In bilico su un articolo. Storie dal Sant’Andrea
di Piero Sorrentino
È come l’ultima volta. Anzi no, è quasi come l’ultima volta. Piccole differenze, roba da poco. Dettagli. Oggi per esempio, rispetto al lungo presidio di inizio anno – quando avevano levato le tende solo alle cinque del mattino, alla fine di una notte orgogliosa che non si decideva a svanire in luce – oggi non gira la fiaschetta con la stranissima grappa ai semi di girasole, ma bottiglie d’acqua liscia e lattine sformate di coca sfiatata. E di quella notte non c’è neppure la porchetta sdraiata tra due mattonelle di pane caldo, sostituita da rettangoli di pizza rossa con la mozzarella che fila al centro e che lascia riccioli di pasta cotta ai lati delle labbra e aloni d’olio sulla carta del sacchetto.
Fatte salve queste variazioni, sotto l’atrio della Regione Lazio i lavoratori precari dell’ospedale sant’Andrea si ritrovano con gli stessi pacchi di documenti sotto al braccio, lo stesso megafono che scandisce versi di canzoni e cori stonati, e soprattutto le medesime richieste di sei mesi prima.
C’è qualcosa di magico in questo eterno ritorno della protesta, una fascinosa forma di ripetizione coatta di voci e facce e slogan e volantini sventolati sotto ai nasi dei consiglieri che si infilano nei corridoi dei corpi accaldati di questa mattinata romana di inizio agosto, afosa ma non umida, luminosa ma non assolata. Un brivido di immobilità, un soffio d’assoluto, una scossa d’eternità che solo i tortuosi snodi della burocrazia italiana riescono ormai a concedere.
A osservare il gruppetto dei precari del sant’Andrea che lega al fusto di un albero un lenzuolone con la scritta “Fate qualcosa di sinistra: assumeteci!”, però, sembra abbastanza evidente che di Nietzsche e Vico, degli eterni ritorni e dei corsi e ricorsi della storia, a loro importi davvero poco.
Il mirino calato costantemente ed esclusivamente davanti allo sguardo di queste persone porta inscritto al centro un semplice numero: 139, o meglio, articolo 139. Una fredda sequenza aritmetica che davanti ai loro occhi si trasforma, come le stringhe alfanumeriche verdi che scendono a pioggia sugli schermi dei pc in Matrix, in immagini e suoni, idee, riverberi lontani eppure concretissimi di una vita a venire che non viene mai, che non viene ancora.
In fin dei conti è sempre così, è sempre questione di articoli. Le vere battaglie sul lavoro, quelle che tutti fin dal primo momento avvertono come necessarie anche senza dirselo apertamente, ruotano attorno a un unico perno normativo, un cardine asciutto o fuori squadra che necessita di abbondanti fiotti d’olio e di due o tre sostanziosi colpi di martello coi quali, magicamente, mettere a posto l’intero impianto che gli cresce attorno, assieme soprattutto alla vita di chi per quell’articolo lotta.
Detta in due parole (ma si può dire in due parole più di un anno di vertenza?) la cerniera allentata è la seguente. La legge di bilancio della Regione Lazio (n.ro 4/2006) approvata lo scorso marzo, contiene al suo interno un articolo, appunto il 139, col quale ci si impegnava a superare le situazioni di lavoro precario, atipico ed esternalizzato della Sanità laziale entro novanta giorni, a partire proprio dal sant’Andrea. Tra le altre cose l’articolo prevedeva, “al fine di avviare un piano organico per il superamento di situazioni di precariato (…) la verifica e il monitoraggio delle situazioni di lavoro precario (…)”. Il monitoraggio (sotto forma di autocensimento, avviato e concluso in poche settimane a cura proprio dei precari ospedalieri, in collaborazione con la direzione sanitaria [1] – le note sono in fondo alla pagina, n.d.r. ), stando ai calendari concordati, avrebbe dovuto essere presentato nella riunione del 13 giugno, in Regione. E qui, con una sapienza narrativa che nemmeno dieci master semestrali alla scuola Holden, cade il colpo di scena, sufficientemente indicativo di un certo atteggiamento che fa dei sindacati confederali gli interlocutori privilegiati, e forse si può dire coccolati, di tutta la faccenda. Il tavolo viene sdoppiato: una prima riunione alle 10,30 con i sindacati firmatari di contratto (“quelli che contano”, sintetizzano efficacemente qui: CGIL in testa); una seconda, alle 13, nella quale sostanzialmente si prende atto delle decisioni maturate in quella della mattina. Da tutte e due, fatta salva la presenza delle RSU alla seconda, i Cobas vengono tenuti, chissà quanto scientemente, fuori.
Dalla manciata di precari che gravita attorno alle transenne scrostate sotto all’ingresso della Regione si fa avanti Erminia Costa, dei Cobas, occhiali un po’ laschi sul naso e parlantina rapida, accesa, costantemente sulle frequenze di chi sa quello che dice e quello che vuole.
“La questione si gioca tutta intorno alle cooperative. Il meccanismo è semplice: l’azienda paga le cooperative, le cooperative pagano i lavoratori. La richiesta che facciamo è altrettanto semplice: saltare questo passaggio ed essere assunti direttamente dall’ospedale. I posti in pianta organica ci sono, se assumono non rubano il lavoro a nessuno. C’è anche il risparmio, visto che l’assunzione diretta permetterebbe un risparmio di tre milioni di euro l’anno. Lavorano da cinque anni, e mandano avanti l’ospedale…a questo punto che convenienza c’è?”.
Gianfranco – quello che nella prima notte ostinata sotto alla Regione, sei mesi prima, distribuiva grappa a destra e sinistra, 40 anni, portantino di sala operatoria, vent’anni operaio in una fabbrica di decoder per il digitale terrestre, prima che la ditta per la quale lavorava fosse rilevata da un’azienda inglese il cui primo atto ufficiale è stato spedire lettere di licenziamento a tutti gli operai –fissa Erminia, annuisce. Fa due passi avanti, poi parla.
“Il sant’Andrea è stato aperto sulla base di un calcolo che poi s’è rivelato sballato. Credevano che i lavoratori in mobilità del Policlinico si spostassero da lì a qui. Per tutta una serie di motivi questo non è successo. Per mandare a regime l’ospedale quindi sono subentrate le cooperative, e da quelle vengono tutte le figure professionali dell’ospedale, sia a livello amministrativo che sanitario: portantini, assistenti ai malati, magazzinieri di farmacia, economato, ausiliari, segretari: tutto esternalizzato. Il cinquanta per cento dell’intera forza lavoro ha contratti precari [2] . Chi ha interesse a far spendere tre milioni di euro in più all’anno? Quando abbiamo presentato i dati il dottor Rocca (direttore generale dell’ospedale, n.d.r.) ha sbarrato tanto d’occhi. Non ci credeva nemmeno lui. Tranne i Cobas, tutti i sindacati ci hanno preso letteralmente a pesci in faccia. La triplice sembra avere interessi che vanno ben al di là della semplice tutela dei lavoratori. Le coop rosse stanno vincendo appalti su appalti nel Lazio, scendono a frotte dall’Emilia. Il sospetto che i sindacati facciano gli interessi di un certo tipo di lavoratori, e di un certo tipo di categorie, ecco, nun so a tte, ma a me me viene”.
Daniela – cooperativa SIAR[3] – lavora al sant’Andrea da quattro anni, è “addetta ai servizi” [4] figura come “socio lavoratore” nell’organigramma della sua cooperativa ma non ha mai partecipato a un’assemblea, non ha mai goduto della redistribuzione degli utili, alla convocazione degli incontri per l’approvazione del bilancio le trattengono un euro dalla busta paga, e se nella presentazione del bilancio qualcosa dovesse andare storto, assieme ai dirigenti della cooperativa anche lei si troverebbe i finanzieri alla porta.
C’è bisogno di un machete largo e affilato per sfrondare l’intrico nodoso di sigle, contratti e appalti di gestione che giorno dopo giorno diventa il buco nero sempre più denso attorno a cui gravitano le vite di queste persone. Dal piccolo sondaggio effettuato, viene fuori che i due contratti part-time più diffusi qui in mezzo sono quello da 36 ore settimanali (730 euro al mese), e quello da 42 ore settimanali (800 euro al mese) [5] , tutti e due con turni medi tra sette e dieci ore al giorno.
Come sempre, quelle che più saltano agli occhi per una certa serie di evidenze che chiamare bizzarre è tutt’uno con l’usare un lessico ammorbidito, sono le storie di quelli che nella maggioranza dei casi non rientrano. Tra gli addetti alla mensa, per esempio, ce n’è uno che ha un contratto part-time di 14 ore settimanali. Due ore al giorno, in pratica. Dalle 11 alle 13. Per raggiungere l’ospedale l’addetto (che non ha una propria auto non potendosi permettere di pagarne l’assicurazione R.C.A.) prende tutti i giorni l’autobus alle 9 del mattino, l’unico che arriva in tempo utile in ospedale. Alle 13 finisce di lavorare, ma prima delle 16 non c’è il bus per il ritorno. Insomma, delle sette ore complessive che impiega per andare, lavorare e tornare, solo due gli vengono pagate.
Tutto si amalgama, tutto si omogeneizza nel gran calderone delle sigle, tutto si arrotola attorno alle gerarchie della precarietà diffusa, arrampicandosi come giri di vite su un palo, nella vigna del lavoro moderno. Perché neppure nel fiume grosso del precariato, nel suo alveo vasto e accogliente, oggi, puoi fermarti. Saresti travolto da numerosi rivoli laterali, piccoli e possenti. La scala della disperazione ha decine di pioli marci, e su ognuno c’è qualcuno fisso in piedi, pronto a cadere da un momento all’altro. Nel sant’Andrea, per esempio, parlare genericamente di precari non ha senso. Bisogna specificare, chiosare, sottilizzare, distinguere. I precari per esempio sono lavoratori a tempo indeterminato (una notizia che è come una spallata ai piccoli castelli di certezze intorno a quello che crediamo di sapere sul lavoro di oggi), vincitori a tutti gli effetti di un concorso, che non si sono ancora visti assegnare il posto che gli spetta. A seguire vengono i lavoratori atipici (gli interinali, sostanzialmente equiparabili ai primi, con la differenza che non sono assunti direttamente dall’azienda sanitaria). Poi le cooperative. In ultimo, last AND least, gli esternalizzati, i paria dell’ospedale (l’addetto alla mensa che sta sette ore in ospedale per lavorarne due, insomma). Essendo considerati in pianta organica dell’ospedale, secondo la delibera dell’articolo 139 i precari saranno i primi a essere assunti nel momento in cui sia la legge che l’emendamento riceveranno l’ok definitivo. Circa ottanta persone. Dodici sono gli interinali. Restano da sistemare i centottantasei lavoratori delle cooperative e l’indefinibile numero degli esternalizzati [6] .
Al momento in cui la rivista viene chiusa per la stampa, i lavoratori del sant’Andrea stanno ancora aspettando la conclusione della vicenda. La delibera è ancora ferma su carta, in attesa che i lavori dell’assemblea regionale riprendano dopo la pausa estiva.
Mando un sms a Erminia Costa.
Da: 329/095****
A: 333/229***
Erminia, novità?
Passano due minuti.
Da: 333/229****
A: 329/095****
Macché, stiamo ancora aspettando. Anche quest’anno ferragosto da precari.
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[1] Tutta la vicenda del sant’Andrea è zeppa di collaborazioni, aperture, disponibilità al dialogo, trattative serene, tavoli allargati. La domanda che più spesso si corre il rischio di farsi perciò è “Se tutti sono disposti collaborare, chi gioca sporco in questa faccenda?”.
[2] Sembra che alcuni passaggi per la compilazione dell’autocensimento non siano stati proprio un gioco da ragazzi. Per dire, a un certo punto non si sapeva quanti fossero gli addetti alle pulizie ospedaliere. Che numero mettere? Uno dice: facile, basta contare i contratti con la dicitura “Appalto per la pulizia”, associarli al nome dell’operaio addetto, e il gioco è fatto. Sbagliato: i contratti con le imprese di pulizia non sono nominali, l’anagrafe non è contemplata in mezzo a stracci e detersivi. L’azienda sanitaria paga per appalti al metro quadrato. Stop. Il contratto si chiude lì. Sta alla cooperativa decidere quante persone ci vogliono per pulire una struttura che ospita 1200 dipendenti e 850 posti letto. Il sospetto – non verificato – è che poche persone siano costrette a fare molto lavoro. Ovviamente, le lamentele, senza un pezzo di carta col tuo nome stampato sopra, sono poco tollerate/ascoltate/giustificate dai tuoi capi.
[3] Le sigle delle cooperative sono tante e complicate, spesso costituite da acronimi che sembrano tamponamenti di consonanti che lasciano sul terreno cadaveri di lettere. La penna del cronista intercetta a malapena quattro nomi: Siar, Capodarco, Arcobaleno, Osa. Ma ce n’è molte, molte di più.
[4] Che lavoro è, quello di addetto ai servizi? Non chiedetevelo. Nemmeno Daniela riesce a spiegarlo con precisione. Diciamo che quando c’è qualcosa da fare – e in un ospedale c’è sempre qualcosa da fare – lei prende e va a farlo. All’apertura dell’ospedale, per dire, mancavano operai per i muretti a secco, e lei ha sollevato la carriola coi mattoni ed è andata a farli. Qualcuno ha spalato le buche per terra dove innestare gli alberi, qualcun altro trasportava calcinacci, qualcun altro ancora si caricava i macchinari sulle spalle e li spostava da un piano all’altro.
[5] Superfluo aggiungere che nei contratti non sono contemplate ferie, malattie, garanzie assistenziali, versamenti previdenziali, indennità di rischio ecc.
[6] Una stima per difetto conta almeno 300 persone.
(pubblicato su Maleppeggio. Storie di lavori. Numero 1 – ottobre 2006)
La rivista, con articoli e reportage di Elena Stancanelli, Christian Raimo, Mario Desiati, Giorgio Falco, Attilio Scarpellini, è anche qui, integralmente, in .pdf)
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Piero, bravo.
> Credevano che i lavoratori in mobilità del Policlinico si spostassero da lì a qui. Per tutta una serie di motivi questo non è successo.
Qui forse servirebbe un “supplemento di analisi”.
Caro piero, e’ sempre un piacere leggerti…anche dall’Inghilterra. Ti ho mandato delle e-mail, spero ti siano arrivate. Davvero un gran bell’articolo.
wow bell’articolo… io sono studentessa al sant’andrea. in bocca al lupo…in quella bolgia di perbenismo di plastica che si chiama Azienda Ospedaliera Sant’Andrea.