Articolo precedente
Articolo successivo

Schiuma hard-core

una tavola del Necron di Magnus di Mauro Baldrati

C’era un tipo – lo chiamavano Faustone – che conoscevo al paese, prima di emigrare a Roma per lavorare al giornale. Era un uomo di circa trent’anni, altissimo, sarà stato due metri e dieci, con una grande testa di capelli neri voluminosi e due mani enormi, due mazze che avrebbero atterrato un bue.
Era un personaggio mitico, era stato sposato con una ragazza bellissima, molto alta anche lei (circa un metro e novanta), magra, nervosa, atletica. In un paese dove l’altezza media delle persone era di un metro e sessantacinque, loro due formavano una coppia che suscitava sconcerto, e, forse, ammirazione e invidia. Il matrimonio comunque durò meno di sei mesi, perché lei, un giorno, fu ricoverata in ospedale per le percosse ricevute. Almeno così si diceva, e la cosa mi stupì, perché ho sempre considerato Faustone un tipo generoso, un buono, sempre disponibile verso gli altri.

Con Faustone talvolta andavo in una vecchia casa abbandonata sperduta nella campagna a sparare con una 44 Magnum, la gigantesca pistola dell’ispettore Callaghan. Non so dove avesse trovato quel cannone, né quale uso intendesse farne, a parte il tiro a segno con bottiglie, sagome di legno, angurie (che colpite dalle grosse pallottole camiciate in rame esplodevano come bombe tra schizzi di semi e polpa rossa); chi non ha mai provato a impugnare e a premere il grilletto di un’arma simile non può neanche immaginare la potenza dello sparo, e il rinculo che rischia di scaraventarti la pistola sul petto, se non viene stretta a due mani, con forza e concentrazione.
Poi mi trasferii a Roma e ne persi le tracce. Quando tornavo al paese però, circa una volta ogni due mesi, mi capitava di vederlo in giro per il viale alberato. O meglio, non in giro, ma sulle panchine, seduto con qualche altro perdigiorno come lui (era un operaio in cassa integrazione perenne), oppure sdraiato su una panchina, troppo corta per lui, coi piedi fuori, addormentato, indicato a dito dai cittadini che dicevano che era diventato un drogato e uno spacciatore.
Un giorno che passeggiavo per il viale sentii il suo inconfondibile vocione che mi apostrofava. Mi girai e lo vidi, seduto a gambe larghe sul marciapiede che correva lungo il palazzo della ferramenta. Mi chiamava agitando un braccio. Mi avvicinai, gli tesi la mano e mi sedetti accanto a lui.
“Oi sei te” disse, “è da un po’ che non ti si vede”.
“Già” dissi, e intanto scrutavo il suo volto: gli occhi erano infossati in due profonde occhiaie scure e la pelle era come incartapecorita. I capelli erano scarmigliati, in disordine sulla fronte lucida, e gli abiti sporchi e stazzonati. Sì, erano segni inequivocabili della deriva nell’eroina.
“Be’, dimmi una cosa, è vero che lavori là in quel giornale di scoppiati?”
Nella parola scoppiati c’era un che di ironico, dubito che avesse mai letto la rivista. Probabilmente ne sentiva parlare in giro. “Sì” confermai.
Seguì un silenzio. Ci guardavamo intorno con aria distratta, osservavamo i cittadini, sempre gli stessi da una vita intera, che transitavano sul viale, a piedi, in moto, in bicicletta, in auto.
“E tu?” domandai. “Spari ancora con quel pistolone?”.
Faustone sospirò. “Uh. L’ho venduta”.
Aveva venduto la Magnum. Sull’uso del denaro ricavato non avevo dubbi.
“Bah” disse con tono spavaldo, “comunque adesso uso un altro pistolone, ah-ah”, e si portò la mano al cavallo dei pantaloni. Lo guardai con aria interrogativa. “Sì, questo pistolone qui” disse, toccandosi l’inguine.
“Buon per te” dissi.
“L’hai detto. Lo ficco tra le gambe delle azdore sposate”.
“Ah” dissi, sorpreso. Non avevo mai sentito Faustone parlare di sesso. “Così hai delle amanti sposate?”
Scoppiò a ridere e si perse per qualche secondo in un accesso furioso di tosse. “Amanti?” disse, quando la tosse si fu calmata. “Diciamo pure amanti. Io me le sbatto mentre il marito è lì che guarda”:
“Ma no” dissi, sempre più sbalordito.
“Oi! Tu non immagini. C’è tutto un giro, a Lugo, a Ravenna, a Faenza, di coppie depravate che cercano degli stalloni. Dicono proprio così gli annunci: cercasi stallone, massimo quarantenne di bell’aspetto. E io non sono di bell’aspetto? Argh-argh! Poi ci sono alcuni mariti che lo vorrebbero prendere nel sedere mentre lo fanno con la moglie. Insistono, mi pregano ma io quella cosa lì non la faccio”.
La mia mente aveva già iniziato a lavorare alacremente. Ero sempre alla ricerca di spunti per qualche servizio, e già qualcosa si stava configurando. C’era una rubrica, inventata dal direttore, che si chiamava Schiuma. Era un contenitore onnivoro dove inserire qualunque storia strana, storie pesanti, storie perverse, ritratti di personaggi. Io avevo fotografato nuda Jo Squillo e il servizio – corredato da una intervista – aveva avuto un successo clamoroso: un mese dopo la rock-spaghetti in topless era finita in copertina a Stern. La vicenda di Faustone sembrava perfetta. Mi chiesi, ma una sola volta, senza angosciarmi, se era tutto vero. In realtà il problema non si poneva. In Schiuma i personaggi parlavano in prima persona, il giornalista non faceva che trascrivere il testo (era uno stile che in seguito venne copiato da alcuni grandi giornali per le interviste). Era dunque un racconto, e la responsabilità era tutta di chi raccontava. Non da un punto di vista giuridico, ovviamente, ma a noi non importava un fico secco dell’aspetto giuridico.
Gli chiesi di raccontarmi tutto, con dovizia di particolari. Faustone, che sembrava non aspettare altro, si lanciò in una lunga storia che aveva come asse portante un sistema di annunci – espliciti sulle riviste specializzate e in codice sui quotidiani – coi quali le coppie comunicavano con gli “stalloni”. Si vedevano nelle case, parlavano, bevevano, alcuni avevano anche della coca; poi la moglie si spogliava, e così via.
“Ma ti pagano?” chiesi.
Faustone rovesciò indietro la testona, ma il gesto fu troppo brusco e sbatté violentemente contro il muro. Bestemmiò a lungo, massaggiandosi la nuca.
“Delle volte. Dipende. Se la moglie è buona lo faccio anche gratis, però voglio un po’ di roba”.
Non indagai sulla “roba”, se intendeva coca o ero. Comunque la storia era già scritta nella mia testa. Non ho mai registrato le interviste, perché non ero bravo in questa attività, mi confondevo; però mi imprimevo a fondo nella mente il parlato del soggetto ed ero in grado di restituire con precisione le frasi. E poi in Schiuma c’era grande libertà di stile, se necessario si modificava, si riscriveva.
Stavo per proporgli l’idea dell’intervista, ma prima volevo parlarne col direttore, perché c’era un aspetto importante da chiarire.
“Faustone, ti va una birra?” chiesi. “Vado al bar e ne prendo un paio.”
“Volentieri” disse.
“Allora aspettami qui. Non ti muovere, d’accordo?”
“E chi si muove?”
Attraversai il viale ed entrai nell’enorme bar della sezione del P.C.I., che a quell’ora del pomeriggio era semivuoto. C’erano solo un paio di tavolini occupati da pensionati che giocavano a carte. Andai verso la cabina del telefono e chiamai il direttore. Per fortuna lo trovai in redazione. Quella storia andava definita subito, chissà che fine avrebbe fatto Faustone l’indomani. Il direttore mi ascoltò attentamente, poi, a racconto ultimato, restò qualche secondo in silenzio a meditare. “Uhm, si può fare” disse.
“Però c’è un problema” dissi.
“Che problema?”
“La foto. Non credo che accetterà di farsi fotografare.”
Altro silenzio meditativo. “Be’, questo è vero. Allora perché non gli fotografi… vediamo… il bacino?”
Geniale! Non ci avevo pensato. Non mi sarebbe mai venuta un’idea simile. Era forte, mentre un ritratto del viso in fondo sarebbe stato banale. Dissi che ci avrei provato. Stabilimmo la lunghezza massima del testo, lo salutai e riattaccai. Poi comprai due lattine di birra e raggiunsi Faustone, che intanto si era addormentato con la testa appoggiata al muro.
Stappammo le lattine e bevemmo una lunga sorsata. Quando la birra terminò Faustone era un po’ rinvigorito. La birra è sempre stata la bevanda preferita dei tossici, perché “tira su” l’ero quando inizia il terribile calo che fa cadere le palpebre e ciondolare la testa. Allora gli proposi l’idea: un’intervista sulla sua storia, e una foto. “Ma non una foto non del viso, perché… non ti andrebbe, giusto?”
“Oh” disse, guardandomi con tanto d’occhi. “Guarda, non me ne fregherebbe proprio un cazzo. Che me ne frega di questi qua?” e indicò con una mano il viale. “Che me ne frega di questo branco di contadini sfigati pieni di soldi? Però c’è mia madre che… insomma diventerebbe matta.”
“Appunto” dissi. “Allora ho quest’idea: ti fotografo il pistolone”.
Glielo dissi con assoluta nonchalance, come se fosse la cosa più normale di questo mondo. D’altro canto per noi tutto era normale, non esisteva nulla di troppo hard, nulla di sconveniente. Avevamo addirittura pubblicato un Manuale del killer professionista che insegnava come uccidere un uomo, un’iniziativa ironica e provocatoria che aveva provocato furiose polemiche e anche una denuncia con relativo sequestro delle copie.
Faustone scoppiò a ridere. “Cosa? Vuoi dire che mi fotografi… l’uccello?”
“Proprio così”.
Continuò a ridere, ed io ero un po’ preoccupato, perché quell’eccessivo uso di energia della risata poteva accelerare un calo micidiale della droga e farlo crollare.
“Oi, ma allora è vero, siete proprio una manica di scoppiati!”
“Scoppiatissimi” dissi.
Forse questa battuta gli piacque, oppure lo intrigava l’idea provocatoria, un sasso nello stagno culturale del paese. “Tanto lo sapranno tutti che sono io, ah-ah!” Accettò.
“Bene, allora andiamo. La facciamo a casa mia”.
“Ma come, adesso?”
“Certo. Perché rimandare? E poi domani devo tornare a Roma”. Era vero, ma il motivo era un altro: uno come Faustone si sarebbe perso dopo poche ore, oberato dai problemi della roba, dall’astinenza eccetera. Impossibile stabilire un appuntamento per il giorno dopo. O subito o mai più.
Ci alzammo e andammo verso la mia vecchia Reanult 4.
“Hai ancora quella cinquecento?” chiesi. Lui, un gigante, affermava di trovarsi bene solo con la macchina più piccola del mondo.
“L’ho venduta” disse.
“Ah. E il vespino?” Era buffo Faustone in sella a quel piccolo scooter, sembrava un enorme cavaliere mongolo in groppa a un pony.
“Ho venduto anche quello. Che me ne faccio? Abito a cento metri da qui, e non c’è nessun altro posto dove andare”.
Arrivammo alla mia casa semidiroccata, dove al piano terra, in una stanzona, viveva la mia vecchissima nonna. Salimmo al primo piano, nell’appartamento quasi privo di mobili dove avevo vissuto quando abitavo al paese, e lo feci piazzare di fianco alla finestra del piccolo soggiorno. Presi la Polaroid SX 70, una macchina di gran moda a quei tempi (tutti gli artisti di tendenza si esaltavano e scattavano centinaia di foto con la SX 70) e mi piazzai a circa due metri da lui, in ginocchio. “Ok” dissi. “Allora giù i pantaloni e le mutande”.
Forse ebbe un breve attimo di incertezza, ma se ciò avvenne lo dissimulò perfettamente. Invece lanciò un’occhiata preoccupata alla finestra e disse: “tira ben giù la tapparella, che se ci vedono i vicini ci prendono per due culattoni”.
Ecco un pensiero che non avrebbe mai attraversato la mia mente. Ero unicamente concentrato sulla foto. Finché la polaroid non usciva dal carrello della macchina il servizio sarebbe stato inutile.
“Dai, sono pronto” dissi quando ebbi abbassato la tapparella e inserito i piccoli flash a torcia sulla SX 70. Allora Faustone, con gesto deciso, si calò i pantaloni e le mutande e rimase col batacchio che dondolava tra le cosce pelose. E qui, mentre inquadravo il suo organo genitale, fui assalito da una tremenda, irresistibile crisi di riso. Vidi me stesso chino con una macchina fotografica di fronte a un gigante tossico coi pantaloni calati e mi venne in mente la sua frase: “siete proprio una manica di scoppiati”. Chi era più scoppiato, io o lui? Nascondendomi dietro la macchina riuscii a non esplodere in una risata che sarebbe stata molto imbarazzante, perché l’avrebbe fatto sentire ridicolo, preso in giro; in realtà non volevo affatto prenderlo in giro, mi stava semplicemente offrendo una storia strana, un storia forte, estrema, che era ciò che cercavo. Però vedevo la scena da fuori, come se fossi un insetto che volava nella stanza: io inginocchiato, lui col batacchio a penzoloni, era impossibile resistere. Scattai cinque foto tutte uguali, con l’unico scopo di ripararmi dietro la macchina e reprimere la risata che mi toglieva il respiro.
Alla fine riuscii a calmarmi e guardammo le foto. Erano abbastanza inquietanti. Perfette.
“Certo che se era un po’ duro era meglio” disse Faustone prendendosi in mano l’arnese e squadrandolo con aria critica. “Solo che qui… non ce la faccio mica a indurirlo. Non ce l’hai un giornale porno?”
Dissi che non l’avevo. “Vanno bene così” dissi.
“Se lo dici te” disse.
Ci sedemmo al vecchio tavolo rotondo, che proveniva dalla sede della radio libera che avevamo fondato cinque anni prima, e rollai una canna di ganja romagnola coltivata in un luogo segreto sull’argine del fiume Reno. Faustone fece un paio di tiri, ma senza entusiasmo. I tossici sono indifferenti al fumo. Erba ed eroina appartengono a razze diverse, non hanno nessuna interazione. Un tossico neanche la sente l’erba. L’eroina richiede l’alcool, il parente stretto che la rinvigorisce quando perde potenza.
“Devo andare” disse Faustone alzandosi. Ebbi la netta sensazione che stesse diventando nervoso. Probabilmente aveva bisogno della dose serale. “Devono passare a prendermi per andare a Ravenna per un certo businness”.
Riposi le polaroid in una busta e scendemmo le scale. Non staccai il contatore della luce. Quando tornavo al paese non dormivo nella mia casa, perché c’era polvere e abbandono, ma dai miei genitori. E poi la mia vecchia nonna la notte svalvolava da matti, gridava, imprecava, sferrava bastonate sui mobili e non mi faceva dormire. Quella sera, però, volevo scrivere il testo dell’intervista, perché infuriava nella mia mente, e premeva per uscire.
Lo accompagnai sul viale, di fronte alla sua panchina preferita. Il tramonto si annunciava con la sua luce rossastra.
“Hai una sigaretta?” chiese, guardandosi intorno con insistenza.
“Aspetta qui” dissi. Andai alla tabaccheria, comprai una stecca di sigarette e gliele porsi.
“Vuoi che… stia con te?” chiesi, spinto da un improvviso senso di malinconia all’idea di mollarlo da solo su quel viale desolato.
“Che?” esclamò, guardandomi sorpreso. Gli occhi si erano arrossati, ed erano più stretti. La crisi iniziava a farsi sentire. “Ma no, tra un po’ arriva quel soggetto che mi porta a Ravenna. Be’, ti saluto” disse, e uscì di getto dalla macchina.
Lo guardai allontanarsi con passo frettoloso, la testa ciondolante sul grosso collo e la stecca di sigarette sotto il braccio. Dopo due secondi era sparito dalla mia vista. Chissà dov’era finito, in quel viale deserto privo di nascondigli.

Nell’immagine, una tavola del Necron di Magnus per gentile concessione degli eredi Raviola

Print Friendly, PDF & Email

12 Commenti

  1. Scrittura veloce e leggera senza abusi e senza inutili … primi piani; belli i momenti lontani dalla droga e dal sesso, la malinconia, i pensieri, la solitudine dell’uno e dell’altro… Belle le scene di vita di paese, la nonna che svalvola… e tu che ridi, perche’ diomio, come non ridere difronte ad una scena cosi?
    La inadeguatezza di Faustone, troppo alto, troppo grosso, troppo fatto…
    E
    pero’ volevo chiederti una cosa: scrivere di quegli anni equivale proprio sempre a scrivere di droga, di sesso senza amore? Di solitudine?

  2. Abbastanza stupito di non trovare commenti sotto a questo racconto, a parte questo, appena scritto di pap. Credo di sapere il motivo: leggendo qua e là mi viene da pensare che molti commentatori siano soprattutto interessati a questionare tra loro, polemizzare, discutere. Comunicare insomma, e non sul testo. Forse va bene così, è bisogno di comunicazione, che probably manca, o è carente, nella vita reale e la si scarica nel lit blog.

    Comunque sia questo racconto di mauro baldrus è strepitosamente maschile. Maschile, scrittura maschile, immagini maschili. Non è un difetto, ma uno stile di questo racconto. Forse è anche questo che vuole dire pap. Una certa solitudine, una certa durezza sono tipicamente maschili, maschilissime. C’è un mix di paradosso, durezza, malinconia, ironia, tutte caratteristiche che mi sembra anche di individuare nell’immagine. Ecco, e qui confesso un bel po’ di mia ignoranza fumettisticha: cos’è il Necron?

  3. Mi è ritornato in mente il vecchio Ranx Xerox…
    Difficile dire se Faustone sia più tragico o inconsciamente divertente. È uno per il quale le porte ad un certo punto si sono chiuse -e che non ha saputo decidersi ne’ per il di qua ne’ per il di là. In qualche modo ha accettato e poi dimenticato di avere accettato: tutto è divenuto così “destino”.
    Il racconto scorre -ma non su un piano inclinato costante. Riflette bene le nervosità dei personaggi, dell’ambiente, della storia. Riprende gli high e i down tipici di chi non ha più mediazioni col mondo se non attraverso la droga -il resto è un’alzata di spalle. Divertente comunque la figura (anche se ricalcata su un reale) del cronista/reporter/fotografo in cerca del servizio o di uno scoop che proponga qualche cosa di “forte” e che non può non sdoppiarsi nell’atto di dover fotografare non un volto-una storia ma un cazzo -bella la scelta di chiamarlo batacchio. Scrittura maschile, come dice Donovan? E sia. Al massimo constatazione, non limite. Mi piace questo tentativo di Baldrati di non cancellare, semplicemente dimenticandoli, dei personaggi che hanno crudelmente pesato sulla storia di una generazione.

  4. L’ho letto qualche ora fa e non scrissi nulla, qui, perchè di Baldrati ho letto di molto meglio;
    lo stile è corrente fluido, direi troppo normalizzato, però, qui,
    e la trama la storia decisamente mi butta giù, non mi va.
    De gustibus.
    MarioB.

  5. L’intervista la potete leggere tranquillamente sul numero 21 (agosto 1982) della rivista Frigidaire, all’interno della rubrica chiamata – appunto – “Schiuma”.
    Diciamo che in questo racconto Baldrati non fa altro che narrare come venivano svolte le “prese in diretta” della rubrica in questione – che tra l’altro era a suo modo geniale e non poco inquietante.
    Ah, quella invece con Jo Squillo nuda (più che altro a tette di fuori) sta sul numero 23, novembre 1982, della medesima rivista. Sembrerebbe dunque esserci un anacronosimo: la Schiuma su Faustone è antecedente, non posteriore, a quella su J.S.
    Sottigliezze del genere “curiosità”.

  6. per Donovan:
    Necron è un vecchio fumetto di Roberto Raviola, in arte Magnus, pubblicato, credo, a metà anni ’60. Fa parte del filone horror-splatter-grottesco che andava di moda in quegli anni. La protagonista è una biologa con gusti necrofili, che mette insieme un mostro con pezzi di cadavere (chiara parodia di Frankenstein) e lo usa per soddisfare i suoi gusti sessuali e per commettere ogni sorta di efferati crimini. E’ un fumetto a suo modo geniale, perché il segno pulito e raffinatissimo di Magnus carica le storie di una comicità paradossale.
    Magnus, per inciso, è stato il primo disegnatore di Alan Ford. Se non lo conosci, ti consiglio il bellissimo volume “Le femmine incantate” o le storie de “Lo sconosciuto” o de “La compagnia della forca”, o ancora il Texone che disegnò poco prima di morire, nel 1996. Un vero maestro.

  7. Grazie e tutti, piaciuti e meno piaciuti, voglio bene a tutti!

    Per pap una parola in particolare: non è che parlando di quegli anni equivalga sempre a trattare di droga e disperazione. E’ vero. Però io ho lavorato su questi segmenti, in una sezione di scritture che parlano anche d’altro. Attualmente sto mettendo fuori parti di questi segmenti di spazio-tempo diciamo: tracce importanti di estetica e di stili e di memorie di sopravvivenza li ha individuati bene maline mi sembra.

    volta, grazie per la piccola ricerca sui F. (Chissà che Paul Olden non la trovi). Sì, Jo Squillo è venuta dopo (però forse è stata pubblicata dopo, ma non è escluso che l’abbia realizzata prima). Non ho dato alcuna importanza alla successione temporale, non essendo proprio una cronaca.

    Mario B: mi ha colpito la tua frase “mi butta giù, non mi va”.

    Sergio, è proprio Necron querllo che hai descritto, porno-horror splatter, anche se la datazione è di un po’ posteriore: dovrebbe risalire infatti alla fine dei ’70 primi ’80, ed è impossibile non trovare collegamenti con Ranxerox, anche se su altri stili. Tra l’altro Magnus era uno dei miti supremi di Stefano Tamburini, che inventò il “Coatto Sintetico”.

    Donovan, scrittura maschile, va bene.

  8. Vedi Mauro,
    sarà che in questo periodo vedo brutte cose
    e ho bisogno di storie, cheneso,
    che mi diano un barlume di speranza,
    non dico consolatorie,
    vederci solo un po’ più chiaro,
    ma è questione di gusti di età e di stati d’animo…
    MarioB.

  9. Sì, Mario, è quello che avevo capito dalla tua frase. Succede anche a me talvolta, come una voglia di leggerezza e di luce nel buio e nel greve. In questo, credo, sei vicino a pap.

  10. E’ cosi’…avrei voglia di storie leggere, lucenti, di anche solo sprazzi di risa, di sorrisi, quei momenti che …come dire che se chiudi gli occhi li risenti, il silenzio del mare per esempio, rotto solo dal suo frangersi a riva, il caldo,il sole, le cicale…ragazzi che si innamorano della ragazzina con la gonna indiana, le ciabattine africane e i braccialetti di perline, amori di una sera, neanche di una notte, o di una magica estate, corse in bici o in moto, capelli legati con l’elastico, nuotate al largo via dagli sguardi delle mamme e delle sorelle e dei fratelli sempre troppi, sempre troppo li’…
    ma capisco che queste cose sono cosi’…cosi’ donnesche direbbe la moratti, cosi’ be’ cosi’non adatte.
    Pero’ Baldrus scrive bene, non c’e’ nulla da dire, scrive bene…
    ciao
    pap

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (4/4)

di Riccardo Valsecchi - @inoutwards 8. LA TERRA PROMESSA What happens to a dream deferred? Does it dry up like a raisin in...

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (3/4)

di Riccardo Valsecchi - @inoutwards RAZZISMO AL CONTRARIO Boston, Massachusetts. 29 maggio 1987. La partita tra i Celtics ed i...

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (2/4)

di Riccardo Valsecchi - @inoutwards ZEKE THE FREAK Quando nell’estate del 1979 il mitico Bobby Knight, dalla cui corte Bird...

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (1/4)

di Riccardo Valsecchi - @inoutwards “Dal momento che l’uomo bianco, il vostro “amico”, vi ha privato del vostro linguaggio sin...

Etan Thomas: We matter – racial profiling in USA

Da ragazzino, il basket era tutto per me. Per la verità, non avevo un gran talento, ma conoscevo ogni...

Tre incontri sulla letteratura elettronica a Genova

Fabrizio Venerandi, autore dell'ebook Poesie Elettroniche coedito da Nazione Indiana, terrà a Genova tre incontri a ingresso libero sul...
jan reister
jan reisterhttps://www.nazioneindiana.com/author/jan-reister
Mi occupo dell'infrastruttura digitale di Nazione Indiana dal 2005. Amo parlare di alpinismo, privacy, anonimato, mobilità intelligente. Per vivere progetto reti wi-fi. Scrivimi su questi argomenti a jan@nazioneindiana.com Qui sotto trovi gli articoli (miei e altrui) che ho pubblicato su Nazione Indiana.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: