Linea negra, una storia dall’Uruguay
di Jorge Santalmassi
A metà degli anni sessanta mi capitò la grande fortuna di avere come professore di spagnolo il poeta René Pertusi, fuggito dall’Uruguay poco tempo prima a causa di un fatto di sangue, di cui egli fu soltanto vittima per così dire scampata al peggio, che era successo a Montevideo: da tempo Pertusi era coinvolto in una polemica interna alla cosiddetta “Linea Negra”, una piccola rivista di poesia e critica letteraria che dal 1958 al 1966 aveva raccolto in sé come in un cenacolo litigioso alcuni poeti uruguaiani considerati, a mio parere a torto, minori. Non v’era una linea direttiva ma una serie di nuclei ideativi, di monadi a volte arroccate su certe posizioni non sempre conciliabili con quelle degli altri, di cui Pertusi era forse il più vulcanico e attivo esponente, ma anche il più chiacchierato. Spesso in polemica con i compagni Francisco Gutierrez e Antonio Malendo, la rivista chiudeva e riapriva continuamente, tra scontri anche frontali molto forti e conseguenti riappacificazioni.
Pertusi mi raccontò tutta la storia di “Linea Negra”, nella quale stavano come in una botte di fuoco storie personali e letterarie, e spesso le une andavano a sfondare le altre: finché un giorno si arrivò alla tragedia. La rivista aveva una sede nella città vecchia di Montevideo, vicino al Teatro Solis. Una semplice stanza presa in affitto da Gutierrez, che era il più abbiente dei tre. Corredavano il tutto due poltroncine di velluto verde, un vecchio scrittoio, una macchina da scrivere. Tutt’intorno libri, giornali, tazze di caffè non lavate, cicche di sigarette sparse un po’ dappertutto, una brandina che poteva servire per vari scopi.
Prima di arrivare alla piccola sede, tutte le mattine verso le dieci, Pertusi percorreva la Rambla Montevidana, che segue come una bella ombra spaziosa la costa e permette di godere di un bellissimo panorama delle spiagge: fu lì che, pochi mesi dopo l’inizio dell’avventura di “Linea Negra”, René si dava romantici appuntamenti segreti con Caterina Malendo, la sorella di Antonio. Segreti erano, quegli appuntamenti, perché Antonio nutriva per la sorella minore una sorta di affetto morboso, e tutto questo alla luce del sole. La ragazza era bellissima ma completamente digiuna di cultura e di arte, studiava per ottenere il diploma di maestra d’asilo ma con poco profitto. Natura malinconica, trascorreva le sue giornate in casa o, se usciva, lo faceva quasi soltanto per andare a fare la spesa per tutta la famiglia, della quale il fratello Antonio era il capo indiscusso, una specie di despota.
Che il mio amico e maestro René fosse un dongiovanni lo sapevano in molti, e naturalmente anche Antonio, che mai volle che i due giovani (Pertusi allora aveva trent’anni, Caterina diciotto) avessero l’occasione di incontrarsi. Ma René aveva da tempo adocchiato la ragazza, e un mattino, invece che andare alla rivista (era lui che sbrigava il lavoro sporco, cioè la corrispondenza, la battitura dei testi e altre faccende, poiché, non avendo un lavoro fisso, aveva il tempo per farlo) attese che la ragazza uscisse per fare la spesa come quasi ogni mattina. Non ci volle molto per l’abile Pertusi per ammaliare la ragazza. Ma stavolta non si trattava di un’avventura. Renè s’innamorò perdutamente della ragazza, ricambiato. Facevano così lunghe passeggiate per la Rambla Montevidana, dove si dettero appuntamento per mesi finché, per una soffiata di un falso amico, Antonio scoprì tutto. Era il 1966 e la rivista, dopo otto anni difficilissimi costellati da continue chiusure e riaperture e continui ostracismi del governo e della intellighenzia ufficiale uruguaiana, stava sostenendo l’ennesima crisi. Francisco Gutierrez litigò con Malendo per l’ennesima volta e uscì. Se questa era l’atmosfera cupa che attorniava i tre, per Malendo fu come un colpo in pieno cuore l’uscita di Francisco, per il quale nutriva da sempre un affetto, nonostante i frequenti dissapori, che invece per Pertusi non nutrì mai. Malendo soffriva da tempo di crisi depressive: pochi giorni dopo quella malevola spiata, senza dire nulla a nessuno, roso dalla gelosia per la sorella “che mai nessuna mano senza la delicatezza di cuore di un fratello devotissimo toccherà mai perché Caterina è il centro del sole e della terra che mi ospita senza alcun merito di cui vantarmi”, così scrisse in una pagina del suo diario pochi mesi prima il fatto di sangue, certo che la sorella fosse stata usurpata da Pertusi, attese i due sulla Rambla per ucciderli: sparò un colpo di pistola al petto della sorella, che morì subito. Pertusi riuscì a fuggire lungo la Rambla nascondendosi tra i passanti, mentre Malendo tentava di finire anche lui. Prima che la polizia potesse intervenire per fermarlo, davanti alla gente inorridita, puntò la pistola sottratta al padre, colonnello dell’Esercito in pensione, e fece fuoco contro se stesso.
Pertusi decise, affranto dal dolore, di andare in Argentina per sempre. E lì, nel mio paese, ottenne quasi subito un posto da professore di spagnolo a Buenos Aires.
Fu un maestro premuroso, che però faceva trapelare quasi in ogni momento del suo agire un’intima tristezza. Tre anni dopo, quando io cercavo già di farmi strada nel mondo del lavoro, Pertusi, col quale rimasi sempre in contatto fino alla sua morte avvenuta nel 1986, mi raccontò quella tremenda storia, della quale non avevo mai sospettato l’accadimento.
“Linea Negra” era partita con grande entusiasmo, come una voce polifonica alternativa nella letteratura latinoamericana; ma pochi ne seguirono i dettami e le idee, e oggi quell’esperienza è quasi totalmente dimenticata, anche in Uruguay. La filosofia di “Linea Negra” era di porre le questioni non solo della poesia, ma anche del vivere comune, in una posizione di estrema radicalità, nel rispetto, posso dire assoluto, dell’individualità della persona. In tutto questo, lo sguardo politico era sostanzialmente anarchico, anche se nessuno dei componenti di “Linea Negra”, in una specie di coerenza ultimativa ed estrema, sentiva di appoggiare le istanze di alcun movimento politico, perché, secondo i tre, “nessun partito o movimento politico puo’ proteggere l’essenziale disperazione della storia. Compito di “Linea Negra” non è quindi progettare un futuro politico che già sentiamo come irrealizzabile, ma auspicare per tutti l’ affrancamento lineare e spontaneo di ogni individuo da ogni sorta di potere”: così scriveva proprio René Pertusi in un articolo del 1959. Dunque in “Linea Negra” esisteva secondo me una forte contraddizione di facciata che infatti a ben guardare contraddizione nella sostanza non era: se la politica, così com’era da loro intesa, non ha un futuro realizzabile, è soltanto l’individuo che, ciascuno per sé, puo’ tentare di affrancarsi dalle schiavitù di ogni tipo. E per arrivare a questo, Pertusi, in quello stesso articolo, auspicava “una rivoluzione culturale del bisogno di libertà individuale”, ossia quel concetto che egli espresse in un piccolo panphlet dal titolo “Risparmiate sul pane per nutrire il vostro piccolo cuore”. E’ chiaro ormai anche a me, passati così tanti anni e con sulla schiena tutte le mie svariate esperienze, che quello di “Linea Negra” era un velleitarismo permeato in ogni sua fibra di disperazione. Eppure, nel leggere le poesie di quei tre per molte ragioni così diversi per carattere e addirittura inclinazioni, possiamo trovare proprio quel punto comune che, tra liti e riappacificazioni, come un tenue filo lì unì, nonostante tutto, fino alla tragedia personale innescata dalla morbosa gelosia di Malendo per la sorella. Una malinconia che è nostalgia per cio’ che non si potrà mai vivere né fuori da noi (nella cosiddetta società civile) né al nostro interno di uomini, nel nostro privato. Concludo con questa poesia, secondo me una delle più belle di René Pertusi, che ho tradotto espressamente dallo spagnolo.
INGRESSO
L’ingresso di una ferita
sulle scale deserte
nè una goccia d’acqua
nè la schiuma di un vetro spezzato
tutta la nostra vita assiste a se stessa
è durata ventidue anni
e si è svolta in due camere.
Di notte vedo lucidamente
lo scorrere deserto della via
da noi non c’è neppure una finestra
dalla quale vedere chi ci assiste.
Non conserviamo certezze
nè quella che vivere sia ovvio
a vivere non ci ha spinto il timore della morte
ma solo il pudore
e a seguire l’orgoglio
un pane che non indurisce mai.
Anche tu non pensi a me
ma dimmi, da quanti giorni?
Anche tu hai trovato un’altra vita.
E se dopo quest’alba insonne
subito rifacesse buio?
(Nella foto: un autoritratto di Renè Pertusi)
grazie Jorge, l’ ho letto molto volentieri, c’ é dentro tutto il mondo yorugua di quegli anni.