Napoli. Tra movimento e stasi.
Se al termine di ogni ricognizione sulla città la domanda che emerge è sempre la stessa, “c’è ancora per speranza per Napoli?”, vuol dire che in realtà la speranza già non c’è più. Che questo nominarla altro non è che una forma di evocazione. Che siamo lontani e condannati, abbastanza da dover ricorrere ad una domanda che vive di se stessa, e che non ha mai risposta, ma si moltiplica all’infinito rimbalzando da un giornale all’altro, da una cronaca all’altra.
Per chi abita ogni giorno questa città però, la questione non è così semplice. Non si tratta di una domanda che può essere facilmente elusa, tra il caffé del mattino ed il lavoro. Perché è su questo punto che si gioca l’identità della città, e quindi la nostra; è qui che scopriamo l’ago che baricentra la nostra vita: divisi tra un fujtevenne di edoardiana memoria e un appello alla resistenza, tra una percezione della realtà che sconvolge e talvolta taglia il fiato, e un bisogno morale di non rendere i nostri giorni un semplice trascinarsi di ore su altre ore.
Ma innanzitutto bisognerebbe dare un corpo a questa speranza. Capire che cosa dovrebbe indicare. Se allude ad una forma di normalità, che faccia in modo, ad esempio, che quegli indici che segnalano la quantità di rapine, scippi, e furti all’interno del territorio urbano siano perfettamente in linea con le altre metropoli italiane, o addirittura occidentali.
Leggendo con attenzione l’ultimo reportage de “L’Espresso”, e soffermandosi solo sui dati, si può notare che in realtà nel semestre gennaio-luglio 2006, rispetto al medesimo semestre dell’anno precedente, c’è stata una diminuzione sostanziale di questi dati. Ma è evidente che non siamo di fronte soltanto ad un problema di natura quantitativa. Questa città in realtà comincia a patire una carenza antropologica fortissima, un’evoluzione in negativo. Ed è questo il vero allarme che lancia. Ed è anche la sua specificità, cosa che rende difficile il paragone con altre aree urbane simili.
I numeri infatti non ci dicono di una realtà in cui, al dato statistico, si sostituiscono persone, e non ci dicono in che modo quelle persone sono parte integrante di un sistema – come lo definisce Roberto Saviano, l’autore dell’inchiesta per “L’Espresso”, che ha fatto della pervasività la sua cifra più naturale.
In un rapporto tanto diretto quanto perverso, quello che si nota è che maggiore è la capacità di penetrazione del potere criminale nel tessuto della città, più profonda è la trasformazione antropologica delle persone. Forse oggi un nuovo reportage su Napoli dovrebbe cominciare da una ricognizione dei volti che affollano le strade.
Va detto subito una cosa: una carrellata dentro Napoli è un movimento a perdersi, e a perdere. Alla fine di questo articolo saranno maggiormente chiare quattro cose, tutte obiezioni che sono ben presenti nella mente di chi adesso scrive. Primo: che parlare di Napoli in maniera esaustiva è impossibile. Secondo: che la parola in sé – Napoli – è una sorta di shock lessicale che imbriglia e richiama alla mentre troppe suggestioni, e che bisognerebbe seguirle tutte per cercare di proporre una decalcomania oggettiva della realtà cittadina. Una decalcomania in cui sia presente l’inferno abitato dai demoni, e il paradiso di bellezza che ferisce gli occhi per la lussuria della sua luce meridionale. Terzo: che descrivere l’attuale precarietà civile di Napoli non significa minimamente azzerare tutto ciò che di vivo e violentemente esatto fiorisce, ogni giorno (probabilmente ogni istante), in questa città. Quarto: che per tutto quello che si dirà a breve ci sono delle precisissime responsabilità politiche; ossia ci sono nomi e cognomi, colpevoli di omissioni, di incuria amministrativa e di contiguità. E quei nomi sono lì, nel presente storico-politico.
Esattamente due anni fa, nell’ottobre del 2004, i riflettori dei media furono all’improvviso puntati sulla periferia napoletana, e più specificatamente sul triangolo Scampia, Case celesti, 167, per raccontare la faida criminale tra il clan camorristico dei Di Lauro e gli scissionisti.
Sembrò quasi una scoperta etnico-antropologica entrare in quel territorio, per scoprire che era oramai sganciato definitivamente dallo Stato. Una vera e propria riserva indiana, dominata da leggi, uomini ed economie che nulla hanno a che fare con quella di tutti i giorni. Si sarebbe tentati di dire con quella reale, se non fosse, come dimostra Saviano, che in realtà è l’economia reale e trasparente della città ad essere dominata da questa.
Oggi quello che sconcerta, e che nulla ha a che fare con indici e statistiche, è notare come quella riserva, quel cancro nel tessuto vivo della città, è la cellula dominante del territorio. Esporta modalità e uomini fino al cuore della polis, arrivando a installarsi in maniera permanete nel suo centro. E la città, spesso, lungi dal reagire, se ne lascia invadere, si appropria di quei modi replicandoli. Insomma, il cancro, che credevamo lontano e per questo eravamo disposti a tollerare, si sta impadronendo, senza alcun contrasto, del cuore della città. È quel modello teorizzato da Biagio De Giovanni per cui a Napoli è la periferia a dettare stili e stilemi alla città e non viceversa [negli Atti, per ora inediti, di un convegno tenutosi l’anno scorso. N.d.C.].
Questa forma di invasione è avvenuta lentamente ma inesorabilmente. E tutt’ora continua, giorno dopo giorno, incastrando nei meccanismi della città ‘normale’ gli ingranaggi della macro economia di camorra. Cosicché sia impossibile per i primi continuare a funzionare senza l’apporto dei secondi.
A fronte di tutto questo la risposta della politica è stata fondamentalmente di due tipi. O un silenzio impotente, che ha assunto troppo spesso i tratti dell’accettazione. Oppure, e questo è peggio, lo snaturamento del problema con la rivendicazione, nuovamente, del nudo dato quantitativo; quest’estate del 2006, ad esempio, sono stati citati esempi di altre città in cui la quantità di rapine, furti, omicidi è alla pari o superiore a quella di Napoli. Si sono eluse in un colpo solo la natura del problema e la sua fisiologia reale. Non si sta capendo insomma che qui è in corso una sorta di mattanza antropologica. Lenta e pervicace.
Le forze dell’ordine e qualche cittadino oppongono una resistenza commisurata alle loro forze. Chi si oppone troppo, vedi il giornalaio ucciso di recente nella zona collinare del Vomero, viene tranquillamente eliminato.
Le cellule, e sono molte e sono impazzite, devono espandersi e proliferare. Tanto più che il rallentamento economico in atto a Scampia a seguito della faida camorristica e il recente indulto hanno immesso nel territorio una quantità di manovalanza senza direzione, non votata ad altro che ad una sopravvivenza minima, disarticolata e spesso feroce. Come quella delle bestie.
La trasformazione antropologica di queste persone in entità ferine è evidente dalla gratuità di una certa ferocia minima. Quello che colpisce, di nuovo, nel caso ad esempio della giovane donna scippata in una delle migliori strade della città durante il periodo estivo, non è l’azione in sé, quanto la qualità della violenza che viene messa in atto per quest’azione. Prendere a calci una donna incinta, correre addosso ad un turista americano appena aggredito, non per soccorrerlo ma per aumentare la dose di mazzate, oppure – caso di pochi giorni fa – sparare nel cuore della città ad un turista di passaggio, sono tutte azioni gratuite, figlie dell’assurdo ferino e del disordine politico.
Di fronte a questo arbitrio insensato, altro dato che colpisce, è successo che le vittime di tali aggressioni si siano rivolte con lettere e appelli direttamente alle istituzioni cittadine: talmente forte è stato il sentimento di shock, che quasi non ci si è resi conto di quello che si è subito; perché si è consapevoli che non si è trattato del semplice gesto criminale, ma di qualcosa in più, di un passaggio magari momentaneo attraverso gli occhi dell’aggressore in un territorio mai visto, una jungla che in quegli istanti ha sospeso tutte le leggi occidentali che nella quotidianità ci rendono sicuri.
Ma perché questa suppurazione così potente, soprattutto negli ultimi mesi, del cancro criminale? Bisognerebbe a questo punto non fermarsi solo sul dato, sul ‘testo’, ma maggiormente concentrarsi sul contesto in cui queste cellule impazzite si sviluppano. A costo di fare della sociologia spicciola, va considerato che migliaia di ragazzi in questa enorme cinta periferica che preme sulla città vivono:
1) In contesti architettonici orribili, figli delle utopie anni settanta. O peggio nei casermoni popolari dell’edilizia anni cinquanta-sessanta. Veri e propri depositi di stoccaggio umano. Luoghi dove, se anche fiorisse per germinazione spontanea un sentimento estetico della vita, morirebbe immediatamente sopraffatto dalla bruttezza circostante. Ed è molto difficile che possa svilupparsi un sentimento etico nei confronti della vita dove non c’è mai la luce della bellezza.
2) In rapporto diretto con modelli di vita, appresi dai media, riconducibili a poche categorie. Per lo più personaggi che godono di visibilità pubblica e facilità di danaro.
3) Una sostanziale sospensione dello Stato. Che quando torna a farsi sentire garantisce poco: ha garantito innanzitutto quel contesto urbano e architettonico. E adesso rispetto a quei modelli di vita di cui sopra, offre l’alternativa di un’eccessiva precarietà nel mondo del lavoro, con conseguente abbassamento del livello di diritti sociali.
Viene spontaneo concludere che se da una parte il modello di riferimento è quello di uno Stato che ha tradito, che non è presente, che non trasmette certezze economiche-sociali, ma anzi modella una gioventù borghese sostanzialmente bloccata e preda di uno squilibrio feroce (compressa tra un aumentato costo della vita e un diminuito potere d’acquisto), e dall’altro c’è un mondo della criminalità in cui soldi e potere vengono distribuiti ed elargiti a man bassa – perché mai un ragazzo dovrebbe propendere per lo Stato. Necessariamente andrà verso il mondo della criminalità e sarà pronto a giustificarsi dichiarando che dove non c’è lo Stato ufficiale si crea un vuoto che deve essere riempito.
A questo si aggiunge che il recente indulto, al di là alla scarcerazione fisica delle persone, ha soprattutto trasmesso l’idea che le porte del carcere possono aprirsi anche a personaggi di elevata pericolosità sociale, come ricorda Saviano a proposito di Vincenzo Di Lauro, figlio del boss dell’omonimo clan, rimesso in libertà anche per un vizio di forma. Ossia ha messo in discussione il teorema per cui a gravità di reato deve corrispondere necessariamente durezza della pena. Adesso qualcuno è legittimato a pensare che in qualche modo ce la si può fare a sfangarla, anche dopo uno due omicidi. Che forse non è così difficile fottere la giustizia.
Se come dice De Giovanni il problema è invertire il movimento, per fare in modo che sia la polis, cioè il cuore civile della città, a trainare a sé la periferia, e non come avviene adesso il contrario, bisognerebbe innanzitutto che questa polis invertisse il suo processo di assorbimento e provvedesse a rigenerarsi. Essa ha bisogno di diventare un centro di sviluppo, e ha bisogno di farlo in maniera concreta. Troppo silenzio, e troppe parole fuori luogo, accompagnano da anni il declino della città.
Troppo spesso quegli stilemi che sono tipici del potere camorristico, mancanza di rispetto per le regole, sopraffazione, violenza, vengono mimate nel piccolo quotidiano anche da quanti appartengono per elezione di censo alla classe dirigente della città. È un cortocircuito questo che legittima il cancro.
La risposta che si dà a questo movimento oramai davvero a senso unico, che porta nel cuore della polis capitali e sistemi criminali, a tutt’oggi è estremamente debole. Qui sì che occorrerebbe un’inchiesta puntigliosa e statistica, che ci dica numeri precisi. Quanto del PIL camorristico è oggi riciclato quotidianamente nel terziario della città? Quanti metri quadrati sono direttamente controllati dal secondo stato? Quanta economia occulta insomma è definitivamente strappato alla civiltà e alle sue risorse? E noi in che modo contribuiamo? Quanto e quale caffé dobbiamo smettere di bere per evitare di foraggiare direttamente i clan e di rafforzare così il loro potere invasivo?
Saviano cita un episodio emblematico: viene affisso da un gruppo camorristico, sul portone di una chiesa, la lista degli ammazzandi, così da evitare un’inutile strage e rendere pubblico che sta per iniziare un lazzaretto privato per sette o otto disperati; destinati ad essere venduti dalle proprie famiglie, o rincorsi fino al lembo estremo della terra. Non c’è mai molto scampo quando si è pubblicamente condannati.
Sarebbe paradossalmente interessante che lo Stato utilizzasse lo stesso metodo. Quali negozi oramai sono semplici sportelli per il riciclaggio del denaro?
Fin qui il paradosso. Una risposta reale dovrebbe ripartire dai tre punti sovracitati. Per esempio il problema architettonico. Bassolino aveva intuito, all’inizio del suo primo mandato da Sindaco, che esisteva un’esigenza estetica della città alla quale bisognava rispondere.
E quel suo darsi da fare attorno ai palazzi, alle piazze, all’arte contemporanea, è stato un modo per strappare la città alla bruttezza e al buio degli ultimi anni. La prima passeggiata nella nuova Piazza del Plebiscito, vuota e sgombra di auto, in una bella mattina di sole primaverile, ha ridato alla città una cifra importantissima. Ha permesso l’appropriazione di un territorio che per prassi di malcostume e di silenzio era stato con gli anni sottratto.
Oggi quell’intuizione viaggia troppo spesso in automatico. Una mostra qua, un palazzo delle arti là. Oppure installare – quasi nuova opera di arte moderna – la nuova Facoltà di Medicina a Scampia, nel cuore del territorio criminale. Non basta, chiaramente.
Ridiscutiamo, partendo proprio dai palazzi, lo sviluppo e il futuro di questa città. Cosa va bonificato, cosa distrutto, cosa rinnovato.
Nei giorni di quel primo rinascimento, la grande opera che ha reso Napoli per un certo lasso di tempo città speciale e modello europeo, è stata l’inaugurazione della metropolitana.
La metropolitana è stata la più grande metafora cui questa città potesse aspirare, con il suo mettere in comunicazione diversi territori, alcuni dei quali fino a quel momento ritenuti esoticamente irraggiungibili. Che emozione passare dal borghese Vomero alla periferica Chiaiano in venticinque minuti. C’era in quel potere andare ovunque il senso primario di appartenenza ad una città: la libertà di movimento.
Non è un caso che oggi è proprio questa mancanza di libertà la cifra più angosciante della nostra prigionia. Porzioni di territorio sono sospese dalla città. Non sono più raggiungibili con tranquillità, e a chiunque si rischiasse di arrivarci toccherebbe in sorte il senso di panico della bestia che sconfina in territorio altrui.
Ci sono delle isole all’interno della città. E si espandono, toccando con i loro confini in ombra, i confini luminosi delle oasi borghesi.
La metropolitana ci aveva regalato la sensazione che la città fosse di quanti volessero andarsela a prendere. Era diventata uno straordinario collante. Replicava quella capacità di coesione che era stata tipica del dialetto. Quel dialetto, che come sostiene Raffaele La Capria ne L’armonia perduta, ha funzionato da patto sociale tra plebe e borghesia per secoli.
Oggi da qui bisognerebbe ripartire. La nuova speranza è nel movimento, nella possibilità di andare ovunque. La nuova speranza è che la metropolitana si faccia vettore di un movimento non più a senso unico, dalla periferia verso il centro. Ma che istituisca anche il senso opposto, e ritorni circolare.
[Articolo già apparso, in forma leggermente ridotta, su alternativerivista. a.r.]
Per quanto condivisibile in molto punti, trovo semplicistico questo dire che “il brutto” di Scampia “abbruttisca” in automatico i suoi abitanti. Quando queste periferie non erano al centro dell’attenzione, il problema criminale esisteva, eccome, nel cuore greco della città. Le stesse Vele, costruite in certe periferie del nord Europa non avrebbero prodotto, da sé, il sistema di Secondigliano.
Ho paura questo approccio “estetico” offuschi quello più profondo e nevralgico: quello economico.
Non ho competenze particolari su questi argomenti, ma non mi sembra che un approccio “economico” e un approccio “urbanistico” (direi io, più che estetico – e che comunque non è la totalità del pezzo di Pingitore) siano di necessità in contraddizione.
Anche se il rischio di cui parli esiste senz’altro.
Per farti un esempio fugace (sono purtroppo di fretta) Andrea, ti rammento il caso di via Anelli, il “bronx” (come odio queste definizioni giornalistiche!) di Padova.
Quegli edifici non sono neppure brutti, furono costruiti come dormitori studenteschi. Poi la gestione politica-economica privata le hanno trasformate in una fonte di lucro sugli extracomunitari, trasformando la zona in una polveriera di razzismi e di illegalità.
E’ colpa dell’urbanistica? Dell’architettura? Del (cito) “contesto architettonico orribile” […] “dove, se anche fiorisse per germinazione spontanea un sentimento estetico della vita, morirebbe immediatamente sopraffatto dalla bruttezza circostante”?
Ma ci credi tu?
Se posso inserirmi, per una risposta volante a Gianni Biondillo.
I tre esempi che ho citato (ma sono solo alcuni tra i tanti) non vanno intesi in senso rigido. Non si pretende che focalizzano il centro del problema, ma sicuramente contribuiscono ad alimentarlo. L’articolo cerca di trovare, non delle risposte e quindi di stilare diagnosi, ma di osservare e descrivere che cosa rende attulamente (cioé in questo istante storico) Napoli un luogo diverso dal resto d’Italia, per dinamiche e per stasi (ecco perché il titolo dell’articolo). E quindi osservare perché gli altrove, le altre periferie che ad esempio tu citi, qui non possono essere presi ad esempio.
Sullo specifico archittetonico: non credo si tratti di defire in quale misura un luogo, una periferia, sia bella o brutta. Mi riferivo a una concezione più ampia, politica: che faccia si che l’urbanistica non sia solo una scienza funzionale che assommi numero di alloggi per numero di uomini, quasi risolvendo il problema del vivere alla stregua di un’equazione precisa.
Ma d’altronde su argomenti del genere, i contesti ambientali e i rapporti sociali, sono stati scritti torrenti di fiume. Non aggiungo altro, non ne ho la dovuta competenza. Ma io, si, ci credo a quell’ultima domanda.
Un ultima cosa, anche se servirebbe un altro articolo solo per questo. Una delle grandi differenze tra le periferie di altre città e quella napoletana, vedi Parigi, ma anche in certa misura Roma, sicuramente New york, è che lì gli abitanti sono stati spinti col tempo dalla necessità di alloggi a minor costo, da una possibilità di vita più semplice. Quindi lì effettivamente il motore economico ha sedimentato una fascia di proletariato e sottoproletariato.
A Napoli in alcune delle periferie non c’è uno straccio di immigrato, e pochissimo sottoproletariato – essendo da sempre questa una città a basso tasso industriale; quei territori sono stati volutamente scelti da gruppi, soprattutto di matrice criminale, per costruire fortini all’interno della città. Il pil di alcune di queste periferie è superiore a quello di gran parte della città. Solo che è completamente di natura criminale.
Ecco, appunto. Leggevo una rigidità che non conveniva nell’analisi, per molti punti, come ho già scritto, condivisibile.
Sull’argomento sto scrivendo, ma per ora non ho tempo di finire. Vedrò più avanti se ci riesco.
Saluti.
Infatti l’analisi è condivisibile, ed anche fortemente per quanto riguarda gli aspetti urbanistici, che sono una delle concause fondamentali di quanto sta avvenendo, ma anche di quanto sta per avvenire…
Mi pongo a volte delle domande semplicistiche, magari ingenue, tipo ad esempio come mai i riflettori siano puntati sempre su Scampia/Secondigliano, e non sulla guerra di camorra in corso in questo momento a Ponticelli, altro quartiere-ghetto, figlio però dell’utopia post-terremoto dell’80.
Di sicuro, la trasformazione urbana degli anni ’80 ha fatto molti danni. Può sembrare che non c’entra nulla, ma anche cose apparentemente slegate, come la costruzione del complesso universitario di Monte Sant’Angelo, hanno dato un contributo degenerativo alla citta, perchè ha eliminato una grossa fetta di Università dal tessuto urbano, nel quale era intrecciata da secoli. In ogni caso, fare un’analisi completa… è una strada tutta in salita…
Saluti
Il mio nuovo libro ( piccolo spazio pubblicitario ) che uscirà a Novembre è ambientato tra Scampia, Ponticelli e il Vomero. E’ una storia grottesca con finale apocalittico. Soluzione sbrigativa.
Una soluzione meno sbrigativa sarebbe :
1) militarizzazione temporanea del territorio fino al disarmo dei clan ;
2) sventramento ( simile a quello effettuato a inizio 900 ) delle periferie ;
3) anagrafe fiscale di tutte le aziende locali ( cominciamo a vedere chi c’è dietro )
4) piano di risanamento del territorio ( ambiente e economia ) attraverso lo sfruttamento delle risorse naturali e incentivazione delle pmi e dell’artigianato ;
5) defiscalizzazione degli utili reinvestiti delle imprese ;
6) piano di investimento in risorse culturali ( scuola, università, ricerca, arte ).
Costo a occhio, 100 miliardi di euro.
Apriamo una colletta ?
“la trasformazione antropologica delle persone in entità ferine” è un’analisi dolorosamente esatta… e in qualche maniera, molto imbarazzante, io ne sono stata la prova. Mi scuso con tutti.
Credo sia davvero impossibile sintetizzare una realtà così complessa come un’intera città. io vivo in provincia e mi reco ogni giorno a Napoli. non sono mai stato scippato/rapinato, né mi hanno fatto mai violenze. (certo conosco molti a cui è successo).
Le violenze che ho subite mi sono successe fuori Napoli. a bologna a via Zamboni (strada delle università frequentatissima da studenti) dove un extracomunitario ha tentato di rubarmi il cellulare. (Almeno fino a qualche anno fa via Zamboni aveva uno spacciatore extracomunitario ogni 2 metri, cosa che a Napoli non è mai esistita).
a Venezia quest’estate una sera c’era un gruppo di ragazzi locali o del nord che vicino l’Erberia (uno dei luoghi serali più frequentati dai giovani per bersi lo spritz) inneggiava slogan violenti contro i turisti. a fine serata mi sono trovato ad essere inseguito da alcuni di loro nei calli veneziani subendo un’aggressione fisica e violenta. una cellula di giovani impazziti.
per non parlare di quello che può accaderti a Londra.
detto questo non c’è altra realtà che possa giustificare la nostra. bisognerebbe solo rimboccarsi le maniche e cominciare a far funzionare tutto meglio, a cominciare dai politici, dai giudici e dalle forze dell’ordine. poi se ci fosse un elenco di locali “vietati” sarei il primo a rispettarlo.
Bruno: “Il piccone risanatore” (quello degli sventramenti di inizio ‘900) fu innanzitutto una grossa operazione di speculazione edilizia che, pagata dagli italiani, fece diventare più ricco chi già lo era e più povero chi già lo era.
Dal punto di vista grettamente edilizio ci vorrebbe un programma di manutenzione straordinaria globale e una qualificazione delle infrastrutturie di comunicazione.
E ci vorrebbe, ça va sans dire, legalità e Stato. Ma forse, ho paura, ad un certo Stato una certa soglia di illegalità conviene…
Mi congratulo con la lungimiranza che hanno dimostrato i miei politici, scegliendo, come facoltà da dislocare a Scampia, la facoltà di medicina.
E’ da un pò che mi faccio una domanda, ma è legale sparare fuochi di artifici ogni momento? non ci sono leggi di ordine pubblico? anni fa ero in America a fine anno e un nostalgico che osò sparare un mortaretto fece arrivare la polizia. Mah!
Appoggio Biondillo su ogni parola dei suoi commenti qui sopra.
L’idea che sia l’architettura, o l’urbanistica, o tutt’e due, a produrre da sola degrado, è tenace e radicata. E sbagliata.
Esistono infiniti esempi che provano il contrario, vale a dire che è la subordinazione e l’emarginazione e la “ghettizzazione” (orribile parola, come “bronx”) degli abitanti che produce il degrado dell’ambiente in cui vivono.
Se scampia fosse strutturato a villini uni-famigliari con giardino e steccato de legno (modello sub-urbano, anglo-sassone e piccolo-borghese, che piasce tanto anche all’intellettuale), i suoi abitanti sarebbero per ciò stesso più virtuosi?
La logica è la stessa che ha portato veltroni a demolire un “ponte” al quartiere Laurentino, invece di bonificarlo e restaurarlo, per consumare l’atto simbolico – pre-elettorale – di eliminare il “tessuto infetto” (stessa cosa si fece per Le vele a Napoli): sono atti politico-narrativi, è fiction che soddisfa l’immaginario, ma non ha nulla a che vedere con le cause del degrado.
Er discorzo è complesso, come al solito.
Chi poi crede che esista un potere in grado davvero di pianificare e determinare assetti urbani, si sbaglia di grosso.
La città è un fenomeno in gran parte spontaneo, spesso abusivo e fuori norma, non un manufatto pensato e gestito da qualcuno, la città è fonte di profitto, è prodotto della comunità insediata, in ogni suo aspetto, anche quello criminale.
Il crimine è un grosso produttore, oltre che un abitatore, di città.
Il crimine produce case e quartieri, spesso più “vivibili” di quelli da cui proviene.
All’interno del fenomeno esistono momenti di pianificazione, razionalità, progettazione, più o meno riusciti, ma mai capaci, da soli, di produrre degrado, o al contrario, di contrastarlo.
Al massimo può trattarsi di concorso di colpa.
Aggiungo, a postilla delle cose ottime scritte da Tash, che oggi il Bronx (quello vero, a NY) è un quartierino proprio chic, amato da artisti e manager. Lo stesso “orribile” Bronx della mitologia filmica del degrado di 30 anni fa.
Ma siamo proprio certi che Napoli sia un corpo estraneo, antropologicamente mutante, di questo Paese? leggendo il bellissimo pezzo di Pingitore e i relativi commenti, interessanti e complementari, ho percepito e accusato il disagio – in quanto napoletano di nascita e cittadino italiano – che i ragionamenti e le analisi accorate sulla città pecchino di un vizio, di valutarne cioè gli accadimenti come estranei, quasi non appartenessero a quella che con sufficiente oggettività denominiamo koinè italiana. A mio avviso questo non è l’approccio più corretto, o meglio, rischia di crare punti singolari, di avviare una sorta di lavacro di coscienze, di spingere a una rimozione degli aspetti generali e più ampi del male (non cioè circoscritti alla specificiatà geografica del luogo) ), addirittura – o forse- a indulgere in tentazioni manichee, quasi che individuata la piaga ignorassimo la cancrena che sgretola l’Italia. Se questa è l’impostazione – la buona fede è salva, si capisce – io credo che si rischi di sbagliare: Napoli non è qualcosa di posticcio, Napoli non è appendice in via di peritonite, oppure il nostro peggio alienato in un dio del male. Napoli è soltanto e purtroppo la lente illustrativa di ciò che altrove si nasconde e marcisce sotto una vernice di ipocrisia.
Non è il caso – l’ho fatto io stesso su queste pagine mesi fa, in buona fede e commettendo medesimi errori analitici e intepretativi – non è più tempo, dicevo, di accanirsi sulla terapia del sintomo ignorando il male, è venuto il tempo, per tale male, di descriverne l’etiologia, con un’anamnesi difficile da gestire senza che si inquadri Napoli in un contesto, il quale, piaccia o meno, ne indirizza le sorti. Essa stessa ponendosi disponibile e servile.
Ma come possiamo ritenere che gli avvenimenti di Napoli, le dinamiche sociali, lo strapotere di una mafia che non è più neanche se stessa, nel senso che ha imparato a globalizzarsi, stringere legami di avventura con chi addivenga ai suoi specifici fini, come possiamo affermare dopo tutto questo che il mutamento antropolgico di Napoli e dei napoletani – mutazione che c’è, io non scuso nè perdono un bel nessuno, cittadini e autorità compresi – non dipenda ‘anche’ da un’evoluzione del nostro vivere, del sentire e sentirci italiani?
Napoli siamo noi, titolava un libro riuscito solo nel titolo di Giorgio Bocca. Napoli è questa, interviene Saviano, è il disvelamento del nuovo homo italicus, è lo strato profondo e animalesco, quello appunto del rettile, della cipolla che è la cerebralità umana.
Ho risposto a questo interessante articolo in maniera frettolosa. L’argomento mi sta a cuore e vorrei approfondirlo.
Ieri hanno arrestato l’autore dell’agguato di camorra in cui è stato ferito, leggermente per fortuna, un turista canadese. L’hanno immortalato manette ai polsi, mentre sorrideva alla gente del suo clan, come una star che sta andando a ritirare un premio. E’ un ragazzo di 19 anni, bellissimo, dalla faccia pulita. Era stato già arrestato per un reato simile ma era minorenne e ha beneficiato degli sconti previsti. A 19 anni si sentiva già un boss, ha cercato di uccidere un suo rivale poiché questi aveva osato schiaffeggiare in pubblico un suo conoscente.
L’altro giorno hanno messo dentro una piccola gang di giovani criminali, quelli che hanno ucciso l’edicolante del quartiere Arenella. Il più anziano ha 23 anni,. Fra loro un minorenne e tre fratelli di giovane età. Il capo, Pippotto, è noto in città per aver cominciato la sua carriera criminale a 9 anni. Dei suoi 23 anni ne ha passati quasi la metà tra carcere e riformatori. Non sa leggere e scrivere, ha una figlia di 4 anni che vede saltuariamente, fa uso smodato di cocaina, vive per strada.
Due casi molto comuni a Napoli. E’ la plebe che si sta vendicando.
Lo studio sociologico e antropologico della plebe stava a cuore allo scrittore Domenico Rea il quale riteneva che questa fascia di popolazione, ultimo residuo in tutto l’occidente di un’arcaica composizione sociale, non fosse diversamente classificabile. Rea Faceva parte di quel manipolo di intellettuali che si riferivano al rotocalco culturale “La voce”, notissimo negli anni cinquanta. Erano gli anni del dopoguerra e della ritrovata voce, appunto, dell’antifascismo e della libertà di pensiero. Un piccolo esercito di intellettuali composto da Rea, Compagnone, Ghirelli, Ortese, Prunas, Prisco, Incoronato, La Capria e tanti altri ancora. Un gruppo di persone che rappresentarono un’epoca in cui sembrava rinascere il pensiero, la cultura propria di una società libera e civile dopo gli anni bui della guerra e della dittatura. Rea parlava di plebe e non c’era classismo nella sua affermazione ma solo constatazione che le trasformazioni sociali, in vaste aree di Napoli, non erano mai arrivate. Aveva ragione, a mio avviso. La plebe napoletana deriva dalla genesi tribale della comunità, molto simile alla società medievale giapponese ( ma anche europea in genere ), tanto per intenderci. Quelle comunità erano formate da gruppi di consanguinei, perennemente in conflitto con altri gruppi simili, che si ingrandivano fino a formare veri e propri eserciti. Perché il legame di sangue è alla base della composizione di un clan, a prescindere dalle epoche. Un clan nasce da un nucleo familiare che si estende nel corso del tempo attraverso le affiliazioni. Questa del legame è forse l’unica regola che si è tramandata. Il resto si è adattato ai tempi.
La sinistra napoletana non ha saputo analizzare questo fenomeno, non hai mai tentato di pensare un disegno che prevedesse la trasformazione della plebe in proletariato, non ha capito in tempo le conseguenze della scomparsa della cultura operaia in città. La chiusura dell’Italsider, della Cirio, della Redaelli, dello stabilimento Motta, insieme al resto, ha cancellato interamente la classe operaia napoletana e l’assenza di un riferimento è oggi evidente. La sinistra ha, anzi, avallato alcuni comportamenti pericolosi sfociati poi nel reddito di cittadinanza e l’appoggio incondizionato alle liste dei senza lavoro, nonostante si sappiano gestite dai clan. Persino la Jervolino ( e ho detto tutto ) ha preso le distanze da questo tipo di politica assistenzialista che favorisce la criminalità a svantaggio di chi vive ai margini. Perché essere poveri non significa appartenere alla plebe, tutt’altro. La plebe di oggi odia la povertà e la combatte non annullandola ma isolandola dal contesto. La distribuzione del reddito viene fatta con modalità esclusivamente meritocratiche e la figura del capoclan secondo il modello proposto da Raffaele Cutolo, criminale e benefattore degli anni ottanta, è scomparsa poiché anacronistica e di immagine potenzialmente debole. L’assenza di approfondimento a sinistra tocca finanche l’ultimo strenuo residuo di lotta rappresentato dai centri sociali che sembrano ignorare questo fenomeno. Non ho mai visto un benché minimo tentativo di analisi da parte dei vari gruppi di disobbedienza. E’ un problema che si aggiunge al problema poiché ritengo i giovani dei centri sociali l’unica e ultima fonte di controinformazione e di possibilità di cambiamento esistente. Con tutti i loro difetti e le loro contraddizioni, ovviamente.
Dal canto suo la borghesia non ha saputo fare di meglio che cercare alleanze con in nuovi padroni e ne sopporta oggi con sacrificio ben remunerato il predominio. Molte attività produttive, un tempo in mano a famiglie borghesi, oggi sono passate di mano mantenendo i marchi originali. Dietro c’è il riciclaggio, la malavita, davanti la rispettabile faccia degli antichi mercanti partenopei. Anzi, a ben vedere, la borghesia napoletana non disdegna il processo di osmosi in atto fra queste classi così diverse. L’imbarbarimento della borghesia è evidente anche nei comportamenti comuni, oltre che alla condivisione dei profitti. La perdita di ogni sobrietà, l’assunzione della ricchezza ostentata come valore unico, l’abbandono quasi definitivo del legame con il clero, sono segnali incontestabili.
La plebe, in assenza di proposte culturali a cui riferirsi per rinnovarsi e sopravvivere, si è organizzata da sola e ha preso a modello il consumo. Napoli è la città italiana con il maggior numero di motocicli venduti. Il motorino è oggi un segnale di riconoscimento, oltre che un valido mezzo di trasporto per le incursioni criminali. I clan contano su un parco moto praticamente illimitato. Non sono riuscito a sapere perché non è più stata applicata la legge del senatore di Alleanza Nazionale, Luigi Bobbio, che prevedeva la confisca immediata dei mezzi irregolari o guidati in contravvenzione al codice. Alcuni mi dicono sia incostituzionale, altri che le forze dell’ordine non hanno i mezzi idonei per applicarla, altri ancora che i clan hanno esercitato il loro potere economico per bloccare questa misura. Ma andiamo oltre.
I clan hanno mutuato, trasformandone le regole, l’organizzazione gerarchica delle società criminali di fine ottocento, figlie del brigantaggio post unificazione italiana, e hanno creato un modello alternativo di stato, basato sulla sopraffazione e sul disprezzo di qualunque tipo di regola che non preveda l’arricchimento veloce. Hanno saputo rapidamente eliminare l’onore dallo statuto criminale, in quanto rallentava il cammino verso il profitto, che deve essere veloce e in continua trasformazione, hanno impedito che i patti e le alleanze potessero in qualche modo vincolare l’attività, hanno saputo insinuarsi nel corpo ( già malato di suo ) di una società in disfacimento e trarne vita come un parassita divora un cadavere, hanno saputo superare brillantemente il legame con la politica. Nel frattempo non si sono preoccupati di migliorare il proprio tenore di vita, contrariamente a quanto si potrebbe credere. Sono pochi i capi che lasciano il loro territorio, normalmente fatiscente, per cercare dimore altrove. Sono capaci di costruire vere e proprie regge in zone in cui la bellezza è assente in qualunque forma. Perché il controllo del territorio è il primo vero passo verso la ricchezza. Non mandano i propri figli a scuola, non serve, loro hanno i professionisti a libro paga, come un’azienda che appalta alcune proprie funzioni ai Service. Chi parla di insospettabili, di colletti bianchi non sa di sbagliare. Un camorrista rimane un uomo rozzo, ignorante, violento, arrogante ma, nel contempo, in grado di capire come si arriva alla sopravvivenza prima e alla ricchezza poi. E poco importa se la loro vita è breve ed estremamente travagliata. Un solo giorno al sole vale tutta una vita da passare da perdente senza speranza in un appartamento malsano di un rione popolare.
Ed ecco che la plebe raccontata da Mastriani ( I vermi ), Serao ( Il ventre di Napoli ), Ortese ( Il mare non bagna Napoli, un capolavoro ), Rea ( Gesù, fate luce ), Compagnone ( Cronaca di Napoli ) e altri, vince, si riscatta, domina.
Quella bonifica sociale che la sinistra non è riuscita a fare, a partire dalle giunte Valenzi fino agli intrallazzi dell’affarista Bassolino, troppo preso dal mantenimento della fetta di potere faticosamente conquistata, ha generato questo fenomeno criminale che ha indiscutibilmente vinto, rifacendosi a modelli ritenuti funzionali allo scopo. Ed ha vinto sconfiggendo anche ciò che non le interessava, maciullando sul suo cammino di morte anche ciò che in apparenza poteva non nuocerle. A Napoli è morta la capacità di fare cultura che ci ha distinto nei secoli. Gli ultimi rappresentati della cultura napoletana sono tutti in età da pensione e hanno perso ogni capacità di contributo. Voci importanti come quella di Massimo Troisi, Annibale Ruccello, Bruno Cirino sono state spente prematuramente dal destino, altre si sono perse per strada. Il piccolo plotone di scrittori emergenti fa ben poco e nessuno, tranne forse il potente talento dell’ancora giovanissima Valeria Parrella, sembra in grado di catalizzare su di sé l’attenzione della pubblica opinione. Tutta l’arte e la cultura che questa fottutissima città ha saputo produrre sembra destinata ormai a musei che nessuno frequenta più.
Purtroppo, è triste doverlo ammettere, la guerra a questo fenomeno che sembra ormai endemico va combattuto con armi che un tempo appartenevano alla faccia peggiore della repressione. Il controllo del territorio va riacquistato militarmente, non è possibile pensare che la presenza di scuole, uffici, lo Stato in genere, possa arginare lo strapotere dei clan. Senza un’azione militare, efficace e rapida, non si riconquistano i territori occupati. Che, per non essere temporaneo, deve essere accompagnato da un nuovo pensiero di città, un nuovo progetto urbanistico, economico, culturale. Questo non vuol dire assistenzialismo, non vuol dire che da queste parti non potremmo essere capaci di fare da soli. Il recupero immediato del controllo della città, la restituzione di un accettabile livello di vivibilità alla parte sana, che non è poca cosa, ai napoletani che amo definire “liberi”, potrebbe portare uno spirito nuovo, spinto da quella voglia di riscatto, figlia della rabbia, che, vi assicuro, ci divora.
@bruno esposito
Per me la colletta va bene. E anche l’elenco che fai.
L’importante è che non ci metta lo zampino Rovati.
dotur, mi saluti suo fratello pierfrancesco, vedo tutte le puntate del bagaglino, complimenti a tutta la famiglia!
Mi unisco a chi considera il dato estetico-architettonico secondario nella creazione di premesse “delinquenziali”. Se è vero che quartieri come Scampia a Napoli o Quarto Oggiaro a MIlano sono orrendi, è anche vero che una parte della popolazione di milano e di Napoli è stata “dirottata” in quegli orrendi quartieri. Come dice Saviano la questione è economica: se non esistono alternative all’economia della camorra e dell’universo collegato la strada è del tutto sbarrata. Senza dimenticare che camorra significa ricchezza: Scampia è anche un quartiere ricchissimo, una delle zone d’Italia più ricche, che attira mi pare 500 mila euro al giorno. Dunque la via a una economia “sana” non esiste. da napoletano in esilio però mi viene da pensare alla questione dell’ “esempio” che potrebbe venire dalla classe cultural-dirigenziale per fare da traino a un “recupero” delle masse creolizzate camorristiche e svantaggiate. Dato per scontato che si tratta di un’operazione “disperata”, ma mi chiedo anche se la calsse cultural-dirigenziale napoletana abbia in mente questo obiettivo e, soprattutto, se abbia una qualche idea di come raggiungerlo. saluti
melpunk
TITOLO: Cosa giustifica il prezzo degli affitti a Lago Patria?
Sottotitolo: la Provincia di Napoli nell’Era della TAV
1) in caso lavoriate a Napoli, c’è un autobus, M1, che da Mondragone (provincia di Caserta) arriva a Napoli: all’altezza di Lago Patria è già stracarico di persone, tanto che, almeno fino alle 2 del pomeriggio, è spesso impossibile salirvi e, se si riesce, è poi impossibile sedersi (sono comunque poche le persone che vanno a lavorare alle 2 del pomeriggio e/o i datori di lavoro disposti a farvi prendere servizio a quell’ora). L’autobus impiega, alle 7 del mattino, anche 2 ore per arrivare a Napoli (Piazza Garibaldi), che si trova a meno di 30km. Prendere lo stesso autobus al ritorno significa arrivare a Lago Patria come sardine in scatola. Prendere questo bus all’andata e al ritorno tutti i giorni e aggiungendo a questo gli ulteriori tempi di spostamento verso il proprio luogo di lavoro significa “donare” mediamente 5 ore del proprio tempo agli spostamenti, buona parte delle quali regalate al blocco delle auto nella zona Vomero-Arenella al mattino;
2) la prima stazione delle Ferrovie dello Stato si trova a circa 10km (Giugliano-Qualiano). Facendo una breve ricerca su Trenitalia.com (cioè, consultando gli orari), vi renderete conto di quanto questa fermata sia in fin dei conti inutile per raggiungere Napoli. Da vedere anche questo link: http://www.internapoli.it/articolo.asp?id=2288 ;
3) la prima stazione della ferrovia Cumana si trova a Licola “Borgo” (km 7): si può arrivare qui con il bus di cui al punto 1 (!) e non sarete condotti a Piazza Garibaldi, bensì a Montesanto: da lì dovrete capire come potete raggiungere il vostro luogo di lavoro (altra metropolitana? Altro bus? Altro traffico?), a patto che non si trovi dalle parti della fermata (ma immaginate se lavorate al Centro Direzionale, ad esempio). Se date un’occhiata ad una mappa della zona, scoprirete che Lago Patria viene letteralmente schivata dalla Cumana che all’altezza di Licola Mare procede poi all’interno: http://www.viamichelin.it/viamichelin/ita/dyn/controller/mapPerformPage?pim=true&act=RefineToMap&rnd=1158820060140&E_mg=210506265kS3J506264082738168536MAPB2C1a103ita542000130u1103612000bcG96enVvbGk00001100&stat=ambiguous_map&strChoice=0
Questa stessa situazione fa sì che d’estate, quando i bagnanti decidono di andare al mare, si crei una fila di 2km su una delle due strade che portano alla Domitiana: di fatto, se il binario procedesse lungo il litorale (come capita spesso nelle zone “di mare”), alcuni potrebbero tranquillamente evitare di prendere l’auto;
4) c’è un altro bus, il P19N: vi porta a Fuorigrotta in 40 minuti ma da lì dovrete entrare poi nella stazione di Campi Flegrei e prendere almeno un altro mezzo (metropolitana);
5) ho citato mezzi più veloci: non mi sono soffermato sul P19R e sul bus M1NB-che-non-prende-la-Tangenziale. Con l’ultimo di questi due in estate (luglio) la sera è possibile raggiungere Lago Patria da Napoli in sole 3 ore di viaggio. Se sfortuna vuole che a Lago Patria sul bus già stracarico vogliano salire altre persone – che giustamente desiderano andare a casa loro a Mondragone dopo una giornata di lavoro – è possibile che il bus vi fermi alla fermata successiva (Ischitella, provincia di Caserta), per cui ve la dovrete fare a piedi per arrivare a casa vostra sulla Domitiana praticamente al buio, senza marciapiede, a vostro rischio e pericolo. A me è capitato una sola volta: mi auguro sia stato un caso.
Sono comunque diversi gli extracomunitari che vestono con il giubbotto arancione in dotazione agli automobilisti: nella notte non li si distingue e rischiano di finire sotto un’automobile;
6) sempre via M1 è possibile che riusciate a fermarvi a Pozzuoli e da lì a prendere una metropolitana;
7) si lamentano numerosi disservizi postali, ma non è colpa degli impiegati: questi ultimi sono troppo pochi e gli uffici sono troppo piccoli per contenere l’ingente numero di utenti;
8) non c’è il gas di città: si cucina e ci si riscalda grazie a bombole piccole e “bomboloni” esterni che si ricaricano di tanto in tanto a spese del condominio;
9) c’è un solo sportello Bancomat, a volte fuori uso. Per trovarne un altro si devono fare non meno di 10km in qualunque direzione. Non tutti gli esercizi della zona accettano carte di credito. Morale della favola: se vi trovate a piedi, senza soldi e dovete comprare il pane, dovete farvi fare credito;
10) non c’è un vero sistema fognario funzionante al 100%: esiste il sistema dello spurgo, sempre a carico del “condominio”. Poiché alcune vasche sono vecchie, a volte “esplodono” il loro contenuto all’esterno;
11) spesso al mattino aprendo le finestre sarete sommersi da un tanfo acido di cui ignorate la provenienza: non si sa cosa possa essere (immondizia incendiata?). Qui un link sui rifiuti nelle zone circostanti: http://italy.peacelink.org/ecologia/articles/art_17127.html ;
12) quando piove, all’altezza dell’incrocio della Domitiana, si formano pozzanghere gigantesche: le automobili, prima di annegare, innaffiano ulteriormente gli sfortunati passanti (che hanno comunque già i polpacci nell’acqua). Via Staffetta, una delle due strade di Lago Patria, ha rattoppi ovunque, e per svariati chilometri;
13) l’arredo urbano (!) è a volte distrutto (panchine e aiuole versano in condizioni non dignitose). Il cartello autostradale dell’entrata a Lago Patria è stato divelto mesi orsono e mai rimpiazzato: sta di fatto che per chi viene da fuori per la prima volta è piuttosto facile non imboccare l’entrata e che si perda.
Praticamente solo d’estate si palesano un paio di vigili urbani;
14) le zanzare, probabilmente provenienti dal lago, d’estate ti mangiano vivo: se credi di difenderti con le piastrine ti sbagli, a patto di non metterne una per ogni stanza;
15) ci sono due piccoli ecomostri in bella vista a poche centinaia di metri l’uno dall’altro: uno dei due è quasi agganciato alle rovine della Tomba di Scipione. Le zone circostanti, specie a nord, appaiono in generale fortemente degradate;
16) la zona era evidentemente pensata per residenza estiva: alcune case non sembrerebbero attrezzate per l’inverno;
17) non ci sono molti luoghi di ritrovo, ma in generale non sembra esservi l’abitudine di ritrovarsi, se non privatamente (feste casalinghe e simili). D’inverno c’è un silenzio notevole. Sarebbe stata un’idea intelligente quella di costruire gli alloggi per gli universitari a Lago Patria ma si è pensato di scegliere Pozzuoli. In compenso, stanno costruendo una base della NATO (che servizi si potranno offrire a quelli che verranno?). Non sono moltissimi anche i servizi “a misura di bambino”.
18) se qualche figlio di papà alle 2 di notte si sente allegro e decide di sparare dei botti non devi prendertela: magari crescendo andrà a spararli altrove. Sarai però roso da un dubbio: ma quanti compleanni festeggia in un anno ‘sto ragazzo?
19) il primo ospedale potrebbe essere “La Schiana” a Pozzuoli (20km);
20) l’acqua del mare non ha bandierine di golette verdi da mostrare: vi si mischia, oltretutto, l’acqua in uscita dal lago;
Ora: una soluzione di casa in affitto “decente” in cui possano vivere un papà, una mamma e due bambini costa mediamente 550 Euro, prezzo del condominio escluso. In sostanza: cosa giustifica il prezzo degli affitti a Lago Patria? Se questo è considerato un posto “elitario”, questa élite vive senza servizi: le élite hanno, però, notoriamente dei servizi, altrimenti non sono élite. Sorrento costa ma dispone di servizi, oltre che di bellezze note a tutta l’umanità. Salerno costa ma dispone di servizi ed è agganciata alla Costiera Amalfitana.
Lago Patria costa quasi quanto questi due posti ma non ha questi servizi, né chissà quali bellezze.
Perché costa tanto?
Alcune note brevi. Poi spero di poterci scrivere con più calma.
Ogni volta che leggo descrizioni di Scampia mi sembra di leggere qualcosa a che fare con una realtà parallela a quella oggetto delle politiche di governo del territorio, locali o nazionali che siano. Una realtà che, in una logica totalmente perversa, funziona secondo regole di rete e di presenza diretta degli “amministratori” che ne gestiscono lo sviluppo e le funzionalità. Perfettamente innovativo si direbbe, se non fosse frutto e in mano alle forze di uno Stato nello Stato.
Una logica agghiacciante, malavitosa, ma sicuramente più efficiente ed efficace delle amministrazioni locali, deboli e con scarsi mezzi di intervento. Una specie di luogo sperimentale di innovazione, di globalizzazione. Scampia diventa visibile quando gli equilibri si rompono, quando il controllo del territorio viene rimesso in discussione, quando qualcuno ne esce e va nei territori di caccia cittadina. Altrimenti vive nei propri equilibri temporanei, nelle relazioni tra i rapporti di forze interni, che funzionano in assenza di altro.
Quali le reazioni possibili, quale la via d’uscita? Se io vivessi lì, probabilmente avrei la sensazione che il degrado dei trasporti, l’assenza di fognature etc e tutte le assenze statali siano norma; che l’assenza del ruolo di gestore dello Stato sia una scelta.
La forma urbana insieme alle funzioni, alla qualità e all’accessibilità delle connessioni, a mio avviso, ha un ruolo fondamentale nel definire l’approccio individuale degli abitanti alla vita della collettività, al senso di appartenenza rispetto all’ambiente in cui si vive. Certo non è solo una questione estetica, ma è anche pianificazione delle funzioni socio-economiche e delle infrastrutture, forma urbana e dell’abitare, elementi strutturali di un’unica realtà. Quando qualcuno dice che “è brutto” un quartiere, a mio parere esprime un giudizio circa la non possibilità di viverci, di crescervi i figli, di sentirsi parte di quell’ambiente.
Ritorna spesso, negli interventi a margine dell’analisi di Pingitore, una latente dialettica oppositiva fra la dimensione estetica (architettonica), o lato sensu culturale (linguistica), e quella economica (materiale) della città. In realtà Napoli è, in sé per sé, un monumento a quanto sia equivoco categorizzare il reale per dialettiche oppositive e unidirezionali. Si potrebbe già cominciare col dire che essa, nella sua compagine urbanistica, è di fatto la materializzazione in porfido polvere marmo asfalto cemento plastica liquame, di categorie cognitive che escludono ogni forma di interpretazione a senso unico del roesso mondo -anche nella gestione pubblica e privata della viabilità, si potrebbe aggiungere con piratesca ironia… Il centro antico della città, gomitolo di strade e gliommero gaddiano, quipu e labirinto di case e di direzioni, coalesce davvero in una spirale di passi perduti, in cui può diventare vano indagare le cause: un universo a sé in cui, ad esempio, la logica binaria del legale e dell’illegale, è soppiantata da una logica fuzzy dell’aleatorio, dell’opportuno al momento, del còlto a fior d’occhiata o nell’improvvisa, totale sospensione dell’atmosfera di quasi-normalità che, nella superficie delle vie principali, il restauro bassoliniano ha parzialmente ripristinato. Della recente politica di intervento di ripristino del decoro architettonico o della vivibilità in alcuni luoghi cardine dello spazio urbano, qualcuno ha poi polemicamente affermato, spesso in modo alquanto strumentale, che si trattava di un’operazione limitata ad una dimensione tutta esteriore. Sospendiamo il giudizio su tali esternazioni. Resta vero però che, a un livello più profondo, e remoto dalle generiche (e spesso vane del gioco vano di un’alternanza senza alternative) considerazioni sulle diverse proposte politiche in campo, in realtà l’impressione che si ricava dal tessuto urbano, sociale, culturale di Napoli, per come esso si presenta a un occhio disincantato, è che la città si sottragga agli imput lineari dell’agire politico usuale, figlio di un’idea essenzialmente cartesiana del mondo, che nel concreto, nello gliommero viario, perde di efficacia. Spesso, a livello di interventi architettonici di riqualificazione territoriale, o di azioni di raccordo fra aree “scollate” della città e centro cittadino, si ragiona in termini di categorie sociospaziali: la dualità centro – periferia è solo una delle tipiche formule antitetiche in uso. In effetti, la scollatura sociospaziale fra dimensione elitaria e marginalità si attua, senza mediazione, e con durissimo sfrigolio contrastivo, nel giro di pochi metri, non necessariamente sempre addentrandosi fra la penombra dei vicoli. L’intera città evoca, nel suo avvicendarsi perpetuo e insoluto di strutture in conflitto patente, l’immagine di una continua alter-giunzione di stili (e non stili), che si rivela spiazzante. Nel frattempo, dal retrobottega cittadino, fitto di circonvoluzioni, come da un inconscio intrecciato di fantasmi e di archetipi (quanti i miti, gli spettri e i relitti di sacro incistati in luoghi nascosti e inclusi nella città e nel territorio come mosche nell’ambra…), il rimosso continua a tornare.
ho conosciuto questa pagina nel newsgroup italia.napoli.discussioni
Per me un inizio di soluzione potrebbe essere quello di distribuire gli uffici, pubblici e privati, e le varie attività commerciali e professionali su tutto il territorio della Regione Campania. Attualmente vi è una eccessiva concentrazione sulla zona costiera (Napoli e Salerno). Vi siete mai trovati la mattina per via S Teresa? è un fiume di automobili. Altrettanto per la tangenziale, dalle 7 alle 10. La naturale furbizia delle persone viene aumentata dalle difficili condizioni di vita. Il sindaco Nicola Amore, nel 1884, sventrò il centro di Napoli per il colera, speriamo che i nostri amministratori facciano passi più forti verso una distribuzione su tutto il territorio di persone ed imprese.
L’articolo dell’Espresso, sinceramente, non mi è piaciuto. Mi è sembrato che facesse solo una cronaca limitandosi a criticare i nostri amministratori.
Questa sera, 21 settembre, su RAIdue vi dovrebbe essere la trasmissione di Santoro, “annozero”, dedicata a Napoli. Speriamo sia un po’ più intelligente.
“estetica” ha a che vedere con percezione, costruzione di senso, prassi. in accezione ampia. dunque luoghi e situazioni dove l’emersione di senso è continuamente compromessa, e la violenza sostituisce e costituisce ogni legge e comportamento, non possono che creare disagio e scale discendenti. il negativo che supera l’energia messa in campo dalla gente per vivere.
credo che l’accezione data da Pingitore a “bellezza” sia questa
@dottor biondillo.
la trovo irresistibile. ma è possibile che lei sia sempre di fretta? scusate non posso approfondire perchè devo scappare, devo andare, ecc. pensi lei che io sto commentando mentre un mio vecchio paziente dorme. per scrivere questo commento, caro dottore, ho dovuto ipnotizzare un paziente. capisce?
se vuole, le prescrivo 50 mg di krematon e 60 gocce di alprazolam al dia.
In realtà, appare sotteso all’intervento di Pingitore un dato essenziale: che Napoli mostra, nel suo degrado urbano ed estetico, un’integrale crisi sul piano assiologico. Molti, finora, hanno ribadito che il problema essenziale è economico. In verità il punto nodale è, da sempre, la concezione dell’uomo che si riflette nel modo in cui il potere (sia quello criminale, illegale, sia quello politico, sancito dalle istituzioni), si organizza nello spazio, in un agglomerato che oggi si dipana, ben oltre i confini comunali e provinciali, da Caserta a Salerno, quasi senza significative soluzioni di continuità (al più, qualche straccio verde sporco di campagna malata), in un filiforme ed angusto attorcersi di sinapsi periferiche, fra entroterra, vulcano e mare.
Dalle antiche degradate insulae, retroterra maleolente delle stupende facciate di chiese barocche e regge neoclassiche, alle contemporanee scatole di cemento delle periferie (veri e propri “omili”, per riesumare l’efficacissimo termine coniato da un oppositore degli aspetti deteriori e massificanti dell’industrialismo, qual era Danilo Dolci), eserciti di terracotta prefabbricati che accerchiano e soffocano i relitti sparsi di un liberty fin de siècle, il volto della città appare continuamente atteggiato a crudele ironizzazione di se stesso, come in un’improbabile opera patchwork risultante dalla cumulazione casuale degli strati. Sembra quasi che la lamiera contorta e mal attata su reticoli di tubi, il relitto del caseggiato sventrato, il casermone delle vele che non ci vuole, non ci sa morire, perché a dispetto della sua bruttura costruito per resistere, stiano lì a prendere in giro l’ultimo residuale di forme armoniche ancora sopravviventi all’assedio, in un accavallarsi di vocii e gridii che fa vibrare in note di triste sberleffo perfino le corde intime del dialetto.
Vendetta della plebe, ha detto qualcuno. Mancata formazione di un proletariato. In realtà, organizzazione secolare dello spazio in modo che la città del comando, ammantata di fregi, svettante, chiusa, si imponga con autoreferenziale tracotanza in mezzo a grovigli di catapecchie, intrecciate in un indecidibile logico di strade senza uscita, dove la massa è meno che proletariato, meno che plebe, meno che nucleo tribale, ed è appunto ridotta a puro aggregato conflittuale di istintualità ferina; lo stesso iperfamilismo non è altro che un ultimo, debole precipitato di collante di socialità animale, quale emerge là dove non esiste, e non si vuol far esistere, alcuna normatività (etica come estetica) da condividere; là dove il linguaggio stesso, sia esso lingua ufficiale o dialetto, pare decomposto; in una parola, là dove l’uomo è, come uomo, totalmente nullificato. Ricordiamoci infatti, al di là di materialismi più o meno volgari, che l’uomo è uomo per la sua natura di animal culturale, e che non si dà mai, nella storia, modo di produzione o rapporto di potere che non si esprima in un simbolo condiviso. La disgregazione estetica è frutto dell’imposizione di un contesto in cui si vuole uccidere, nel delicatissimo cronotopo dello spazio urbano, che fa dell’uomo un cittadino, la dimensione normativa della cultura (intesa nell’amplissimo senso socio-antropologico del termine), che fa dell’uomo stesso un uomo.
Altrove, città altrettanto elitarie od oligarchiche, si sono date, in tutte le epoche, strutture che, nella loro pervasiva viabilità, esprimevano la volontà di controllo del potere e la sua capacità di farsi anche matrice generativa di norme (e in qualche modo di normalità), sia sul piano del diritto, sia sul piano dell’organizzazione estetica dello spazio percepito. Napoli è l’espressione di un altro tipo di potere -da dominanti di capobranco-, che nel suo localismo e nella sua marginalità si esaurisce, pago di esercitare, a partire dalla condizione originaria di eccezionalità che lo fonda, non altro che il brutale diritto all’eccesso, finché dura. Si è evocato il paragone con il Giappone medievale. Sarebbe stata più efficace, come chiave di lettura della socialità, della struttura urbana, dell’economia di Napoli, evocare il doppio circolo economico-culturale che per Dos Santos caratterizza, benché su scale infinitamente più grandi di invivibilità e di Apbau, città come Calcutta, Rio de Janeiro o Nairobi: un salotto di colletti bianchi al piano attico, una calca di perifericità sociale al pianoterra, un potere eterodiretto senza coscienza, un prisma di grattacieli rampollato da una biomassa di scatole di cartone e lamiere.
Si capisce bene, allora, come il paletto piantato dal commerciante a stabilire la sua giurisdizione privata, là dove esisteva un tempo un parcheggio invalidi, e la città che straborda dal suo Lebensraum, tracimando con alluvione cementizia di palazzine fin oltre il crinale inquieto del doppio recinto lavico del Vesuvio, non meno dell’appartenenza ai capizona e l’aderenza in alto loco, non siano che due aspetti della stessa medaglia: una sorta di singolarità urbana, in cui lo spazio e il tempo degli individui e della comunità sono ingolfati nella frenesia e nella bruttura emananti dall’arbitrio di pochi.
E il velleitarismo delle ideologie, o il proclama tardo-imperiale dell’accorrere delle legioni, non ci aiutano a tagliare il nodo.
@daniele ventre
Analisi antropologica efficace e affascinante. Specie nella descrizione della città costruita per il comando.
Sono parzialmente d’accordo. Napoli è lo specchio di diverse dominazioni, non ci leggo un disegno intenzionale.
Nel fare il parallelo con i clan familiari giapponesi non mi riferivo alla composizione della società ma alla nascita della società basata su ceppi familiari diversi fra loro e spesso in conflitto. A Napoli, questa forma tribale esiste ancora e definire “plebe” coloro che la compongono, mi sembra in linea col riferimento temporale/storico di Domenico Rea.
E nel parlare di sinistra e di borghesia non mi sembra di aver fatto ricorso all’ideologia. Sono fatti di carne e ossa, li puoi toccare.
Se poi il nodo non viene tagliato con l’accorrere delle legioni, questo non lo so. E’ una via, un’ipotesi per il veloce recupero del territorio che è stato occupato militarmente.
Approfitto per chiudere, probabilmente, lo spazio dei commenti. Ringrazio quanti stimolati dalle mie riflessioni hanno aggiunto le loro. Ho seguito e apprezzato molto l’intervento di Daniele Ventre, che nell’intrico lessicale ardito, offre una visione assai precisa e personale della città.
L’articolo nasceva come contrafforte emotivo ad una situazione di forte recrudescenza criminale che chiunque sia qui, in città, respira con la pelle.
C’è chi si è voluto soffermare sullo specifico di una contrapposzione che in realtà io non proponevo in maniera così rigidamente manichea. Ma va bene così. Come va bene che Marco, Daniele e altri abbiano contribuito con una loro riflessione, ad indirizzare l’utilizzo e la comprensione della parola ‘bellezza’, che chissà perché sembra oggi una bestemmia reazionaria mentre è un valore fondante di ogni nostro agire. O dovrebbe.
Evidentemente tocca un nervo scoperto.
E ringrazio anche chi ha interpretato diversamente questo valore; lo dico senza ironia; l’alterità fa sempre bene.
Mi colpisce che a un certo punto la discussione si sia focalizzata sul luogo-periferia. Mentre ribadisco che la specificità criminale di Napoli è nel suo centro, purtroppo. Siamo già alla fase del contagio, della diffusione virale di microceppi delinquenziali.
Ma sulle periferie, forse, è arrivato il momento di avviare una seria ricognizione.
Napoli, ad esempio, è una città che divora letteralmente il resto della regione. Paradossalmente si potrebbe pensare tutta la cinta campana che divide Napoli dagli altri capoluoghi come un’enorme periferia della prima. Sembra un paradosso, ma non lo è.
Le strade perdute di Napoli, lynchiane, sono ovunque, anche quando si ha la certezza di essere a Caserta. Castelvolturno, Villaggio Coppola (dove Garrone girò L’imbalsamatore), Mondragone, oppure nel territorio flegreo. È Napoli, Napoli che si sfilaccia e si distende…
Casualmente leggo l’articolo il giorno dopo Annozero di Santoro.
Una domanda, reale, senza retorica e dalla cui risposta potrebbero dipendere alcune scelte.
Qual’è il limite oltre cui è lecito scappare senza doversi sentire vigliacchi per aver abbandonato il Titapoli?
Ognuno agisca secondo coscienza, commisuratamente alle proprie forze.
In una città che è periferica e marginale fin nel suo centro, è ben difficile vivere.
L’unica cosa è che il Titapoli non affonda.
Permane.
P.S.
aggiungo un’ultima cosa, ho trovato la puntata di Anno Zero di Santoro vagamente aberrante. Le interviste al rapinatore, al fratello del presunto omicida, sono moralmente schifose
Non solo quel pezzo di trasmissione ma tutta l’impostazione è stata sbagliata. In Anno Zero si è discusso della criminalità dei disperati, quella che esiste in tutte le metropoli del mondo e in misura anche maggiore. E’ un allarme sociale comune a tutto il mondo industrializzato. Mi aspettavo un’analisi del fenomeno camorristico che è diverso da quello mafioso. Mi aspettavo che le accuse alla gang di Bassolino ( che ho votato più volte per mancanza di alternativa ) non fossero così vaghe. Avrei voluto vedere con piacere una mappa dei clan, con tanto di nomi e cognomi, testimonianze da chi ci sta dentro. Avrei voluto sentire il prefetto, il questorie, il procuratore della Repubblica, il sindaco, il presidente della provincia, lo stesso Bassolino, il ministro dell’Interno, gli assessori regionali. Hanno parlato del senatore De Gregorio senza dire delle sue collusioni con i clan di Fuorigrotta ( Malventi, Baratto, Cavalcanti ), senza fare cenno ai suoi 70.000 euro di assegni protestati, l’ultimo ad Aprile di quest’anno. Avrei voluto sentire un’analisi sulle liste presentate dalla destra e dalla sinistra alle ultime elezioni, chi c’era dentro, come mai la figlia di un boss è stata eletta in Forza Italia, chi ha pagato campagne elettorali da capogiro, chi sono quelle facce sui manifesti. E avrei voluto sentir parlare di aziende campane che subappaltano la loro produzione ai clan, che a loro volta le passano ai cinesi o ai disperati che lavorano epr due euro all’ora. Avrei voluto sentire questo e tanto altro ancora ma invece ho sentito la vedova di una vittima dire che questo mondo fa schifo. E aveva ragione lei.
Del resto, che aspettarsi dalla tv strappalacrime, se non retorica da romanzetto realistico di sest’ordine?
Non ho visto tutta la trasmissione ma da persona che si occupa del casting avrei fatto di tutto per avere Saviano, anche al posto di Travaglio (o assieme). Possibile che nessuno si sia ricordato dell’autore di un best seller?
@NoNameGiven
21) C’è una sola farmacia, le altre sono ad alcuni chilometri;