Cerca di essere naturale
di Christian Raimo
Oggi ha scritto una lettera, o meglio, ha cominciato a scrivere una lettera piena di frenesia mal dissimulata al cardinal Martini, con una grafia che stentava a riconoscere come sua (come si scrive a un cardinale? si mette il nome per esteso? è ancora cardinale? si resta cardinali a vita? forse dovrebbe chiedere ai suoi). Cerca di essere naturale è una bella contraddizione in termini, aveva considerato. Una volta si erano incontrati a Malpensa, all’aeroporto: una coincidenza che fu difficile non scambiare per un segno. Lei l’aveva riconosciuto come fosse un divo del mondo cattolico, non era vestito con la tonaca rossa come voleva l’immagine che aveva in mente, ma con una camicia con il colletto; le aveva accarezzato la testa con un gesto che a lei non era parso affatto scontato.
Era accaduto secoli fa, il giugno del 2002. Stava lasciando l’Italia e aveva paura: a undici anni non credeva alle sottigliezze, accettava abbracci e conforto da chiunque. E anche il cardinale in quel momento aveva forse cercato forme di conferma dagli eventi e dagli sguardi, dopo aver deciso – ora che non era più il vescovo di Milano – di trasferirsi in Israele. Per il primo mese, le disse come fosse un amico di famiglia, aveva in programma un pellegrinaggio in Terra Santa, poi si sarebbe stabilito, proprio a Gerusalemme, “a fare il vecchio”: leggere, meditare, pregare, scrivere, aver cura se possibile della propria salute. Le aveva lasciato il suo nuovo indirizzo, “essere vecchi vuol dire avere un’infinità di tempo”, le aveva fatto gli auguri, aveva benedetto la sua famiglia, in un modo così estemporaneo e cordiale che suo padre non aveva capito se a quel punto doveva baciargli l’anello o invitarlo al bar al piano superiore per un caffé.
Suo padre e sua madre avevano scelto in vece loro, di lei e dei suoi fratelli, due anni prima. Quando, all’incontro annuale per le famiglie cristiane appartenenti a movimenti postconciliari, avevano dato la loro disponibilità a partire come famiglia in missione. Lei aveva sempre creduto di essere un’eletta, e con il tempo aveva considerato come quest’elezione contenesse una notevole gamma di variabili che andavano dalla sfiga più nera al crescere molto più in fretta di qualunque altra persona a lei conosciuta a essere il sale della Terra. La sua famiglia era stata assegnata ad una piccola comunità di cristiani, cattolici ex-maroniti, a Tripoli, nel Libano del nord. Via dal liceo, via dal cinema il sabato pomeriggio, e – a rifletterci – via dalla propria lingua, via dall’ironia spicciola, via dalla naturalezza della vita normale: sarebbe stata in classe insieme a ragazze che portavano il velo? Le sue conoscenze di quella che non si sa per quanto sarebbe stata la sua nuova casa non erano neanche pregiudizi, si limitavano a ricordi da prima media. “La terra dei Fenici, ricca di cedri, e con un grande sbocco verso il mare”. Lei: non sapeva nuotare.
I primi due anni a Tripoli erano stati un inferno talvolta divertente. Amava tutto ciò che era detestabile per qualsiasi persona sopra i quindici anni: la disorganizzazione, il rumore continuo delle macchine-scarto di qualche sovrapproduzione europea, le piogge di sabbia, il rischio di trovarsi coinvolti in una rissa di cui non capiva il motivo scatenante. Essere eletta. Sua madre si era ammalata di artrite reumatica dopo pochi mesi dall’arrivo. Suo padre aveva dovuto sopportare un carico penoso di fatica per occuparsene (le paure e i nervosismi di sua madre erano cresciuti in modo proporzionale all’intensità dell’infezione), oltre che per cercare un lavoro decente, educare cristianamente i figli, provvedere alla comunità: non c’erano mai abbastanza soldi, non c’erano mai soldi, ma questo non doveva diventare causa di scoraggiamento. Erano a tutti gli effetti dei profughi non necessari. Del resto, erano lì per salvare il mondo, per testimoniare Cristo.
I libanesi le sembravano gentili, socievoli, disponibili, ma capaci di un atteggiamento di chiusura (culturale? nazionalista? integralista?) che poteva sfociare nell’omertà. Aveva l’impressione molto spesso che le parlassero alle spalle appena si girava. Era lei a non fidarsi, o loro? Gli adulti, i vecchi: si lamentavano sempre e comunque. C’era stato un tempo migliore, cinque anni fa, dieci anni fa, prima della guerra civile, dopo la guerra civile, durante la guerra civile. Ognuno era sicuro di ricordarsi delle circostanze passate che legittimavano il malcontento distratto su cui facevano alla fine virare ogni conversazione più lunga di un saluto.
Ieri era sabato, e come ogni sabato, per la messa, ha preparato il pane azzimo. Gliel’ha insegnato sua madre e anche adesso che è guarita, è rimasta a lei l’incombenza. Nei quattro anni a Tripoli – risultato del fatto che ora parlano la lingua, e anche ovviamente merito dello Spirito Santo – si è formata una nuova comunità di una ventina di persone. Non hanno una chiesa, per la messa o per altre celebrazioni si riuniscono nelle case, una volta dell’uno una volta dell’altro. I membri della comunità sono quasi tutti palestinesi, immigrati o figli di immigrati. È successo che alle catechesi si siano infatuati per la figura di Abramo. Suo padre e gli altri responsabili sostengono che sono in cerca di radicalità e carità al tempo stesso. Sono coppie giovani per lo più, già con uno o due figli.
Molte delle notizie che li riguardano le sanno tuttora attraverso una triangolazione. Arriva una telefonata intercontinentale dei nonni o di qualcuno della comunità di Milano che chiede se un attentatore si è fatto scoppiare nelle loro vicinanze o che reazioni ci sono state a quello che ha dichiarato Ahmadinejad. “Perché che cos’è che ha detto?”. Anche adesso è accaduto lo stesso: che la vicenda di un soldato israeliano rapito fosse diventato un pretesto per minacciare una guerra l’hanno sentito quando ormai Israele aveva già convocato i riservisti. Forse per questa ragione, lei non ha mai tempo di elaborare, e le capita di fare quella fuori tempo.
“Ieri”, così dice la lettera che sta scrivendo al cardinal Martini, “durante la celebrazione della messa, “toccava a me proclamare il salmo. Ogni volta che mi avvicino all’ambone, qualcosa di sovrannaturale sembra effettivamente toccarmi: non saprei come spiegarlo, ma si sento realmente più grande. Ma non di questo purtroppo devo parlarle, ma del fatto che ieri è accaduto qualcosa che però non era programmato. Il salmo che ho proclamato è il 122. Quanta gioia mi dissero: / «Andremo alla casa del Signore» / E ora i nostri piedi si fermano / alle tue porte, Gerusalemme! / Gerusalemme è costruita / come città salda e compatta… È accaduto che le persone della nostra comunità, che sono quasi tutti palestinesi, erano imbarazzati, stavano male al momento del responsorio, hanno biascicato qualcosa e poi si sono fermati. Io ho voluto arrivare fino all’ultimo, per rispetto alla Parola, ma anche perché all’ultimo dice: Per i miei fratelli e per i miei amici / io dirò: «Su di te sia la pace!», ma il modo in cui interpretavo, anzi vivevo quelle parole, mi pareva diverso, nettamente diverso da quello dalle persone che mi stavano davanti. Ne abbiamo parlato, in famiglia e con le altre persone della comunità, e adesso dovremmo sottoporre il problema anche ai catechisti, ma a parte tutto questo, mi vi è venuto in mente di scriverle. Vorrei parlarle personalmente, le posso chiedere un parere?”
Appello per
Bruno Brancher attualmente indigente e con problemi di salute.
Per il conferimento di un sostegno economico: legge Bacchelli
“Oggi, 25 aprile I995, ho distribuito ben 150 copie della mia ballata sulla Resistenza. L’occasione me l’ha offerta la Mostra Collettiva Di Pittori Naif, alla Biblioteca della Braidense, sita all’interno dell’Accademia di Brera. L’avvenimento culturale ha richiamato moltissima gente. Un vero successo. Come, da anni, non se ne vedeva a Milano. E io ne ho approfittato per rifilare a molti dei presenti la mia ballata. Che é stata ben accolta. Poi ho fatto onore al buffet. In un certo senso “ci ho dato dentro”. I vini erano freschi e ottimi. I dolciumi fragranti. Ho incontrato Vanni Scheiwiller che mi ha chiamato: poeta. Ed io sono impazzito dalla gioia. Con me c’era il poeta Filippo Senatore. Poi é apparso Davide che mi ha invitato a ‘mangiare qualcosa’ in una casa lì, a Brera. Okei” dopo avere spillato a Senatore un bicchiere di Vecchia Romagna. Ho litigato sull’ebreo errante Guevara.
Bruno Brancher
lo trovo bellissimo.
è bello come hai reso le idiosincrasie per una decisione presa dai genitori, e il fatto che lei si senta eletta. è bello il contrasto tra quello che dice il Salmo e la realtà odierna, e la differenza dei modi di interpretazione fra lei e chi ascolta.
davvero, uno dei più belli che ho letto ultimamente, dei tuoi.
grazie.
BBBBhoooooo!
Perchè un luogo ad altri sconosciuto diventi caro.
Ho lasciato sotto il tuo letto una foto che ci ritrae mentre ci baciamo davanti alla Sinagoga. Quando l’abbiamo scattata nessuno sapeva che quello era un gioco, quasi una provocazione diventata nel tempo il luogo in cui conservo il nostro amore ora che non siamo più in quei luoghi, ora che la pioggia ha spazzato via il rumore dell’Estate. La cosa più straziante è stato il viaggio verso l’aereoporto. Parlare del quotidiano sapendo che tutto era perduto e nulla avrebbe avuto sapore. Mia madre dice che non tornerai, di farmene una ragione. Io ho il cuore dentro lo stomaco e non riesco a mangiare.
La foto è sotto il letto. Quando tornerai, e io so che tornerai, la vedrai e saprai che in tutto questo tempo il nostro centro è rimasto inattaccabile. Fermo.
Non mi muovo più.
tromba di più, chris.
sull’ultimo commento mi viene da dire-
Io l’ho guardata da sopra e sotto e viceversa, con un’intensità violenta da uomo arrapato, cattivo. poi ho aspettato che qualcosa facesse il suo circolo e uscisse, e ho detto:”
che palle sto raimo! non si riesce proprio a farlo desistere dalle sue velleitarie ambizioni letterarie!