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Nuovo cinema paraculo: Kappa e Spada

Da Kill Bill a Kitano, samurai, clown e buffoni di corte

di Serafino Murri

Quando Big Jim Jarmusch, con la discretezza degli antesignani, diffuse incastonandolo nell’occhio semichiuso modello Black De André di Forrest Whitaker-Ghost Dog il modello adamantino del Samurai urbano come unica forma attiva di opposizione uguale e contraria all’autismo indotto dalla società dello spettacolo integrato nella sua fase metastatica, non credo avesse considerato il rischio che l’inesorabile lama dello sputtanamento sarebbe piombata a spiccarne la testa con dentro tutti i sentimenti e i mantra nel giro di così pochi anni com’è accaduto in questo guerriero, posticcio 2003.

E non parlo della dolce laidezza di Tom Cruise con la sua immarcescibile faccia da bellino del liceo che tocca picchi di bravura come forse solo in Magnolia prima nel personaggio un po’ johnnydeppico un po’ forrestgumpesco di The Last Samurai, ma dell’incantevole musa di Quentin Tarantino Uma Karuna Thurman nella sua effige in tuta da motociclista giallo-nera che ammicca alle folgoranti salopette seventies di Bruce Lee in Kill (uff) Bill (uff). Sbuffo doppio non solo perché a guardare quest’ultima fatica del Warhol della citazione in serie e Von Masoch del B-movie, già dalla prima scena, quella dell’eccidio in chiesa, mi sono annoiato mortalmente: ma soprattutto perché su Kill Bill è difficile dire cose sensate. È un contenitore vuoto, una Lamborghini senza motore dove ci si va a mangiare il Sushi take-away, una versione parossistica di Charlie’s Angels con inclusa nel prezzo una mosca che ti ronza nell’orecchio pezzetti di storia del cinema citati a casaccio dal manuale, che sfrutta come un magnaccia tre donne (come nelle barzellette di Bramieri, una bianca, una gialla, una nera) di una bellezza, quella sì, geniale, per mettere in scena un fumettone Pulp nel senso originario, quello della carta da riciclo su cui venivano stampati i Comics popolari negli anni Quaranta in tempo di guerra e di austerity.

In questo B-movie miliardario (questi i mesti ossimori del presente) che ci minaccia con la sua seconda parte a venire, in effetti, non si butta via niente: Kill Bill cerca la stupefazione come Jacopetti coi suoi documentari su Mondo cane, mettendo insieme a capocchia crudeltà, bellezza, sensualità, cinismo ed eccesso. Non posso neanche esprimere un giudizio negativo, perché dalla visione non mi è rimasta addosso nessuna sensazione, se non quella che tra Tarantino e Claudio Fragasso di Milano-Palermo solo andata esistono grandi affinità nel modo di girare i duelli e i conflitti con la macchina da presa. Bravi tutti e due, lo fanno proprio bene, con impiego in grande copia di steadycam, dolly e carrelli.

Kill Bill è un po’ Kubrick col segno meno: nei film del genio misantropo Stan il contenuto era così invadente da mettere tra parentesi una forma stratosfericamente perfetta e minuziosa, qui il contenuto è così inesistente da far sembrare tutto quanto bellissimo, perché non c’è altro che un’immagine di una donna fica da morire che fa il culo a tutti, indistintamente, risolvendo l’annoso problemino del piatto freddo della vendetta, del quale a nessuno può fregare di meno, con la stessa infallibilità di Schwartzie Terminator. Insomma, al modico prezzo di un biglietto ci si trova di fronte al trionfo postmoderno della cultura dell’ammicco e della paraculata, e ad una scrittura in libera associazione e reminiscenza ormai giunta a livelli di inquietanza da Nido del Cuculo: una malia citazionista che è l’apoteosi della musica a orecchio, dove Schumann, Schubert e Schumacher vanno tutti bene in virtù di quella “Schu” comune. Questo non fa che corroborare la mia incazzatura annosa con filmakers come Von Trier e Tarantino: quelli che sarebbero forse i due più grandi talenti intuitivi del cinema della loro generazione, che scarabocchiano come i bambini con chiazze di colore un disegno finché non rimane che una pappa buona solo per gli addicted e per i fan della coazione a ripetere. Sade diceva che “tutto è buono ciò che è eccessivo”, ma eccessi o non eccessi, in Kill Bill sembra che le “stupende” scenografie/coreografie abbiano dietro la stessa consistenza drammatica di quelle del compianto Falqui per il Tuca-Tuca della Carrà a Canzonissima.

Inutile spiegarlo ai fan, che con altezzosa alzata di sopracciglio, all’obiezione che erano meglio i fumetti de L’intrepido, controbattono come Frassica dei bei tempi: “Non è bello ciò che è bello, ma che bello, che bello, che bello”. Non so… non pensavo che la megalomania narcisista (quella scritta a caratteri cubitali “Il quarto film di Quentin Tarantino”, nel trailer…) potesse condurre il regista di Jackie Brown al culturismo della ficaggine: musica fica, inquadratura fica, costume fico, combattimento fichissimo… e stop. Ho sentito alcune delle migliori menti della mia generazione dire senza essersi ritoccati la cervice con qualche paradiso artificiale di scarsa qualità che il Manga messo in mezzo al film sia un capolavoro, c’è poi chi dice che la scena della strage degli ottantotto dell’esercito di Cotton Mouth è pura musica per gli occhi: eppure non riesco a smettere di pensare che Sergio Leone, dopo un bicchierozzo alla Frasca, girando con un budget dalle cento alle seicento volte inferiore sulle montagne abruzzesi, aveva già detto molto di più in materia di cruda violenza di tutto questo fottio di balletti con la sciabola della bambolona bionda con la tuta di Bruce Lee. Insomma, in Kill Bill ‘sta benedetta violenza che dobbiamo sbobbarci per esorcizzarla ancor più di quanto non faccia la CNN, c’è: ma come al solito è quella, tutta di sottecchi, dell’ “o ti piace, o non hai capito”. Frutto di puro “cooling”, né più né meno del marchio Nike o Calvin Klein.

Oggi come oggi, a parlare male di Tarantino ci si sente coglioni e fuori del tempo, gente che rompe le uova nel paniere, fiche secche che non si sanno divertire. Il che può anche darsi. Ma questo ancora non è un buon motivo per accontentarsi di un filmaccio noioso, lungagginoso, ripetitivo, senza storia né personaggi, confrontabile a un assolo di Eddie Van Halen picchiato, sequestrato e costretto a suonare con collo e caviglie legati mille variazioni sul tema di Spanish Fly Ma chi se ne frega del culturismo delle immagini. Chi se ne frega delle immagini. Dateci delle emozioni che non siano solo la reminescenza di Atlas Ufo Robot. O almeno, qualcosa di diverso da una versione in carne ed ossa della Playstation Sony. Dopo essere uscito dal cinema, l’unica cosa che mi sono sorpreso a pensare è: “almeno in 8 mile, Eminem, nei duelli di rap cantava davvero”. Ma è possibile? Mi viene in mente l’ironia dei situazionisti quando doppiavano i film di Kung Fu cinesi e facevano parlare gli eroi coi precetti del libro Rosso di Mao o del Capitale. Al confronto (nei primi anni Sessanta) un coraggio da leoni. Vabbè

Anche Kitano, col suo ultimo film, prende di petto la patata bollente (per un giapponese più che mai) di Samurai e citazioni. Ma la musica, in Zatoichi cambia. Niente di meno mandato ad orecchio di questo film. Niente di gratuito, neanche un solo schiaffone, una sciabolata o uno sguardo da cui non traspaia, per quanto mock-heroic, un sentimento umano toccante. La differenza più sostanziale tra Kitano e Tarantino è che “Beat” Takeshi è ancora il clown che negli anni Settanta metteva in scena per la tv giapponese un feroce cabaret lunatico col gruppo dei “Beat” (mutatis mutandis, Cochi e Renato o Villaggio Wild&Free qui da noi), mentre Tarantino si è ridotto con le sue stesse mani feticiste a fare il buffone di corte di Hollywood. Il suo curriculum era perfetto all’uopo: self-made man che si è distinto per la ferocia e l’impietosità, maniacale e ossessivo, che trova sempre il modo per far sorridere i sovrani mandandoli a cagare. Nei film di Kitano, in genere prodotti dal regista stesso con un budget decine di volte inferiore a quello dell’ex garzone di videonoleggio losangelino, è la mistura irresistibile di violenza, umorismo e melodramma che li attraversa a lasciare senza fiato. Ogni film di Kitano è un tassello necessario di un itinerario personale, dove la necessità è quella di scolpire attraverso il proprio corpo di attore personaggi vivi. Confrontare Zatoichi, sua ultima prova premiata a Venezia per la migliore regia, con la scintillante vuotezza dall’apparenza abbastanza simile di Kill Bill aiuta a capirlo. Zatoichi è il remake surreale di un eroe del film in costume, interpretato in televisione e al cinema per oltre vent’anni dal grande attore Shintaro Katsu: quello di un massaggiatore cieco, genio del gioco d’azzardo e maestro nell’arte della spada. Dunque, Zatoichi è un’unica grande citazione, di cui Kitano si appropria fino a rendere il personaggio biondo e farlo girare con un vistoso bastone laccato di rosso, ricreando il genere all’insegna della leggerezza, attraverso le regole del grottesco e del parossismo del combattimento, ma anche di un insolito uso della coreografia che riscrive strepitosamente l’happy-end tipico del sanguinoso genere dei film di samurai in forma di vorticosa danza occidentale. Kill Bill è l’esatto contrario, una spasmodica sequela di combattimenti che emulano le esagerazioni della serie B di un genere riprodotto nei minimi particolari, ma senza più un’anima, dove i personaggi sono figurine che fanno da pretesto per esibire la bravura del regista. Kitano, invece, scompare dietro la macchina da presa: proprio lui che scrive, gira, interpreta e monta i suoi film, sa mettersi a servizio dello spettatore senza masturbarne la coazione a ripetere, e a servizio di attori sorprendenti come Tadanobu Asano, a cui, sfruttando la lunga esperienza di cabarettista di successo, a tratti non si nega il gusto di fare da spalla. Kitano diverte e si diverte con rigore, commuove, esalta, tiene incollati allo schermo attraverso una sottile forma di straniamento tipica dello spirito nipponico, quella della coesistenza dei contrari: impossibile scindere la commozione dal ridicolo, o la goffaggine dalla bellezza. Nel caso di Zatoichi, la molla dell’onore che muove le storie di samurai è azzerata da un personaggio solitario e misantropo che, come ha affermato lo stesso regista, ce l’ha con i cattivi ma non dà confidenza ai poveri, contornato da una galleria di strane creature che infrangono ogni categoria classica: ragazzi travestiti da Geishe, giocatori incalliti perdenti, capi idioti, scemi del villaggio e samurai sentimentali e sofferenti. Zatoichi è l’ennesima sfida di un genio eclettico che muta in continuazione per meglio mettere in luce la sua unicità, senza chiedere al suo pubblico atti di fede o culti della personalità, ma solo di sganciare il paracadute dell’immaginazione e lasciarsi andare con lui per un paio d’ore in quel gioco da bambini impenitenti che è il cinema. Zatoichi, insomma, è il film che Tarantino avrebbe voluto fare: ma per fare il cineasta sul finire del ventesimo secolo a Los Angeles, avrebbe detto Gaber, non necessariamente bisogna essere idioti: però aiuta.

pubblicato sul sito www.minimumfax.com

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42 Commenti

  1. Bellissimo pezzo, complimenti! Sono d’accordo in tutto e per tutto. Tarantino, poi, ha fatto 2 film al prezzo (non modico) di uno. Il prossimo, Volume II, a febbraio. Ottima operazione di markeTTing…

  2. Oh! finalmente qualcuno che ha il coraggio di dire le cose come stanno sulla presunta genialità di Tarantino. Tutti questa intellighenzia che strizza l’occhio a Tarantino, guardando con occhio sprezzante chi non s’è lasciato infinocchiare, è decisamente irritante. Ho amato Tarantino nei suoi precedenti ma Kill Bill è noioso, ammiccante e auocompiaciuto. E Kitano, non a caso amato molto da Tarantino, è oltre. Con le sue citazioni a I sette samurai, al musical, è grottesco,divertente e dissacratore persino del codice dei samurai. Non posso che condividere le parole di Murri.

  3. Addirittura con continuità vorresti leggerlo? Io, anche a leggerlo in modo discontinuo, mi scasso le palle…

  4. murri scrive abbastanza spesso su filmaker. e io gli ho chiesto di fare insieme a me questa rubrica assolutamente idiosincratica per il sito di minimum fax. ncp. nuovo cuincuennale piano, o nuovo cinema paraponzi che dir si voglia. eravamo a venezia insieme e vedere un’italia intera colta dall’allucinazione collettiva di bellocchio, ci siamo ritrovati come due apache in un ghetto. (lui tra l’altro a venezia i film li sceglie).
    e questo è venuto fuori. augh.

  5. l`operazione di tarantino non e` di marketing, e` che il film era troppo lungo!
    Non e` paragonandolo a Kitano che si puo` criticare Tarantino, sono due autori diversissimi e definire Q.T. un idiota e` un po` da idioti.
    come si fa poi a dire che Kill Bill e` noioso?
    Un `ultima cosa:
    il linguaggio del Murri e` davvero fastidioso e volgare, gia` il titolo e` esemplificativo e mi mette una gran tristezza.Questi sarebbero gli intellettuali italiani?
    il vero apache nel ghetto e` chi ha apprezzato kill Bill, e non il contrario
    Aug

  6. A me è capitato di vedere Kill Bill e il giorno dopo Up! di Russ Meyer, e tra i due preferisco sicuramente il secondo. Mi pare che il genere eros-grottesco di Meyer dica ancora parecchie cose (non ci sono analogie con l’ultimo Scarpa a volte?), mentre KB a parte le costosissime raffinatezze sia spento. Ma parlo solo di KB, perché ad esempio Le iene non era male e anche Pulp fiction.

    off topic: Saluti e auguri a tutti gli indiani redattori, musicisti, scrittori, cinefili, registi, lettori “forti”, “deboli”, passanti curiosi, fumettisti, pittori, videoartisti.

  7. Frequenterò il sito minimum: non solo perchè condivido ogni virgola della recensione ma perchè quest’uomo scrive da Dio. Lo stile non si trova più nei romanzi ma nel “giornalismo”.

    Andrea, non credo che Murri disistimi Tarantino anzi mi sembra di intravedere l’accanimento di chi, come me, lo ritiene un genio ed è frustrato dal tradimento. Penso che se non avessi visto il Tarantino vero, non lobotomizzato, se non ritenessi “Le iene” la più grande tragedia rappresentata dai tempi degli anfiteatri e Pulp Fiction il punto di non ritorno della storia del cinema, mi sarei goduto tranquillamente il film, come hanno fatto tanti.
    Il punto è che Tarantino è l’uomo dei dialoghi, non tanto per la loro intrinseca magnificenza quanto per la dissonanza con le immagini, col contesto. E in KB non ce n’è manco mezzo.

  8. Per Dongiovanni. Eppure, ad esempio Uomini senza mercedes è nato proprio perché l’autore ha scritto una cosa che lo divertiva (per la prima volta). Il risultato è divertente anche per il lettore, e se pensi che in fondo il tema è una specie di esistenzialismo, ma appunto divertente e divertito, insomma non è così fuori dal mondo scrivere quella frase.

    Per Elio, anche per me Le iene era un film notevole. Pulp fiction invece, non so è una questione di gusti, non sento il bisogno di vederlo e rivederlo. Mi viene da dire “è bravo ma non mi piace” (come per i Beatles), anche se mi rendo conto che mi piacciono magari libri che devono molto a quel film (forse dischi che devono molto ai Beatles). Invece Faster pussicat kill kill di RM, grande capolavoro dell’eros-grottesco, lo rivedrei volentieri.
    ok, vado a leggere il racconto nuovo di Voltolini.

  9. Sì, ma quello è il linguaggio che usano di solito i giornalisti del Messaggero. Film godibile. Il regista diverte e si diverte. La Lazio vince e convince. E’ inammissibile per me scrivere ancora così nel 2003.

  10. E’ inammissibile anche chiamare una rubrica Nuovo Cinema Paraculo, storpiando banalmente il titolo di un film, alla maniera di Roberto D’Agostino. Livello basso, molto basso.

  11. A me non pare un titolo così poco riuscito, ma si può fare di meglio, anzi sicuramente Raimo aveva in mente qualcosa (il suo gruppo cabarettistico-musicale I cavalieri del tiè è un nome niente male), solo che Nuovo Cinema Paraculo è po’lo stile minimumfax, aggressivo/ giovanile/postmodernoatuttiicosti (pensa a La posizione della missionaria).

  12. Scusate,ma se Tarantino nei suoi dialoghi ci mette la parolaccia funzionale va (ovviamente) tutto bene, e noi siamo anche contenti; se il “giornalista” scrive di cinema da vero scrittore (e dunque senza autocensure) quello che pensa, e oltretutto divertendo (in barba ai Mereghettimorandinikezich) allora è volgare, e dunque non va più bene. Non mi pare giusto. Il parallelo tra Kill Bill e il Zatoichi dell’abbacinante Kitano è pertinente, anzi doveroso. Insomma, Tarantino ha fatto una mezza, anzi totale scivolata, tutti possono sbagliare. Ciò non toglie che Le iene e soprattutto Pulp Fiction rimangono due capisaldi: da quei due film il cinema non è stato più lo stesso. Jackie Brown è stata una bella passeggiata di salute, un noir quasi tradizionale, ma rimane ugualmente uno splendido film. Per chi ama Tarantino e il tarantinismo mi permetto di segnalare (ovviamente nella versione homevideo)un film inglese di tre anni fa che qui in Italia è passato nelle sale per una settimana o poco più, ma che merita: si tratta di Sexy Beast, dell’esordiente Jonathan Glazer. Una storia di malavita da pugno nello stomaco e pieno di humour nero, con un Ben Kingsley terrificante e un Ian Mac Shane (se non ricordo male impersonò Giuda nel Gesù di Zeffirelli)che più cattivo non si può.

  13. Don Giovanni,
    detto con tutta la simpatia: Civita di Bagnoregio ha una “g” sola, e tu ne sei il parroco come io sono Marylin Manson!
    Fai una operazione (insistere sul “diverte e si diverte”) che è tipica del provocatore. Estrapoli una frase, la decontestualizzi e continui a picchiarci sopra. E’ così importante? E’ vero, è una frase ruffiana, un po’ tirata via, infelice; ma proprio per questo devi insistere come una piattola? Del resto dell’articolo non mi dici nulla? Non ha nessuna importanza? Non te ne frega niente di quello che dice? Ha ragione, ha torto? Che opinione hai in merito? Non reputi “fondamentalista” questa tua petulanza su quella semplice frase? Cos’è questo atteggiamento schifiltoso di chi trova il pelo nell’uovo e smette, di conseguenza, di mangiare l’intera cena?

    Su Kill Bill non posso dire nulla. Da quando “tengo famiglia” ho dimenticato come è fatto il cinema. Solo cartoni animati!!! Dei quali, tra l’altro ci sarebbe molto da dire. Reputo che la migliore sperimentazione e libertà espressiva, dal punto di vista PROPRIO della scrittura, negli USA sta passando proprio da quei prodotti per “bambini”. Non è un caso che fra Minority Report e Monster & Co ci siano moltissime assonanze (non ultima il rapporto fra il capo e il protagonista). Cioè a dire che ormai il pubblico statunitense, e quindi globale, è sempre più trattato come un pubblico infantile. Ma poi per assurdo proprio chi fa prodotti per l’infanzia sviluppa spesso migliori analisi della psiche umana e dei comportamenti di gruppo se non addirittura veicola veri e propri messaggi anti-post-capitalisti. Ma mi fermo qui, se no va a finire che chiamate la neurodeliri…
    Tarantino, dicevo. Il suo problema è che è stato sopravalutato da subito. Nessuno gli nega il talento (strepitoso). Ma Le Iene resta, per me, il suo film più bello. Sembra una tragedia elisabettiana. Fatto con quattro soldi.
    Mi ricordo che quando vidi Pulp Fiction (lo vidi prima delle Iene, quindi non mi aspettavo nulla, neppure lo conoscevo Tarantino) lo trovai molto bello, ma un po’ lungo. “un paio di sforbiciate gli farebbe bene” dissi, fuori dal cinema. Poi non lo vidi più per anni. Montò una vera e propria adorazione (lo sapete meglio di me) per quel film. Tarantino sembrava il genio che aveva cambiato il cinema. Insomma, non esageriamo, dai. Un gran bel film, certo. Ma io la patente di capolavoro la do a pochissimi film. Se no va a finire che qui si fanno capolavori ad ogni piè sospinto. Beh, sta di fatto che molti anni dopo l’ho rivisto, in TV. E mi sono accorto di dire le stesse identiche cose. Bello, divertente, furbo, in certi punti geniale. Un paio di colpi di forbici gli farebbe un gran bene.
    Elio, già Hitchcock faceva parlare i suoi personaggi mentre agivano, con i corpi, in tutt’altro modo (memorabile l’intervista di Truffaut, che diceva dell’inglese essere un fine psicologo). Tre minuti di Scorsese valgono, in quanto a violenza e prevaricazione, a tutto Pulp Fiction. E Ran di Kurosawa dove lo mettiamo (ve la ricordate la scena della decapitazione)? Tarantino non inventa nulla, e lo sa pure lui. Non posso parlare di Kill Bill perché, appunto, non l’ho visto. Però devo dire che ho e non ho voglia di vederlo. Penso che andrò, se ci riesco, con mente sgombra, non aspettandomi nulla. Così me lo godrò. (come mi “godo” i cartoni animati che vedo con mia figlia). Se mi aspetto l’opera di un “autore” ho la sensazione che ne resterò deluso. Ma questa non è certo una bella cosa. Non si butta via così il talento, cazzo!
    Comunque Murri sbaglia. Parlare male di Tarantino, oggi, è un hobby diffusissimo. Gli stessi che lo avevano incensato ora lo disprezzano. Insomma non c’è mai la misura, è questo il problema.
    Nel cinema c’è un solo intoccabile: Kubrick. Pare che su di lui (attenzione: io ADORO Kubrik) non si possa fare nessun tipo di osservazione. Appena uno dice: “però forse in quel film…” la risposta è sempre:”Sei tu che non hai capito!”
    Quello di Kubrik è un culto che, per me, non aiuta la memoria del genio che realmente fu (lui sì, autore di capolavori).
    Ok. Ora basta. Mi prometto sempre di essere breve e va a finire che scrivo interi libri dei Veda!

    Non credo riuscirò a leggervi prima dell’epifania. Fate i bravi, non sbronzatevi troppo, vi voglio pimpanti al ritorno.

    Un abbraccio, Gianni

  14. E’ pieno di peli in quell’uovo, e non mi va di elencarli tutti. E comunque hai ragione, sono un fondamentalista. (Kubrick si scrive col “ck”!).

  15. Ehi don giovanni, non fare le pulci al Biondillo!
    Se tu guardi la riga sopra Kubrick è scritto in modo corretto. E’ palese che nella riga sotto la c mancante è uu errore di battitura…

  16. Quelle frasi di Hitch, caro Gianni, le ho sempre presenti: rilevanza cinematografica a parte, impongono riflessioni sull’uso dei dialoghi nel romanzo. C’è però una differenza: i dialoghi di Hitch erano volutamente banali, insignificanti, spesso sciatti (non avevano alcuna importanza, in realtà) mentre quelli di Tarantino sono grandiosi anche se letti.
    La violenza di Scorsese è terribile (anche se l’ultimo pare sia killbilliano) ma non c’entra niente con PF. Del resto, se l’hai visto e rivisto e ne hai letto e riletto e continui a non trovarlo un capolavoro non potrò convincerti io con quattro righe.
    Preferisco segnalare il negletto quarto episodio di Four roums, film condannato dall’insipienza di due degli episodi e dallo scarsa rilevanza del pur divertente terzo episodio (di Rodriguez). Pochi hanno apprezzato quella magnifica rilettura di un prodotto Hitch: forse per motivi anagrafici non tutti ricordano l’originale, con Steve Mac Queen all’accendino e Edward G. Robinson dall’altra parte del tavolo. Quel quarto episodio di Four rooms è una perla rara e l’interpreatzione di Tim Roth valeva un Oscar quadruplo (anche tutto il resto del film è nobilitato, riscattato, dalla sua prestazione fantasmagorica).

  17. Elio, ti leggo sempre con molto interesse; però come fai a definire L’uomo di Hollywood una magnifica rilettura del telefilm prodotto da Hitch, L’uomo del sud? Davvero, quel Four Rooms, tutto quanto, secondo me è una scivolata lungodistesa. Il telefilm hitchcockiano a mio avviso è meglio, senza particolari pretese stilistiche (prodotto televisivo) ma con il solito carismatico Mc Queen e un Peter Lorre (mi pare di ricordare che fosse lui, non E.G.Robinson)perfetto dall’altra parte del tavolo. Sono d’accordissimo invece sul fatto che l’ultimo Scorsese non ha nulla a che spartire con Pulp Fiction. PF è qualcosa secondo me di unico e irripetibile.

  18. anch’io da quando tengo famiglia vedo cartoni, cartoni… E sono d’accordo con Gianni sull’incredibile richezza di Monsters&Co.

  19. Elio,
    siamo più d’accordo di quanto tu creda. E comunque il fatto che abbiamo opinioni non identiche ma comunque simili su PF lo trovo una ricchezza non un problema.

    Simpaticissimo Don Giovanni,
    leggi velocemente quanto segue: anhce se è pineo di erorri tu cmoperndi lo setsso csoa ti sto scrinvedo. Preché? Pecrhé la mtene unmaa è rcica e afsfacinatne più di una easagerta rigdiità che ptorebbe vincoarlla e ipomverirla.
    O no?
    “Il libro perfetto esiste solo nella stanchezza o nel divino”. Questa citazione di Borges (mandata a memoria, quindi sicuramente fallace) me la ripete spesso una editor amica mia. Che non ostante (“non ostante”, staccato. Arcaico, ma a me piace così!) continue revisioni trova sempre refusi nei testi poi pubblicati.

    Franz,
    sei una adorabile carogna. Ma questo te lo spiegherò magari in un altro momento, fra di noi. Salutami chi tu sai. Comunque fai bene a ricordare “Jackie Brown”. Ottimo film, poco citato. (ma è Leonard, in questo caso, che fa parlare i protagonisti di Tarantino).

    Helena,
    in un non bellissimo cartone (“la spada magica alla ricerca di Camelot”) Re Artù dice qualcosa tipo: “a ognuno a seconda dei suoi bisogni e da ognuno a secondo delle sue possibilità.” Sapete cos’è? È, parola per parola, l’orizzonte socialista previsto nella “Critica al programma di Gotha” di Carl Marx. GIURO!!!!
    In un altro (Fievel e salamadonna, adesso non ricordo) i poliziotti pestano a sangue i manifestanti. Da quand’è che non vediamo uno “sbirro” cattivo in un film americano?
    E Matrix (e non solo) sbeffeggiato in Schreck?
    L’avete visto Alla ricerca di Nemo? (spettacolare, ad ogni scena un’invenzione). Avrete citazioni continue al miglior cinema di tutti i tempi (altro che Tarantino), parteciperete all’idea di una giusta fuga da una prigione e anche come la plebe, unita, possa soverchiare i potenti (e molte altre cose ancora). E tutto questo poi lo devi spiegare a tuo figlio. Fantastico, no?

    Vi adoro, al prossimo anno, Gianni

  20. Franz (chi sei? incomincio a odiare i nomi di battaglia), potrei avventurarmi in sofisticate considerazioni sulla tarantinizzazione di quel prodotto televisivo (banalizzazione, nascondimento, digressione come via maestra, apoteosi della futilità, anticlimax, crudeltà inconsapevole) ma quello che mi fa saltare di gioia è il sorriso di Tim R. e il suo sculettar via con la mancia arraffata a velocità fumettistica. Come si può rimanere indifferenti di fronte a quest’uomo che si snoda come un cartoon? So che queste argomentazioni assomigliano a quelle dei sostenitori di KB, ma non posso farci niente.

  21. Elio,
    Franz esite, te lo assicuro, e io sono il suo profeta! L’ho toccato con mano e mi ha pure offerto una bibita, in un tardo pomeriggio milanese. Anche solo per gratitudine mi permetto di rispendere per lui.
    Non è colpa sua se ha un nome che sembra un nickname. E ti dirò: c’ha persino una zucca che frulla!
    Tim Roth ha una adorabile faccia da schiaffi, hai ragione.

    alla prossima, Gianni

  22. Gianni, con ‘sta storia dei cartoni animati mi stai facendo venire i sensi di colpa perchè non ho figli e non tengo nemmeno famiglia… Grazie per l’adorabile carogna, sei un vero amico!…

    Elio, mi chiamo proprio così, non ci posso fare niente, colpa dei miei. Io quel Tim Roth che descrivi lo trovo una rottura, ma per carità (lo dico senz’ombra di ipocrisia)i gusti sono gusti.
    Mi ritiro in buon ordine,

    cari saluti a tutti,
    Franz

  23. Gianni,

    Mi spiace, “Nemo” non l’ho ancora visto. Vogliamo parlare delle elefantesse pettegole di “Dumbo”? Un film micidiale sull’esclusione dell’altro e come la diversità-monstre possa, in società tipo quella americana, essere perdonata SOLO dal successo (cioè dalla riuscita del suo sfruttamento). E i lavoratori neri di cui, a differenza degli animali, non si vede mai il volto (il famoso razzismo disneyiano, ma è leggibile anche contropelo)?
    Giuro che con questa chiudo il cartone dei cartoons. Comunque, Franz, perché non ti vai a vedere Nemo per i fatti tuoi?
    Scusate se su Tarantino non mi pronuncio: non sono mai stata una sua vera appassionata – mi interessano di più Lynch, Ferrara, sicuramente i citati Jarmush e Kitano – e Kill Bill non l’ho ancora visto.

  24. Ciao Helena,quando trovo qualche amico che vuole vedere Nemo ci vado. Non mi va di andare al cinema da solo!:-)
    Buon anno,
    Franz

  25. uhm, non mi è venuto bene il link, comunque fate copia incolla del suo nome nella casella autore del motore di ricerca.

  26. Grazie, Andrea per il molto bravo, davvero! Se volete sapere chi sono potete anche digitare il mio nome (se ci riuscite, anche io a volte sbaglio, più che altro col cognome) su un motore di ricerca tipo Google.
    Altrimenti potete chiedere direttamente all’amico Gianni Biondillo…
    Ciao ragazzi, se non ci rileggiamo auguro a tutti un eccellente 2004!
    Franz
    Ps.: Helena, me lo fai un sorrisino, una volta?
    :-))

  27. Aber klar, Franz. Guarda però che – appena ci riesco – cercherò di dire qualcosa di assai cattivo su Lars von Trier.
    Scusate, ma Pinketts ‘mo che c’azzecca?
    In ogni caso, buon anno a tutti.

  28. Ciao Elio, te lo saluto senz’altro. Stamattina, tra parentesi, quel matto di Pinketts mi ha telefonato alle 9.00, ero andato a letto alle 3.00, non sapeva che diavolo fare… Si, per citare un vecchio film di Claude Sautet (che regista, secondo me!), il vecchio Pink è “simpatico ma gli romperei il muso”, soprattutto quando chiama la mattina presto!
    Un caro saluto.

    Liebe Helena,
    alles klar Frau Kommissaerin! Ti prego, non strapazzare troppo il vecchio Lars, non è poi così male, è pieno di fobie, mi sa che non se la vive tanto bene. Pinketts c’azzecca perchè ci conosciamo da un 25 anni, abbiamo fatto un anno e mezzo di liceo assieme. Poi a lui l’hanno espulso e a me hanno dato 4 materie a settembre. E a settembre m’hanno bocciato per la seconda volta. E’ proprio come appare in tivu, matto come un cavallo ma buono come il pane.
    Un caro saluto.

  29. ma no, dai, non scrivere cazzate, Don Juan, fa il bravo ragazzo… Il problema di Agenore Pinketts è che si ripete troppo, troppo seriale, e da troppi anni. I gusti sono gusti, va bene, però definirlo cane è… va bè, lasciamo perdere.
    Pinketts dovrebbe provare con qualcosa di nuovo. Ma senti, visto che lui è un casanova, non è che sei in competizione con lui?…

  30. Mi sa che fa come Frank Sinatra, ogni tanto non beve; e magari si ficca in bocca un chewing gum…

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Ammazza che puzza, aho!

di Alessio Spataro

Il tempo di una foto

di Hyppolite Bayard Louis Pierson, Ritratto della Contessa Castiglione e suo figlio, 1864 C’è il tempo interno dell’immagine e...

Le forme imperfette del turismo della luce

di Christian Raimo Che cos’è che volevi dimostrare? Lo spacco sul labbro che continua a restituire sangue a chi non ricordava...

Martina si allena

di Marco Mantello Dal girone dei folgorati all’aureola dei precipitati dalle tegole di un capannone ai piallati, agli schiacciati sotto macchine troppo nervose per...

Hippolyte Bayard, un meraviglioso blog di fotografia

"... la fotografia non ha bisogno di essere garantita da qualcuno: la garanzia che quello che mostra è "vero"...
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