quella forma di violenza depotenziata e regolamentata che è lo sport, mentre la violenza fascista purtroppo sa essere anche anche coraggiosa, scaltra e elegante, come dimostrano tra le tante la genialità delle manovre di tank di Guderian o di Rommel. La violenza fascista è tale per il non riconoscere regole, limiti, moralità, per arrogarsi in qualsiasi momento e contesto il diritto a scatenarsi, per attribuirsi un senso senza doverlo cercare in una necessità esterna, per la vanesia pretesa di essere sempre espressione della forza del più forte.
Leggo un curioso (prima) e interessante (poi) articolo sul wrestling, sulla finzione, sulla sottovalutazione della finzione dichiarata in un mondo praticamente finto disposto a difendere solo la vera finzione (che è quella che si spaccia per vera), con annesso un discorso molto umano sulla funzione della finzione nell’attore e nello spettatore (mi sono chiesto se Bruke di Beautiful ha lo stesso problema di Hulk Hogan) e mi ritrovo con una sfilza di commenti che parlano di fascismo cool ed una serie di acrobazie bibliografiche e trapezistiche citazioni.
Ma cos’è, la sagra delle seghe mentali?
(si può dire seghe mentali?)
Luigi