L’uomo veloce (1a parte)

di Marino Magliani

2009, Vite Parallele, cm 100.100, olio e acrilico su tela_ridEra ormai di spalle. Mi era passato davanti e l’avevo guardato come si guardano i turisti, abbassando il capo in saluto. Era estate, l’uomo veloce portava pantaloncini corti e maglietta, scarpe da ginnastica, un cappellino chiaro. Un turista qualsiasi, le 11, circa, di un mattino neanche troppo caldo: il sole aveva aggirato il costone e cominciava a esercitarsi sugli asfalti e gli intonaci del vicolo.
Passò e forse abbassò il capo pure lui. Io non salutavo per vedere se mi restituivano il saluto, ma lo facevo automaticamente. Me l’aveva insegnato mia madre: si saluta sempre nella vita e non si sbaglia mai.
Passò e si diresse verso Luvaira.
L’avrei rivisto sempre vestito così. Era la sua divisa delle vacanze. Tranne qualche volta d’inverno che l’incontrai col cappotto e un ombrello credo.
Io durante l’inverno al paese venivo di rado. Ritrovavo la Liguria solo in estate, gli sguardi e l’immenso piacere che sentivo nell’obbedire a mia madre: salutare la gente; lui invece penso che venisse regolarmente anche durante la brutta stagione. Forse aveva molte case di vacanza. Non glielo chiesi mai.
Per lui venire in vallata significava neanche quattro ore di macchina, credo che avesse l’autista, un giorno li avrei visti su di una Audi blu, di quelle molto grosse. Per me invece venire d’inverno era quasi impossibile, vivevo in Olanda, lavoravo saltuariamente sul porto a scaricare o traducevo atti di ufficio per avvocati, dichiarazioni di piccoli spacciatori e trafficanti italiani e spagnoli, ai quali facevo da interprete durante i processi.
Venire in Liguria durante l’inverno, malgrado al paese possedessi una casa e una legnaia, era un azzardo. Se il tempo era bello trovavo sempre qualche giornata in campagna, bruciare sterpaglia e ramaglia di ulivi potati, alzare le reti, dai contadini, a impastare cemento e passar le pietre per rialzare qualche muro caduto. Ma se pioveva tiravo la cinghia, andavo a fregare un po’ di cachi e aranci negli orti.
Quel giorno d’estate, verso le 11, ero seduto sul gradino del vicolo, accanto a un vecchio. Il vecchio mi diede di gomito, e fece segno col mento. Siccome era abbastanza sordo, disse forte:
” Quello che hai salutato è il padrone di non so cosa. ” E mi disse il nome.
L’uomo sentì sicuramente perché accorciò il collo.
Attesi una manciata di secondi, il tempo di fare allontanare un altro po’ l’uomo e quando sicuramente non poteva più sentirci, dissi al vecchio:
” Cosa mi dici ? ”
” Non lo sapevi? Ha comparato la villa dei Scenchi, a Luvaira, sai quella col parco?”
“Come no, ci passavo sempre d’inverno al ritorno da scuola, il pomeriggio tardi…”
” Sei passato? ”
” Niente… E viene in ferie? ” dissi forte.
” Gli piace camminare, fa avanti indietro la mattina, ogni tanto se la spacca per le terrazze, prende la mulattiera da qui e va a uscire a Carpasio. Ogni tanto si ferma a parlare, dice: allora, stiamo al fresco? E io lo saluto e gli dico che stiamo al fresco.”
Mi tremavano le gambe. Era il destino che aveva fatto venire in vallata quest’uomo.
Cominciai a informarmi, a chiedere quando lo vedevano, se era sempre di mattina o anche di sera, quando si passeggia volentieri. Se frequentava i bar della valle, ma era impossibile, quella gente lì non va al bar. I ristoranti. No, neanche, doveva avere un cuoco e camerieri, seppi che a tutte le ore uscivano dei filippini dal cancello di Villa Scenchi… Quel cancello, d’inverno, da bambino avevi sempre così tanta paura a passarci davanti.
Da chi conosceva le sue abitudini mi feci spiegare che mulattiere prendeva di solito. In un paio di giorni misi assieme un bel po’ di informazioni. Erano più o meno le cose che m’aveva detto il vecchio. In agosto l’uomo scendeva da Torino ogni venerdì sera e il lunedì mattina la Audi usciva dal cancello e prendeva l’autostrada. Lo svincolo era a qualche chilometro da Luvaira.
La sera me ne stavo nell’orto fino a tardi, seduto su un ceppo di eucaliptus, a parlare da solo.
L’uomo è uno dei più grandi editori, mi dicevo, direttore e presidente di diverse case, di cui fanno parte altre quattro o cinque case. L’uomo è tutto questo e passa le vacanze a Luvaira. I rondoni gridavano in cielo come se il mondo da qualche sera avesse conosciuto un’urgenza. Le rane in fondo, nel torrente, una grande gigantesca rana che pulsava nel fondovalle.
L’uomo è tutto questo e le mattine di sabato e domenica lo puoi incontrare per le mulattiere.
L’uomo si ferma a parlare con la gente. È lui che si ferma.
Cominciai a progettare incontri, a segnarmi tempi, appuntarmi possibilità. Un sabato uscii di casa all’alba e mi sedetti sui gradini all’ingresso del paese e aspettai.
Arriva esattamente da laggiù, mi dissi. Dalla curva dopo il ponte, sì, l’uomo sarebbe spuntato velocemente con la sua tenuta da turista camminatore, il fisico molto in forma, malgrado l’età, e i suoi occhi severi avrebbero guardato velocemente le acque del torrente e il ponte in stile romanico. Avrebbe gettato sguardi qua e là come fanno i turisti colti e importanti, perseguitati dalla fretta anche in vacanza.
Un po’ me lo dicevo come se fosse già apparso dalla curva e stesse salendomi incontro. Ma se non mi ero alzato e non gli andavo incontro era perché l’uomo non era ancora spuntato. Ci pensai e provai un senso di angoscia, forse oggi non cammina, oggi è l’unica mattinata di un sabato di agosto, da quando ha comprato villa Scenchi, che ha deciso di non trascorrere camminando veloce…
Il sole aveva aggirato già la fiancata fasciata dalla gigantesca rete di ferro, inondava la striscia di asfalto e i canneti e le terrazze a ponente. Quando mi alzai e mi spostai di qualche metro fu perché – se volevo guardare giù dove l’uomo sarebbe spuntato – dovevo assottigliare gli occhi e mettere una mano controsole.
Disponevo ancora di mezzo metro di gradino all’ombra. Poi il sole era dappertutto.
È un dolore, mi dissi, è come lavorare a un romanzo, è un esercizio, come per tutto, o pensavi che la prima volta che tentavi di incontrarlo spuntasse davvero… Alla fine decisi di andargli incontro, come per cambiare rotta al destino, ecco, come per materializzare l’uomo, accorciare l’asfalto tra noi, pensando che se l’avessi incontrato strada facendo tutto sarebbe sembrato molto più naturale. Ma dovevo essere pronto. Gli avrei detto: comincia presto il caldo. Lui mi avrebbe risposto: già, buondì. Oppure buona passeggiata, e avrebbe proseguito col suo passo da camminatore, rimettendo in fretta tra di noi altro asfalto.
Ecco lo sbaglio, hai fatto bene a pensarci. Tu devi fermarlo, deve capire che lo vuoi fermare, e deve capire che sei deciso, che non riuscirà a fregarti, deve capire che giochi in casa, che conosci ogni sentiero, ogni terrazza, ogni zolla di asfalto, sputo di cemento di questa valle. Ciò che devi fare è farti ascoltare, non devi lasciare che ci risia in fretta  dell’asfalto tra voi, perché lui è questo che tenterà. L’hai già notato come saluta la gente, anche quelli che lo fermano con una battuta. Hai visto com’è veloce a rispondere, un tono gentile ma scappando, risponde senza perdere il ritmo.
Giunsi dunque alla curva e guardai oltre. Non arrivava. Costeggiai il torrente, tratti di muretti, cui seguivano tratti di vuoto, e tratti di guardrail in ferro. Era la strada che facevo percorrere a un cane in un racconto. Poi tratti all’ombra, il sole di nuovo dietro i costoni. E prima di ogni curva il cuore mi parlava: è lì dietro, ora esci dalla curva e l’uomo veloce ti appare, vestito di bianco, lo vedi da lontano così hai tutto il tempo per prepararti, ma sei già preparato.
Poi dietro la curva il sole, castigo, il riverbero, l’asfalto deserto luccicante di incandescenze, ogni tanto le macchine che scendevano e salivano e quelle che salivano mi salutavano, quelle che scendevano rallentavano, si fermavano a chiedere se volevo un passaggio. No, facevo con la mano, o m’abbassavo a dire nei finestrini che stavo facendo due passi…
Scendo perché sto tentando di incontrare l’uomo veloce, avrei confessato loro, e l’avrei chiesto a quelli che salivano: sentite, voi che salite da Luvaira, per caso l’avete visto, l’uomo veloce, in tenuta da camminatore, lui, l’uomo che controlla quattro o cinque case editrici. Uno spettacolo.
Magari l’avevano appena sorpassato, sì, un tale, veloce, un buon passo, polpacci potenti e pantaloncini chiari. Non tutti dovevano sapere chi era…
Oltre il confine politico che separa gli antichi possedimenti Savoia, la mia parte, e quelli Doria, la parte di Luvaira, cominciai a temere di andare incontro a un uomo che non sarebbe mai arrivato. Faceva tutto quel caldo, di colpo, e la campagna era gialla, nei canneti lungo il torrente, e nelle terrazze di là, nei cipressi del cimitero, piena di cicale, e nelle cisterne sui bordi c’era qualche rana che provava. Camminavo esattamente come faceva il cane del mio miglior racconto, e cioè rasentando il guardrail. Anche i nostri propositi si assomigliavano. Era un cane che dietro ogni curva sognava di trovare il mare, fin quando il salso non l’avrebbe guidato davanti a un posto che assomigliava a una collina tagliata e allora si sarebbe fermato a guardare.
Avevo sorpassato il cimitero e a un certo punto vidi anch’io il mio mare, non l’uomo veloce, ma villa Scenchi, dove l’uomo veloce viveva.
Le passeggiate dell’uomo veloce erano sempre e soltanto verso montagna. Era la sua zona franca, la striscia di asfalto e ulivi e orti incolti, attraverso la quale il mondo gli permetteva di passeggiare e di scappare alle domande della gente. Una striscia di mondo fatta di case di pietre, di vicoli dai colori liguri, di posti popolati da tutto fuorché da gente indegna, che mai l’avrebbe importunato, offeso, umiliato, e che tuttalpiù gli avrebbe chiesto eh, allora? Come parlano lentamente i liguri dandoti tutto il tempo per scappare salutando in fretta, sorridendo e allungando il passo.
Certo, si stupirà quando lo fermerai e gli dirai che sei tu. Mi dissi questo.
<< Tu, uno scrittore, qui? >> ti dirà. O forse no, è svelto, ti vedrà e avrà già capito che sei tu.
Mi fermai. Non l’avevo incontrato. Era evidente. Non quel giorno. Anche questo era certo. Forse non l’avrei incontrato mai.
Ora capivo io: ogni volta in cui l’uomo veloce scappa a un sorriso o alle domande sulla grande casa di cui è presidente, egli si sta preparando per scappare a te.
Dunque, quel giorno, nel vedermi da lontano, prima che me ne accorgessi io, appena fuori di una curva, era molto probabile che l’uomo veloce avesse intuito dal mio passo che ero io, << è il passo del grande narratore il tuo, vecchia lenza! >>, ed indietreggiato, è tornato in fretta a villa Scenchi. Si è nascosto.
Ora sa chi sei… Questo era importante. Mi ero fermato sul ciglio opposto della strada. Davanti a me il muro di cinta di villa Scenchi, lunghissimo e antico, un intonaco che aveva respirato i motori di cent’anni, grigio, sovrastato da un filo spinato che assomigliava alla mia scrittura. A una doppia interminabile frase scritta senza virgole, e ci dovevano essere telecamere a guardar quel filo spinato, e il cancello di ferro battuto che non mostrava nulla di ciò che c’era dietro se non cime di cipressi alti e le canne di bambù lasciate crescere in modo da nascondere l’interno anche agli occhi appostati sul fianco opposto.
Più a mare, un’altra porta nel muro, più piccola, e una piccola edicola religiosa.
Ecco, mi dissi, lui è lì dentro, tra le due muraglie vegetali, forse sta camminando nel parco, veloce, bordo piscina ( c’è una piscina nel parco di villa Schenchi? non può essere, questo è un centro storico, le Belle Arti, i vincoli, ma l’uomo veloce dispone senz’altro di architetti milanesi, geometri torinesi, chissà quali strategie hanno usato per presentare un progetto in commissione edilizia ) o che cammina nell’acqua ed emerge perché un filippino gli fa segno che lo chiamano al telefono, e allora esce e risponde camminando, mentre il filippino gli mette addosso un paio di asciugamani.
Oppure va a finire che questo fine settimana non è venuto, senti che silenzio di rane là dentro… E mentre mi dicevo questo, si fermavano al mio fianco amici con apecar, con macchine, con camion e mi chiedevano se salivo su, se volevo un passaggio fino al paese… Ebbi anche paura che qualche videocamera segnalasse la strana presenza dello scrittore in attesa e che uscissero dalla villa milizie di filippini. Ma ero sicuro che se m’avesse visto lui, in uno di quei televisori che in scarface fanno vedere fuori, non avrei corso pericoli, l’uomo veloce avrebbe chiesto per ora di non liberare filippini, né chiamare la polizia, o fatto uscire il giardiniere a chiedermi se avevo bisogno.
Perché, lui, l’uomo veloce, se ti vedesse lo capirebbe subito che sei tu, lo scrittore, che sei lì per dirgli: sono io… E nient’altro.
E allora non gli avrei detto davvero nient’altro. Perché non sarei mai riuscito a dirgli altro.
Così tornai sui miei passi e accettai il passaggio dalla prima macchina che si fermò al mio fianco per chiedermi se salivo al paese.
Perché in questa valle mi conoscono tutti? Un giorno lo proverò a chiedere all’uomo veloce se lo sa.
Non lo sa. Perché le macchine si fermano, perché mi salutano tutti? Perché sono figlio di una storia, figlio di un mondo, perché se voi tracciate un cerchio intorno ai confini della mia valle e ne cercate il centro scoprirete che là, in quel vicolo, davanti a quella chiesetta, là dove sono nato e cresciuto c’è il centro della valle e del mondo, e io sono figlio di quel vicolo. Ecco perché. Sono la voce pop. Per questo tutti mi salutano quando passano e si fermano a chiedere se voglio uno strappo, dissi all’ometto che mi rimorchiava. Sorrise, guardando la strada, e annuì.
Eppure mi sembra che ormai non mi saluti nemmeno più il 50% della gente che mi salutava un tempo. C’erano tempi in cui camminavo per i paesi e la gente, i vecchi, mi chiamavano col nome di mio padre, e quelli di mezza età facevano il mio nome. Ora i vecchi che mi chiamavano col nome di mio padre non c’erano più, ora erano vecchi altri uomini, erano vecchi gli uomini che allora, quando ero ragazzo io, erano arzilli. E i giovani di adesso, quelli che avevano la metà dei miei anni non mi conoscevano neanche, sapevano che vivevo in Olanda, che ero scrittore, che la gente mi sorrideva, che tornavo perché avevo una casa che volevo vendere.

(continua)

(Immagine: Gaetano Vari, Vite parallele, olio e acrilico su tela, 100×100 cm)

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6 Commenti

  1. assolutamente d’accordo: ti inchioda alla pagina;
    e non ne capisci il perché vista (l’apparente) linearità/semplicità;
    o meglio, non te lo domandi nemmeno, sei anche sui sentieri della Liguria

  2. Marino qui dimostra ancora una volta la sua rara capacità di ritrarre e di stare praticamente fermo in un luogo fisico che poi è solo luogo di parole e pensieri.
    Non succede niente e accade tanto. Dentro.
    E’ tutta una minima onda di strada di collina di mare accompagnate dalle fluide variazioni di ricordi e fantasie.
    E’ notevole questo pezzo!

    MarioB.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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