Assalto al centro

di Giuseppe Schillaci

Il sole della peste stingeva tutti i colori e fugava ogni gioia.

Albert Camus

Sacchi di plastica si levano come gabbiani tra scogli d’asfalto, si gonfiano di vento e volteggiano sulle lamiere.
Vitaliano li guarda salire in alto e poi cadere in picchiata tra il benzinaio e il baracchino di stigghiola. Fissa il fumo bianco che s’alza dalla griglia di carbone e si spariglia in cielo, e ripete a mente le condizioni della promozione degli schermi LCD, dei videofonini e degli abbonamenti tv. L’odore insistente delle stigghiola viene appena smorzato da quello acre del sugo che la madre sta preparando di là in cucina. Dopo pranzo lo aspetta il lavoro, il terzo giorno del suo nuovo lavoro.
Vitaliano sorride dietro il vetro della finestra socchiusa, sorride di soddisfazione. Pensa al suo nuovo lavoro ed è fiero di sé, di come sa dare ai clienti informazioni dettagliate con la sincerità di un amico, di come rispetta i superiori, anzi li stima senza ostentazione, e di quanto è rispettato dai colleghi.
In strada, sotto il quinto piano del condominio di Brancaccio, i piccioni si avvicinano circospetti agli avanzi del baracchino di brace, e vespini e lapini s’incrociano rapidi. Vitaliano sorride e pensa al codice della cassa e ai ticket della mensa. Tra qualche ora inizierà il turno pomeridiano del suo terzo giorno di lavoro, quello più importante, il giorno della promozione. Al Centro di Roccella si aspettano centinaia di persone e Vitaliano è pervaso di un’autentica gioia.

Non vive questa sensazione di pienezza e aderenza alla vita da quando aveva tredici anni e suonava Mozart in modo “esemplare”, così disse il suo maestro, al saggio di violino di fine anno. Quella volta la gioia che seguì agli applausi fu indimenticabile, non l’emozione del palco, ma la sensazione di quando il piccolo Vitaliano tornò al leggio per prendere gli spartiti e rivolse lo sguardo fiero alla platea. In quel momento sentì lo stomaco riempirsi di leggerezza, della consapevolezza di essere parte di un gruppo, parte integrante della classe e della scuola e della borgata. Consapevolezza che però durò poco, sostituita subito dal solito senso di alienazione e distanza dai suoi compagni e dai borgatari, gente arrogante, capace di spaccarsi la faccia per una taliata di troppo.
E adesso, davanti alla plastica che piroetta in aria e al fumo di stigghiola che sembra salire dalle ciminiere del traghetto dello Stretto, Vitaliano è pervaso dalla stessa leggerezza del saggio di fine anno e gli pare di risentire le note del violino e allarga lo stesso sorriso sornione.

Ma la musica non ha pagato, nonostante l’orecchio assoluto, la tecnica impeccabile col violino, la disinvoltura alla chitarra e al basso. Anzi pagava troppo poco e quando voleva lei. Da anni Vitaliano ha lasciato il conservatorio, riservato a chi può studiare la musica, e ha provato a campare con la musica. Ci aveva provato anche a Roma, nell’orchestra del teatro dove lavorava la cugina. Ma anche lì i soldi erano pochi e arrivavano ogni tre mesi, mentre la padrona di casa non lasciava passare il tre di ogni mese senza sollecitare la mesata.
E così Caronte, il traghetto lurido e sbuffante dello Stretto, aveva attraversato ancora quello sfavillante braccio di mare, lo Scill’e Cariddi che pare oceano, e lo aveva riportato nella sua terra. E qui Vitaliano aveva iniziato a suonare con una banda alle processioni, con un’orchestra ai matrimoni, con un quintetto barocco in chiesa e con una band heavy metal alle feste dell’Unità, senza riuscire a racimolare i soldi per lasciare quell’odioso condominio di Brancaccio. Odioso non per colpa della madre o della sorella, ma odioso in quanto cubo di cemento scolorito nel mezzo della periferia più scolorita e cagnola della città, una borgata di straccivendoli, ambulanti e lavoratori socialmente utili, dove i palazzi inghiottono antichi castelli arabi e giardini di palme, e dove i più non hanno la quinta elementare ma almeno un cugino all’Ucciardone.
E i ragazzini urlano in continuazione, masticando e sputando per terra, e i fratelli maggiori si guardano l’un l’altro come cannibali abulici davanti all’unica preda disponibile.
“Ma il Centro di Roccella può cambiare le cose”, pensa Vitaliano alla finestra, giocherellando con la montatura degli occhiali, “il Centro porterà un po’ di civiltà e di benessere in questa terra disgraziata”. E si sente investito di una grande responsabilità perchè lui adesso è del Centro, è parte attiva di questa rivoluzione. Lavora al Centro di Roccella, travaglia per il cambiamento, la salvezza. “Magari un giorno ci vado pure a suonare, al Centro”.

“Vitaliano”, strilla la madre, “a mangiare!”. Il ragazzo inforca gli occhiali e giunge a grandi falcate in cucina. Si siede a tavola, divora tutto con appetito e commenta il telegiornale con la solita rabbia per le disgrazie del mondo, le notizie incomprensibili di politica: “Finalmente ricostruito il grande centro”, proclama con entusiasmo il giornalista, “rinasce l’Italia del miracolo economico”. Vitaliano sbuccia un’arancia, la mangia con calma, spicchio dopo spicchio, e parla alla sorella delle promozioni al centro di Roccella, dei videofonini in offerta e della possibilità di avere un mega sconto sui televisori HD, questo pomeriggio stesso, per i primi cento avventori che si presentano al suo banco. La sorella lo riempe di domande e curiosità a cui Vitaliano risponde con esuberante sicumera, il sorriso beato sulle labbra e gli occhi luccicanti dietro le lenti. In realtà a Vitaliano non importa niente dei televisori e della tecnologia, ma gli piace la precisione, la corrispondenza geometrica dei segni con le cose, questioni che ha imparato ad apprezzare quando studiava violino, questioni fondamentali per un’esecuzione esemplare.

Dopo il caffè, Vitaliano si accende una sigaretta ed entra nell’ascensore. Scende sul marciapiede infestato di sacchetti abbandonati dal vento e scatena il motorino per andare al nuovo lavoro. È il giorno della promozione e lui vuole essere pronto dietro il banco almeno mezz’ora prima dell’apertura delle danze. Percorre la strada di Brancaccio fino alla rotonda della zona industriale, quattro capannoni arrugginiti in cui Vitaliano non è mai riuscito a capire cosa si fabbrichi. Poi gira da dietro lo Sperone, le case popolari che in nulla sono diverse dalle altre tranne per il colore bianco sporco e per il fatto di essere tutte uguali, e si ritrova sulla strada nuova che porta al Centro.
Da lontano sembra un villaggio marziano disceso su quella terra tra le montagne e il mare, con pareti di vetro trasparenti, torri di acciaio e neon viola, muri obliqui di cemento e pilastri di un metallo vagamente grigio. Questa vista, per Vitaliano, è ogni volta una sorpresa, un miraggio che si fa realtà.
Varca la soglia del grande Centro di Roccella e attraversa l’immenso parcheggio che pare un lago o un vallo intorno al palazzo reale. Lega il motorino nel parcheggio riservato ai lavoratori del Centro, e sale saltellando le scale che lo portano al suo banco.
Alle 15 in punto si apriranno le porte della sala promozioni. Sono le 14.45 e al banco di Vitaliano giungono già le prime urla di impazienza. Loredana arriva di corsa dal corridoio, strillando di fare presto perché già ci sono più di cento persone dietro la saracinesca. Vitaliano non si scompone, va rapido all’impianto stereo, toglie Jenny Gonzales dal lettore e mette il cd che ha portato per le grandi occasioni: i capolavori di Mozart, magari così si rilassano un po’ là fuori.
Arrivano anche Franco e Peppe a gestire il banco e vengono chiamati due energumeni della sicurezza a incanalare il flusso di persone.
Sono le 14.55 e le urla si fanno più minacciose, qualcuno abbozza cori da stadio mentre ragazzi con capellini dorati strattonano bambini argentati, sospinti da ragazze con cinturoni di pelle e borchie e trucchi viola alla Jenny Gonzales. Dietro questa prima fila di ultras, spingono i padri, le madri, gli zii e le zie: signori panciuti che incitano gli altri con urla disumane e signore con lo sguardo perso nel vuoto e la bocca infuocata sempre aperta e petulante. La folla si fa rotulante come un fiume in piena, mandria impazzita in cui ognuno è rivale all’altro e cerca in tutti i modi di arrivare prima dell’altro e ha comunque un nemico comune: il banco della promozione, il forte da espugnare.
La prima fila forza il blocco, alza la saracinesca di peso e si fionda sul banco. Vitaliano abbozza un sorriso, ma capisce subito che c’è poco da ridere, che deve dar loro quello che vogliono, e nel minor tempo possible.
Franco e Peppe non riescono a placare l’orda che continua a ululare e ringhiare. In breve il banco è circondato come una mollica in uno stagno di pesci rossi e alle urla si aggiungono le offese, le minacce, le spinte.
Vitaliano deve alzarsi in piedi sul bancone e brandisce un bastone per allontanare quegli assatanati, che pare un domatore di circo.
Gli uomini della sicurezza alzano i manganelli e Loredana, cadaverica, continua a consegnare bollettini per il ritiro della promozione a quei mostri questuanti pronti ad aggredirla da un momento all’altro.
Quando la ragazza dice con un filo di voce che sono finiti tutti i televisori, la bolgia si placa in un istante. Un silenzio incredulo e carico di odio scende sulla folla; ognuno amplifica la sua rabbia negli occhi del suo vicino e un mugugno collettivo si alza fino a diventare grido di battaglia, grido di strazio e di lotta ancestrale.
È allora che Vitaliano viene preso alle spalle e gettato in mezzo alla scanna.

Si fa sera e la madre riceve una telefonata che la avvisa dell’incidente: Vitaliano è ricoverato, due costole fratturate e qualche graffio. La madre e la sorella si precipitano all’ospedale e trovano Vitaliano in una corsia su una barella fatiscente, la testa fasciata e la flebo. Il ragazzo ha una lesione al timpano, probabilmente perderà l’orecchio sinistro. Poco prima di Mezzanotte Vitaliano apre gli occhi, cerca gli occhiali con la mano e fa cadere un bicchiere di plastica. La madre si sveglia e lo bacia sulla fronte mentre lui scolla appena le labbra e sussurra che è stato suo l’errore, che non doveva, che ha sbagliato a dare Mozart in pasto a quelle bestie.

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13 Commenti

  1. Un racconto terribile, perché mostra come la bellezza puo essere in pericolo in un mondo dove si spende la gioia del consumo.
    Il luogo deturpato annuncia l’abbandono del senso profundo dell’uomo: il mare. In questo luogo brilla il colore della violenza sociale. Si puo dire che il vero sole ha sfuggito per raggiungere un cartello publicitario.
    Il destino sacrificato di Vitaliano è l’impossibilità di vivere del suo arte e di accettare una vita che divora ogni pezzo di bellezza.

    Grazie per avere postato questo racconto bellissimo.

  2. è un racconto bellissimo. pieno di verità. la scrittura è così suggestiva e intensa che mi è sembrato di sentire Mozart in mezzo alle urla, e di perderlo per sempre.

  3. Sono tempi duri ma le parole di questo racconto, a Palermo, notte di pioggia, mi fanno venire voglia di cercare e difendere, nonostante tutto, ora e qui, la bellezza. E poi tra le righe, vedo te, compagno.

  4. di solito, quando leggo un racconto ho la sensazione che sia una storia interrotta, spezzata, lasciata in sospeso all’immaginazione.
    stavolta no. la tua storia si chiude. e si chiude in un modo tragicamente meraviglioso, che non lascia spazio a fantasticherie ma nutre l’impulso alla riflessione. è questo che cerco nelle mie letture, è questo che ho trovato in te scrittore.

  5. Già. Non avevo ancora letto, ma ne avevo sentito parlare da molti. Proprio come dicono i commenti prima del mio: bello, molto bello. Ne hai scritti altri che non hai il coraggio di ‘dare in pasto a queste bestie’? E ddddddai.
    Ogni tanto fatti sentire.
    Un abbraccio
    p.s. Ma davvero hai la pancia????!!!!

  6. bellissimo racconto, non sono mai stata a Palermo, ma la lettura di questo racconto mi ci ha trasportata , mi sembrava di essere veramente nel quartiere Brancaccio, bravissimo davvero un racconto suggestivo , amaro e vero.Il ritratto di Vitaliano (un omagio a Brancati suppongo) è stupendo. Bravissimo Giuseppe Schillaci, un vero talento.Dove trovo altri tuoi racconti?Grazie mille.

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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