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Dell’esperienza personale del sublime

di Alessandra Lisini 

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Prologo

Nell’era della riproducibilità tecnica dell’amore, in cui le persone vengono prese e messe a innamorarsi di fronte alle telecamere, R. ha smesso di crescere da qualche settimana, a smettere di allungare di corpo e membra e ha consolidato quello che da tempo per me e sua sorella è lo sguardo di rimando, una breve serie di occhiate casuali e ripetute, che si stabilizzano in un’osservazione pura, che prelude a niente, né allo scherzo, né all’esca di una carezza o di contatto fisico. Il tempo per il contatto è in altri momenti e ha reso il nostro un rapporto ombelicale e parietale, nonostante l’ovvia distanza dovuta al fatto che non sia un figlio vero, ma adottato.

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Penso spesso, mentre questo rapporto si definisce e mi deforma la vita, che siano le condizioni artigianali dell’amore a condurre verso livelli sempre più rarefatti di percezione, e di percezione dell’amore. E che se questo esiste, cosa di cui da lungo tempo vado dubitando a causa di un’intuizione puramente linguistica, non possa corrispondere a nessuna delle forme cristallizzate da millenni, in matrimoni combinati, convivenze familiari, dipendenze affettive e accoppiamenti sul ciglio della strada, felici o infelici; che abbia a che fare invece con la nostra capacità di percezione del sublime.
 

Per una teoria quotidiana della mimesis
La distanza che separa l’uomo dallo stato bestiale e la bestia dallo stato bestiale non mi pare più una distanza progressiva e quantitativa tra lo stato ctonio e una qualsiasi cultura, sia essa tribale o industriale; è una distanza da guadagnare a grandi salti di stato, tra i crepacci dell’isola di King Kong e i cavedi di vuoto tra un grattacielo di Manhattan e l’altro; la bellezza, penso, ora che R. si è addormentato e sembra ancora più lungo che da sveglio, è nata sulle pareti di quei crepacci, smateriando le cose, grattando via strati geologici di canone e artifizi ma anche, dall’altra parte della gola, facendo a meno dell’ostinazione alla sopravvivenza, del possesso, della paura, aggiungendo gesti a materia a gesti, contemplando il risultato. Mi dico che è proprio bello, e che se ha smesso di crescere è perché è giunto il momento di irrobustirsi.
E come nell’arte il sublime si percepisce e fruisce nell’incontro tra lo sguardo e la dimensione artigianale, qualcosa che mimi, ricordi il gesto creativo, ricordi la materia mentre la modella, così tra viventi esiste una comprensione e condivisione che prende forma col tempo, nell’irripetibilità dei singoli gesti e nel tentativo infinito di ripeterli, nell’aura del contatto fisico quotidiano.
Mentre io guardo il film e loro dormono, l’una di schiena a me, puntandomi una o due delle sue vertebre contro i lombi a stabilire il contatto, l’altro col capo totalmente abbandonato sul mio cuscino e io fisso lo schermo nell’incertezza che tutte queste carezze, queste conversazioni accennate e perfezionate che giorno dopo giorno io e loro ripetiamo siano una fallacia consolatoria e palliativa che oppongo al timore di una morte che comunque avverrà in solitudine, al tramonto sull’oceano Kong utilizza uno dei gesti espressivi che già conosce, il battersi il petto, ma modulandolo, ovattandolo, mimando il battito dove c’è già un battito: Kong che percepisce il sublime e tenta di fare qualcosa, riprodurre l’avvenuta percezione della bellezza con qualcosa che assomigli all’espressione della potenza e della forza, non essendo tuttavia né l’una né l’altra. Così, alla vista del ramo di un albero stagliarsi sul cielo di alta montagna Kant non potè né gridare né fotografare, e mimò la sua percezione in molte pagine di scrittura filosofica. Mi commuove vedere Kong battersi il cuore, non per empatia, perché io ricordi di avere  visto  paesaggi incontaminati di pari bellezza o perché antropomorfizzo i sentimenti di un primate, ma per accresciuta conoscenza, perché fortunatamente un altro gesto descrittivo (quello filmico) si è sovrapposto a quell’esperienza e lo ha fatto in maniera misurata, felice.
 

Einfühlung vs. mimesis
La mia carezza ai due che ora dormono e la fissità di sguardi che ci scambiamo ad ogni  risveglio diviene la mia esperienza di bellezza e di sublime. Non pretendo che questo amore sia universalmente riconosciuto, ché se non passa è per colpa dei tornanti dolorosi del mio discorso e della sua incapacità di dipanare l’erfahrung dall’erlebnis. Ci sono genitori che fondano il rapporto coi propri figli su altre basi. Amanti che condividono realtà altre dalle mie. Forse anche perché condividere immediatamente l’esperienza del sublime è impossibile. Forse perché è preferito il canale dell’empatia a quello della ricerca del sublime, nel rapporto tra creature. E perché troppi canoni si sovrappongono a questi nostri rapporti, trascinandosi dietro strutture d’inciampo. In “Soap”, film presentato al Festival di Berlino 2006, Charlotte e Veronica passano per ogni genere di rapporto strutturato, ogni genere di conversazione, da quella di buon vicinato, alla scortesia, dal contatto fisico alla rivelazione di un segreto. Sullo sfondo, i codici dell’amore, i dialoghi rassicuranti delle soap, e inutili; per chi ha già infranto un qualunque manuale d’amore, l’incontro si complica, la condivisione si fa vetrosa. L’empatia nel loro rapporto è solo un passaggio, non quello fondamentale. Il gesto fondamentale è quello in cui entrambe riconoscono il sublime, l’avere a portata di mano l’infinito qualcosa e non poterlo raggiungere, accontentarsi di contemplarne la presenza una accanto all’altra, la capacità di sopportare la differenza, di osservare con stupore che non tutti i gesti sono ricambiabili e che i segreti a volte mantengono la promessa contenuta nel loro nome, altre volte restano muti. La comprensione di questo passaggio di stato è indiretta, mediata dal paradossale, ironico inserimento della storia, in sè così poco banale, così poco cristallizzabile, in una cornice di rimandi soap.
 

“L’immaginata iè più verace della lampa”
Kong si batte il petto e Ann risponde riconoscendo “Yes, it is beautiful”. Ma quando sarà il momento di farlo capire al mondo, senza mediazioni, nessuno sarà capace di pensare anche che tra la bestia e la bella/bellezza ci possa essere stato un incontro e che sia stato un incontro di verità, di sublime, e d’amore. Il mondo ragiona in termini di: che bello, io sento quello che senti tu, non di scusami io non so cosa tu provi ma guarda, guardo nella stessa direzione. Ci vuole sempre un’ulteriore operazione mimica, per fare cogliere il sublime. King Kong è un buon esempio di come il cinema possa consapevolmente caricarsi sulle spalle la potenza del medium, in quanto film sul (gesto di fare) film e perché ha la caratteristica di essere riuscito a più livelli; non importa cosa noi cogliamo, se la grandezza degli effetti speciali, la commozione, la sceneggiatura, pare importi che stiamo lì a guardare nella medesima direzione, di fronte a uno schermo, alla sua immagine, visto che stavolta lo schermo sopporta di essere un gesto e un mezzo al sublime.
Così comprendo l’esperienza di Kant: il suo personale gesto mimico, la critica estetica, mi fa passare chiaramente l’idea che quel paesaggio sia unico e irripetibile, che la sua esperienza/esperibilità è speciale e solitaria, fondamentalmente incondivisibile. Nessuno comprenderà il dolore di Ann quando Kong precipita, se non lo spettatore; l’abbraccio di consolazione dell’innamorato è empaticamente potente forse ma ironicamente lontano dalla vera condivisione dell’esperienza di quell’amore e di quel dolore. Dov’era il mondo quando Kong e Ann si sono amati? L’amore dello sceneggiatore Jack Driscoll o di qualsiasi altro consolatore sarà qualitativamente paragonabile a quello di Kong? Nessuno si troverà nel mio intimo, quando vedrò i fratellini che si sveglieranno l’uno dopo l’altro per giocare alla sopravvivenza, in cucina. Probabilmente nessuno vorrebbe essere lì, a vedere, perché nessuno sente quello che sento, ciò che rende la mia esperienza banale, poco interessante. “Non voglio saperne niente”, esclama il compagno di Charlotte fraintendendo il rapporto tra le due e pronto a dimenticare la deviazione pur di  seguire un suo vecchio schema. “Si prenda cura di Ulrik”, chiede la madre di Veronica-Ulrik a Charlotte, fraintendendo anch’ella il loro rapporto e chiedendo a Charlotte di ripetere l’unico rapporto che conosce, quello che si fonda sul sentimento che gli altri possano star bene esattamente come staremmo bene noi. Nel tempo in cui uomini e donne si incontrano pubblicamente sotto il riflettore e dietro al filtro mediatico sottile e smagliante della ripresa televisiva, non si vuole sapere più nulla; si prova comunque a sentire e far sentire; storie d’amore e di sublime come quella di Kong sono eccezionali.
 

Sopravvivere
Empatia come palliativo per l’incomunicabilità: non ci capivamo più,  non sentivamo più la stessa cosa. Ma se l’amore è una delle parole più pronunciate e scritte, e tutti suppongono di averne bisogno, siamo poi certi che sia questa empatia ciò di cui un amore ha bisogno e che la vera comprensione passi da un comune e presunto sentire? Che genere di empatia avrebbe potuto esserci tra Kong e Ann? Kong è uno scimmione enorme, il suo cuore avrà un volume almeno pari a quello di Ann intiera, hanno avuto quella che si dice un’educazione diversa, una vita diversa e pure si riconoscono soltanto dopo che guardano lo stesso paesaggio. Fino a quel momento si erano guardati, sì, sguardi serviti al gioco delle parti. L’amore, l’unico possibile, comincia quando i loro occhi vedono la stessa cosa, Ann cessando di avere paura, Kong sedendosi, smettendo di mugghiare. Il loro rapporto in senso classico femmina-debole-ma-poi-chissà-che-risorse-tira-fuori-e-che-trucchetti-ammaliatori e maschio-forte-che-salva-a-cui-dire-grazie finisce lì, davanti al panorama: una persona alla volta al centro, non due, la visione. Il gesto-visione, l’immaginata appena prima del limite, il sub-limen. 
Tutt’altra cosa rispetto a quando ci si illude di condividere le esperienze degli altri, magari attraverso un’educazione sentimentale. Questa costruzione di schemi, utile a creare un sistema di riferimento di massima e a permetterci di dispiegarci in esso, che nei secoli cambia e tuttavia incapretta le aspirazioni,  sta da sempre mimando goffamente la potenza dell’istinto alla procreazione e alla sopravvivenza. Una mimesi tanto maldestra che non riesce a raffinare le capacità di conoscenza e di vera sopravvivenza, quella a noi stessi. Il sublime, impastoiato in procedure, formule, in cosa succede al terzo appuntamento, nei proverbi di moglie e buoi, prendi una donna trattala male, dei no che aiutano a far crescere i figli, i nostri, quelli degli altri, potrà essere ancora conosciuto? C’è davvero solo bisogno di questo, di tutte queste immagini in sequenza, di queste scalette d’esperienza? Di queste prove di cui si conosce il risultato, gente che si alza dalla sedia per andare a sedersi sulle ginocchia di un altro, farlo ballare, innamorare, diventare famoso, lasciarlo. Vogliamo vedere all’infinito le immagini della nostra vita o desideriamo incrociare gli sguardi di qualcos’altro, di qualcosa altro da noi? I fratellini si svegliano entrambi, si distendono e mi puntano gli occhi addosso, uno dopo l’altro, la soglia dello sguardo a cui sorrido. Uno dei due arriva a sbadigliarmi in un orecchio sempre guardandomi, ostinato, sulla soglia. Fleba il Fenicio vide in punto di morte una rassegna di tutte le immagini fondamentali della vita, mentre veniva risucchiato in fondo al mare. Dubito che Kong, precipitando dal grattacielo, in un mondo che gli era estraneo e pure ugualmente bello, abbia passato in rassegna niente. I suoi ultimi sguardi, fissi sulla bellezza, sono stati ricambiati; pur di salvaguardare l’incontro con il sublime, per non vedere altro, li ha serrati, spalancandoli su quell’immagine, accelerando verso il suolo.
 

 

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5 Commenti

  1. “Così, alla vista del ramo di un albero stagliarsi sul cielo di alta montagna Kant ”

    per Kant il sublime non ha niente a che fare con la percezione della bellezza

  2. pezzo “sublime”, bravissima alessandra (ma temo che il turibolo della pura erlebnis cominci ad ardere già dalla prima infanzia).

  3. mi vedo in quel kong.
    il kong che precipita un po’ un preludio al massacro dei gorilla,
    un po’ il preludio allo sfacelo delle discendenze.
    l’appartenenza scimmiesca vista dal tuo sguardo di donna- parlo alla scrittrice di questo notevole pezzo che secondo me è stato trascurato immeritatamente, ma è opinione mia – mi rappacifica un poco quando dici si ama se si vede la stessa cosa.
    diciamo che hai dato uno stop alla mia acidità ultimamente dilagante.
    il tuo decostruire e reimpiantare questo viaggiare fluire compararsi attendere illudersi d’amore attraverso una sensibile geometria illogica – tutto ciò che è subblime è per me di un’illogicità totale – è davvero un bel leggere.
    sarà che dietro ci vedo il pensiero di quelle femmine custodi dell’utero terra, ci vedo le mani di scrittrice che non ama le luci appiccicose dell’ipocrisia salvifica.
    ci vedo un apprezzamento della schizofrenia in quanto portatrice di logos primordiale.
    ci vedo troppo. forse. ma mi piace il pezzo così ballo un po’.
    esageratamente.
    mi scuso per eventuali insensi
    saluto
    paola

  4. @alessandra Lisini direttamente

    sarei onorata di linkare questo tuo magnifico pezzo sul mio blog ma non so se vorrai essere ospitata tra anatomie in cera e lavatrici di ossa.
    fammi sapere, ci terrei.
    paola

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