Anteprima Sud n°8 / Giancarlo Alfano

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A solo per ciabatte. Per Beckett nei suoi 100 anni
di
Giancarlo Alfano

«La violenza delle domande e dei dubbi si è fatta via via, per lui, più amara e radicale […] Ma a tanta violenza si contrappone, nella resa espressiva una rarefazione luminosa, un battito secco e veloce che sembrano il contrario del buio, il contrario dell’angoscia. C’è, in questo paradosso apparente, qualcosa di stupendamente senile. Come se, con la lungimirante impazienza dei grandi artisti da vecchi […] avesse capito e deciso che non c’è più tempo, né per lui né per noi, da dedicare ai convenevoli e ai fronzoli». Sono, queste, le parole con cui Giovanni Raboni salutava l’uscita del Conte di Kevenhüller di Giorgio Caproni; era il 1986, il poeta livornese, nato nel 1912, aveva settantaquattro anni.
Dalla citazione ho volutamente rimosso il nome dell’autore cui Raboni si riferiva, giacché le sue parole sembrano attagliarsi in maniera perfetta a un’opera che probabilmente all’epoca egli ancora non conosceva. Nell’ottobre del 1981 la Süddeutscher Rundfunk aveva infatti prodotto un video televisivo piuttosto particolare, Quadrat 1+2, realizzato su testo di Samuel Beckett, al quale era stata affidata anche la regia. Lo scrittore, nato nel 1906, aveva compiuto i settantacinque anni.
Introducendo nel 1994 l’edizione italiana del Teatro completo, Carlo Fruttero ha ricordato come mano a mano che passavano gli anni, «quando il suo editore o il suo agente annunciavano l’arrivo di un nuovo testo di Beckett, era lecito aspettarsi una busta con un foglio bianco, se non vuota». Un’operazione di rasciugamento, che pareva mirare alla stessa «rarefazione luminosa» che Raboni riconosce nel vecchio Caproni. Un’operazione residuale, ispirata a una ben chiara “poetica dei resti”.
Il che non vuol dire in alcun modo che si tratti di un’operazione, o di una poetica (e nemmeno di una ideologia) legata a una qualche nostalgia per la pienezza, o insomma “residuale” come di chi restasse e continuasse a guardare verso un passato perduto, un antico paradiso della trasparenza (la più bella gioventù trascorsa). Proprio come nelle parole con cui ho iniziato queste righe si tratta invece di un progress, di un procedere verso l’ulteriore (come il Pilgrim’s Progress di Bunyan, con tutti noi che procediamo, procediamo: ma, a differenza di quel capolavoro seicentesco, senza alcuna prospettiva teologica). Ed è per questo che è necessario volgersi a contemplare (e ad ammirare) le opere degli autori anziani, il lavoro dei vecchi.
Quadrat 1+2, dunque, ovvero Quad, come s’intitolerà poi il testo scritto (pubblicato nel 1984, a settantotto anni, in forma minimale, ma ancora con la descrizione dei problemi pratici incontrati nella realizzazione televisiva: ancora in progress, insomma). Si tratta di un video della durata di circa 20 minuti che rappresenta con camera fissa due piani sequenza di lunghezza diseguale (15 e 5 minuti circa rispettivamente). Nel primo piano sequenza si vedono 4 personaggi con indosso una djellaba di 4 diversi colori che attraversano progressivamente, secondo uno schema rigidamente stabilito e differente per ciascuno, prima due lati di un quadrato e poi la sua diagonale, fino a descriverne l’intero perimetro. I personaggi entrano in scena in successione e in successione se ne allontanano, sino a esaurire tutte le possibili combinazioni di entrata, di uscita, di incrocio (nel punto in cui si incrociano le diagonali del quadrato, infatti, s’incrociano anche le traiettorie dei personaggi). A ciascuno di loro è associata una percussione ritmica diversa, che scompare quando anche il personaggio scompare. Vi sono dunque dei picchi di ossessione ritmica e di intreccio di corpi (che, tuttavia, non si toccano mai), cui seguono delle fasi di minore caoticità, frenetica restando tuttavia la velocità con cui ciascuna personaggio-pedina (o si potrebbe dire ciascun cursore, seguendo l’intuizione di Gabriele Frasca, che per quest’opera ha parlato di un “videogioco”, del tipo di pac-man) segue il movimento prescrittole.
Leggiamo le indicazioni della partitura visiva che riguardano i movimenti degli attori, secondo le quali vi sono «Quattro possibili a solo in tutto. / Sei possibili duo in tutto. (Due volte due) / Quattro possibili trio in tutto due volte. / Senza interruzione iniziare a ripetere e dissolvenza sull’1 [cioè, della prima figura apparsa] che cammina da solo». I diversi movimenti, dunque, nella successione di ingressi e uscite prevedono una rigorosa distribuzione di presenze in scena, o meglio: di attraversamenti del quadrato (va sottolineata proprio la bidimensionalità di questa pièce, che non ha nulla della corporeità delle opere teatrali). Esaurite le possibilità, la giostra non si ferma, giacché l’idea di Beckett era che lo spettatore ne traesse l’impressione che la “condanna” delle pedine durasse ancora «per centomila anni» (come avrebbe detto a quel che pare in una testimonianza orale).
A questo scopo, la regia beckettiana del 1981 adottava la seguente soluzione, solo accennata nella successiva indicazione del testo stampato che abbiamo appena letto: far scomparire il primo personaggio in una dissolvenza in nero. Il fading alluso nel testo a stampa trova nella regia tedesca una soluzione chiarissima. Alla prima sequenza ne segue infatti una seconda, in cui appare, come all’inizio della prima, un unico personaggio. Solo che questa volta la sua tunica non ha più colore, e più nessuno è destinato a raggiungerlo nella coazione del percorso. Scompare anche la percussione ritmica. Resta solo, in bianco e nero, un unico spazio dentro cui si muove secondo coordinate geometriche un’unica figura, mentre risuona un unico suono, lo strascicarsi dei piedi sul percorso, la pesantezza del corpo, la sua presenza.
Come era già accaduto nel 1937 (Beckett non aveva, allora, ancora trent’anni), quando in Murphy era stato presentato un vecchio il cui andirivieni nella stanzetta di una misera pensione era bastato a confortare Celia, la fidanzata del protagonista omonimo del romanzo che vive al piano di sotto e che segue affettuosamente il suono di quel moto perpetuo. A quell’epoca, il giovane scrittore aveva trovato necessario far morire suicida il vecchio trascinatore di piedi. Quasi cinquanta anni dopo, l’anziano premio Nobel avrebbe invece scelto di presentare il purgatorio degli uomini nel suo evenire, nel suo semplice procedere.
Ed ecco, insomma, quello che resta: le lunghe, appesantite ma ancora frenetiche strisciate sul suolo di un paio di ciabatte.

Giancarlo Alfano

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5 Commenti

  1. Samuel Beckett – Una lettera inedita del grande scrittore

    Introduzione
    Samuel Beckett terminò la stesura di Aspettando Godot nel 1949, la
    prima rappresentazione teatrale ci fu a Parigi nel 1953, prima del
    debutto lo scrittore ricevette l’invito di Michel Polac, direttore
    di uno storico programma radiofonico d’avanguardia “Club
    d’Essai”, a partecipare a una puntata in cui Roger Blin
    avrebbe letto alcuni passi del testo beckettiano. Qui di seguito
    riportiamo la lettera che Beckett indirizzò a Polac, dove parla di
    Godot, fornendo molti spunti di riflessione sul rapporto tra autore e
    opera.

    A Michel Polac
    Paris, 1952
    Mi chiedete di esprimere le mie opinioni su aspettando Godot di cui mi
    fate l’onore di leggere alcuni brani nel “Club
    D’Essai”, e contemporaneamente mi interrogate a proposito
    delle mie idee sul teatro. Non ho alcuna idea sul teatro. Non ne so
    nulla. Non ci vado. E questo, mi sembra, è del tutto ammissibile. Lo è
    meno, invece, il fatto che in queste condizioni si possa scrivere una
    commedia e, in secondo luogo che, avendola scritta, non si abbia
    alcuna opinione su di essa, sfortunatamente, questo è proprio il mio
    caso. Non è da tutti il poter passare dal mondo che si apre al di
    sotto della pagina a quello dei profitti e delle perdite, come
    passando dal proprio lavoro al caffè all’angolo e di far ritorno
    imperturbabili. Io non so niente di più di questa commedia di quanto
    non ne sappia il lettore che si applichi attentamente alla sua
    lettura. Non so in che stato d’animo l’ho scritta. Sui
    personaggi, so soltanto quello che essi stessi dicono, quel che fanno
    e ciò che gli capita. Del loro aspetto, sono stato costretto a
    indicare quel poco che riesco a intravedere. I cappelli a bombetta per
    esempio. Non so chi sia Godot. Soprattutto non so neanche se esiste. E
    non se neppure se quei due l’aspettano ci credono o no. Quegli
    altri due che passano verso la fine dei due atti penso siano lì per
    rompere la monotonia. Tutto quel che ho potuto sapere l’ho messo
    in scena. Non è certamente molto. Ma mi basta, largamente. Direi
    perfino che mi sarei accontentato di ancor meno. Quanto a voler
    trovare a tutto ciò un senso più ampio e più elevato, da portare via
    con sé dopo lo spettacolo, con il programma di sala e il cremino, sono
    incapace di vederne l’interesse. Ma deve evidentemente essercene.
    La cosa però non mi riguarda né mai più mi riguarderà. Estragone,
    Vladimiro, Pozzo, Lucky, il loro tempo e il loro spazio, io ho potuto
    conoscerli soltanto un poco, senza sentire affatto il bisogno di
    comprenderli. Può essere che vi debbano rendere conto di se stessi.
    Che se la sbroglino da soli. Senza di me. Io e loro, siamo pari.
    S. Beckett

  2. meravigliosa questa lettera di samuel (come giorgio di costanzo che conosceva la ortese, io ho conociuto l’irlandese).
    se tutti avessero il coraggio di beckett, non ci sarebbero più quelle patetiche esibizioni che sono le presentazioni librarie. che cazzo ne sa l’artista di quello che fa?
    la cosa peggiore, per me, è spiegare a una cliente il significato di un mio maquillage.
    “ti senti più bella, cara”
    “ma certo, gil, e mi sento anche più sicura di me.”
    “ti senti più sensuale, più seducente?”
    “si gil, stasera lo farò morire”.
    “e allora và e non rompere i coglioni, tesoro”.

  3. Penso che questa lettera sia una divertita e divertente provocazione, nel puro stile del personaggio. Però immagina se Beckett avesse davvero scritto quella commedia con quello spirito.
    Tonnellate d’inchiostro scritte per una piece che non vuole dire assolutamente nulla, scritta in stato di ebrezza etilica e data alle scene come una pura marchetta. Immagino il divertimento dell’autore.

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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