Il lavoro fa male (mobbing 2)

di Mauro Baldrati

August Sander carbonaio berlinese 2929.jpgHo il camion rotto, stamattina non è partito. Il Carnivoro, dopo avere sbraitato “te Trapattoni, tutte le mattine ci hai un casino!” ha consultato il foglietto dei viaggi, ha scosso il testone e ha detto: “non ho neanche un camion libero. Va’ in cantiere a dare una mano”.


Gli autisti-cortigiani hanno ridacchiato. In cantiere a dare una mano: è lo spauracchio di tutti i camionisti. E’ dura, negli scavi. Si sgobba, ci si cuoce al sole, ci si congela nella nebbia invernale. E poi si è gli ultimi degli ultimi, senza uno straccio di prospettiva. I capicantiere, che non spostano un chiodo, si prendono tutto il merito e soprattutto intascano il premio di produzione. In cantiere si è pagati poco, non si avanza nella carriera, a meno di non fare parte di una delle mafie vincenti. Piuttosto che dare una qualifica a un operaio fuori dalle mafie i vertici della cooperativa lo lasciano morire d’inedia nello scavo. E questo vale anche per gli autisti e per gli operatori di ruspe, pale, scavatori. Il capobastone è Il Carnivoro in persona: o si è nelle sue grazie o si è destinati a sopravvivere in uno stato di inferiorità, senza mai avanzare di qualifica, fino alla pensione.
Salgo sul pulmino di una delle squadre in partenza. Sono tutti ferraresi e rovigotti, come la maggior parte degli operai del resto. Il capocantiere è Il Ranocchio, soprannome attribuito dal Carnivoro ovviamente, ma gli operai l’hanno cambiato in Il Rospo. Non so perché: non ha un volto rospesco, assomiglia piuttosto a una scimmia. Ma Il Carnivoro ha una visione tutta sua della fisiognomica, e nessuno si sognerebbe di metterla in discussione.
Il cantiere è a Mezzalega, un misto edilizia-infrastrutture. Per la verità la parte edile, la costruzione di un grande capannone industriale, è quasi terminata, ed ora si stanno completando gli impianti: gli allacciamenti, le canalizzazioni, i pozzetti.
Vengo assegnato allo scavo dell’Enel. Devo stare di fronte alla benna dello scavatore e controllare che non vi siano cavi o tubi che si potrebbero tranciare. Nessuno conosce esattamente i tracciati preesistenti dei fili della luce, o dei tubi del gas. Si procede a tentoni, e non appena c’è qualcosa di sospetto, un blocco di calcestruzzo per esempio, il manovale dello scavo, cioè io, va a controllare col badile o col piccone.
Dopo mezz’ora arriva il camion che deve caricare la terra che lo scavatore asporta durante lo scavo. E’ quel pellagroso dell’Ortolano. Si piazza di fianco al tracciato, sulla destra, a portata del braccio della macchina. Quello sfigato però non spegne il camion, e siccome la marmitta è a sinistra mi scarica in faccia i gas di scarico.
Cerco di attirare la sua attenzione, urlo “o’ scemo, spegni quel camion!” ma L’Ortolano, che si è subito stravaccato con la musica a tutto volume, non sente, o fa finta di non sentire. “Spegni il camion!” urlo di nuovo, sbracciandomi. Niente. Fa il sordo e il cieco. Mi avvicino alla cabina, caccio un pugno sulla portiera. L’Ortolano mi guarda coi suoi occhi piccoli, acuminati. Abbassa il vetro elettrico. “O’ Trapattoni che cazzo fai? Sei fuso?”.
“Sei fuso tu” grido, per farmi sentire nel frastuono dello scavatore, del camion e della musica di Gigi D’Alessio che esce dall’impianto stereo. “Spegni quel camion, ho la marmitta praticamente in bocca!” L’Ortolano sghignazza. “Urca, come sei delicato Trapattoni. Che cazzo spengo, lo scavo è piccolo, non vedi che mi devo fare avanti ogni minuto? Cosa vuoi, che abbia solo il da fare di accendere e spegnere perché te sei delicato?”
“Fai come cazzo ti pare! Io non posso respirarmi i gas della tua marmitta fino a sera!”
L’Ortolano ghigna, dice “Trapattoni, io dico che te sei troppo delicato per fare questo lavoro” e tira su il finestrino.
Sono schiumante di rabbia. Prendo una pietra, se non spegne il camion gliela scaglierò contro la cabina. E chi se ne frega se spaccherò il vetro. In quel momento arriva Il Rospo, che grida “ma che cazzo succede, perché lo scavo è fermo?”
Indico il camion con la mano che stringe la pietra. “Quell’asino dell’Ortolano non spegne il camion, guarda un po’ dov’è la marmitta!”
Il Rospo guarda il camion, lo scavo, guarda me. Non è un tipo bilioso Il Rospo, non perde mai la calma. Procede in silenzio, tiene un profilo basso. Ma intanto fa correre gli operai come matti, gli aspira il sangue, il midollo. Forse è per questo che Il Carnivoro l’ha chiamato Ranocchio? Si rivolge all’Ortolano, dice “e spegni quel camion, va là”. L’Ortolano tira giù i piedi dal cruscotto, abbassa il vetro e scaglia la cicca di sigaretta nello scavo. “Come faccio” dice, “devo avanzare ogni minuto. Cosa accendo e spengo per la bella faccia di questo qui?”. Il Rospo sbuffa, allarga le braccia. “O’ Trap, non puoi sopportare? Vedi pure che si deve spostare di continuo”.
Lascio cadere la pietra a terra. La rabbia mi è passata ma sono deciso a risolvere questa storia. Mi bruciano gli occhi e la gola con lo scarico del camion. “Perché non provi a scendere qui dentro?” dico. “Ho la marmitta in bocca, non vedi?”.
Il Rospo continua a lanciare occhiate allo scavo, al camion, fa la faccia lunga. Si gratta il mento, borbotta tra sé. Probabilmente sta imprecando a bassa voce. “O’ sentite, voi due, cercate una soluzione perché lo scavo non può fermarsi”.
Una soluzione. L’unica possibile è che L’Ortolano spenga il motore, ma non lo farà mai. E non avrà problemi con nessuno. E’ il superfavorito del Carnivoro, è un intoccabile, può fare quello che vuole.
“Senti un po’” dico, “non si può respirare questa roba, lo capisci? Se quello scemo non spegne vengo fuori dallo scavo. Poi fai quel cazzo che ti pare”.
Il Rospo guarda di nuovo lo scavo, guarda il camion, borbotta. Lo sento che bestemmia, che dice “te Trapattoni se non spacchi le palle non sei contento”. Poi lancia occhiate in varie direzioni e dice, rivolto all’Ortolano: “allora mettiti di là, sulla sinistra. Così la marmitta spara dall’altra parte”.
L’Ortolano sembra riflettere intensamente su quella proposta, poi sospira, guarda in alto e dice “vacca troia, te Trapattoni devi andare in montagna, a fare le passeggiate, mica qua in cantiere.” Si ricompone con lentezza esasperante, ingrana la marcia e fa il giro dello scavo, piazzandosi alla mia sinistra. Così va meglio. Sento ancora la puzza della marmitta, ma almeno è dalla parte opposta. E’ tutto quello che posso ottenere. O così o me ne vado a casa.
Lavoriamo allo scavo tutta la mattina, poi andiamo a mangiare in una piccola mensa e all’una si riprende. Lo scavo si è fermato, lo scavatore deve spostare dei tubi di cemento, che è un lavoro che probabilmente avrei fatto io con la gru, se il mio camion non fosse in officina. Il Rospo mi manda dentro al capannone, a “dare una mano ai pavimentisti”, dice.
Qui la situazione è peggiore, molto peggiore. Stanno realizzando un pavimento speciale, che si crea in opera con un cemento mescolato con una sostanza a base di cristalli di quarzo; viene steso da due operai col badile e tirato a livello con la staggia. E’ un lavoro delicato, perché l’impasto, che viene preparato da un operaio che ha come unico compito quello di aprire i sacchi per rovesciarne il contenuto in una betoniera, deve avere una consistenza perfetta, altrimenti si formano dei grumi che rendono difficoltoso il tiraggio.
Il problema è la polvere: il materiale a base di quarzo è finissimo, e si spande nell’aria come un aerosol. Sembra che nel capannone sia scesa la nebbia.
Sento una contrazione allo stomaco. Non posso stare tre ore qui dentro, in questa polvere assurda. Nessuno ha la mascherina, nessuno si pone il problema. Gli altri la respirano tutto il giorno senza fiatare.
Io, sempre io. Io devo protestare. Da solo.
Vado dal Rospo. Mi sembra di non avere più forze, di essere svuotato, rassegnato. Eppure non posso respirare quella roba tutto il pomeriggio. Questa è l’unica certezza.
“Che cazzo fai qui Trapattoni?” dice Il Rospo, sorpreso di vedermi fuori dal capannone.
Inspiro una boccata d’aria. “Senti, là dentro è impossibile stare senza una mascherina. Il quarzo fa una polvere pazzesca”.
“Cosa?” Esclama Il Rospo, guardando verso il capannone con le sopracciglia aggrottate.
“Sì” dico. “quella roba si spande nell’aria, c’è da prendersi la silicosi là dentro. Tra l’altro nessuno ha la mascherina, mi sembra una cosa assurda”.
“Che? La silicosi? Ma che cazz… Porco cane, Trapattoni, ma come fai te a creare dei problemi tutti i minuti? Ma ti rendi conto?”
“Senti, ci vuole la mascherina. Non è possibile una cosa così, devi capirlo. Va’ dentro a vedere”.
Il Rospo sbarra gli occhi, si altera leggermente, il che è un fatto abbastanza singolare considerando i suoi modi da anfibio. “E dove me la prendo una mascherina adesso? Ma lo sai cosa stai dicendo Trapattoni?”
“Sì che lo so. E ti dico anche: ma come si fa a non avere le mascherine in cantiere?”
“Come si fa?” sbotta. “Sai quante cose mancano qua dentro, attrezzi, macchine? Ascolta, Trapatttoni” dice, calmandosi di colpo, abbassando lo sguardo a terra. “Quello è un pavimento ad alta resistenza. I pavimentisti mi hanno chiesto due omacci per preparare la roba, perché da soli non ce la fanno. Sono trenta centimentri di spessore, capisci? E devono finire entro stasera, perché domani cambiano cantiere. Se non finiscono come facciamo? Siamo nella merda, siamo!”
In quel momento una voce nasale, inconfondibile, arriva dalle nostre spalle. E’ lui, il Presidente della coop in persona, detto Johnny Profumo, perché dicono che abbia il vezzo di deodorarsi ogni mattina e si lascia dietro la scia. Non l’ho mai visto di persona, ma solo in fotografia, e in televisione, mentre stringeva la mano a Massimo d’Alema durante un convegno su “L’etica del lavoro: i valori della cooperazione”. “Che cosa succede qua?” dice. Fa un passo verso di noi coi piedini che calzano un paio di scarpette con la frangia, muove con grazia la manine femminili che reggono una cartella di pelle. “Va tutto bede?” dice.
Il Rospo guarda a terra, sbuffa. Sta pensando come introdurre il problema, cioè io. Lo precedo, ormai sono lanciato. “Il fatto è, Presidente, che c’è da lavorare dentro al capannone senza mascherina, e c’è una polvere di quarzo incredibile”.
Johnny Profumo strabuzza gli occhi dietro gli occhiali di tartaruga e guarda il capannone. “Ah. E perché sedza bascherida?” dice. Il Presidente è famoso anche per le sue adenoidi: sono così grandi che gli impediscono persino di respirare.
Il Rospo si gratta la testa. “Non ne abbiamo” dice, “giovedì Roberto in magazzino era senza”. Probabilmente è una balla. E’ impossibile che il magazziniere, uno dei pochi personaggi normali qua dentro, fosse senza maschere.
“Oh” dice Johhny Profumo. Si è avvicinato ancora, adesso sento l’olezzo di acqua di colonia. “E dod si può risolvere id qualche bodo?”
Il Rospo allarga le braccia. “E come, Presidente? Sai che problemi abbiamo qua. I pavimentisti hanno bisogno di due omacci, io gliene ho dato uno. Stasera devono cambiare cantiere, e se non finiscono il pavimento siamo nella merdaccia. E siamo già in ritardo sui tempi lo sai anche te”.
Johnny Profumo ondeggia. Voglio prevenire la sua richiesta, ovvia, di sopportare fino a sera per cause di forza maggiore. Le sue cause, e del Rospo, non le mie. Ci sono io nella merda, non loro. “Sì, ma è impossibile lavorare là dentro senza una mascherina” dico. “Presidente, va’ a vedere. Tra l’altro anche quelli là non dovrebbero…”.
Il Rospo sbotta, mi interrompe. “Ma cosa vuoi Trapattoni, quelli sono artigiani, sono cazzi loro”. Non è così. Lui è il responsabile del cantiere, lui deve obbligare chi ci lavora a usare i sistemi di sicurezza.
Johnny Profumo intanto strabuzza gli occhi, lancia occhiate verso il capannone che non so definire se di puro terrore o di assoluta ferocia. “Questo ragazzo ha ragiode” dice. Tira fuori dalla cartella un cellulare e compone un numero. “Sodo io, Bercalli” dice. “Badda subito, ba subito, delle bascheride qua a Bezzalega… cosa?… Dod b’idteressa se dod c’è uda bacchida, ho detto subito!” Fa una pausa, dice una serie di “sì” e “do”, poi si arrabbia, dice “dod b’idteressa! Preddi la tua bacchida e viedi qua subito!” Poi chiude il telefonino e lo rimette nella cartella. “Tutto a posto” dice, ma non vi è traccia di sollievo nella sua voce: gli occhi continuano a roteare dietro le lenti, e la faccia è una maschera di pietra. “Staddo arrivaddo le bascheride”.
Il Rospo allarga di nuovo le braccia, sospira. “Bene” dice. “Allora Trapattoni, intanto che arrivano… vedi quei sacchi di plastica?” indica un cumulo di sacchi vuoti, quelli che proteggono i bancali di cemento. “Va’ là e bruciali”. Bruciare la plastica. Altra porcheria. Fa un fumo pestilenziale, e libera nell’aria delle sostanze cancerogene. Ma non ho più energia per contestare anche questo incarico. Sarebbe davvero la rottura definitiva, tanto varrebbe piantare tutto e andarmene a casa. Prenderò tempo. Fingerò di radunarli, di accatastarli finché non arrivano le mascherine.
Alla sera arrivo a casa alle sette. Ho fatto due ore di straordinario, per aiutare gli artigiani albanesi, che sono ancora in cantiere, a tentare di finire il lavoro. Ho detto loro di mettere le mascherine, ma non mi hanno neanche risposto. E’ gente taciturna, dura, che lavora senza un attimo di pausa per dieci, dodici ore di fila, compresi il sabato e la domenica.
Mia moglie è in piedi nel minuscolo soggiorno con un foglio in mano. Continua a leggere mentre mi tolgo gli scarponi e la tuta, che lascio cadere sul pavimento. Poi me lo porge. E’ un telegramma della cooperativa. All’inizio non riesco a capire il contenuto, devo rileggerlo “siamo spiacenti di comunicarle che il suo periodo di prova non ha avuto esito positivo. Non è quindi possibile riconfermare la sua assunzione a tempo indeterminato. Può passare dal nostro ufficio personale ecc.”
Rimango col foglio in mano, senza parole e senza fiato. Ma che significa? Che mi hanno buttato fuori? Ma com’è possibile? Il mio periodo di prova non è ancora concluso, mancano ancora due mesi. Quindi mi hanno cacciato prima del tempo. Ma come ha potuto Johnny Profumo, in così poco tempo, non più di due ore… Sono incredulo, in stato confusionale. Devo sedermi sul divano, per non perdere l’equilibro.
“E’ meglio così” dice mia moglie. “Sono contenta. Avresti dovuto farlo prima”.
“Cosa?” dico, quando riesco a riprendermi, e a capire il significato delle sue parole. “Ma… ma… è un grosso guaio invece. Cosa faremo adesso?”
“Qualcosa faremo. Ma è meglio. Tornavi sempre nervoso, la notte dormivi male, ti lamentavi. Portavi a casa del negativo, della sofferenza. E’ una benedizione del cielo”.
Già. Una benedizione. E’ accaduto ciò che non avevo il coraggio di fare accadere. Adesso sono di nuovo in strada, di nuovo senza lavoro. Accartoccio il foglio, lo lancio nel cestino vicino al lavello della cucina. “Non abbiamo un quattrino” dico, con voce grave. Un caos di sentimenti contrastanti si agita in me. Sollievo, paura, rabbia, incredulità. Di nuovo in strada…
“Ce la faremo. Tra un po’ mi metterò anch’io a cercare”.
“Tu?” dico. “Tu devi badare a lei”. In quel momento mia figlia si sveglia. La sollevo dalla culla, la prendo in braccio. Mi molla un pugno sul naso.
“Io sono contenta. Chiederemo dei soldi ai genitori, per un po’. Ma è una liberazione. Se non fosse arrivato il telegramma ti avrei chiesto io di licenziarti”.
La piccola si mette a piangere, protende le braccine verso sua madre. Probabilmente vuole mangiare. Gliela passo. Mi stendo sul divano, fisso un punto del soffitto. E’ una liberazione ha detto mia moglie. E’ vero. Non dovrò più vedere Il Carnivoro ogni mattina e ogni sera, né gli autisti cortigiani, né quei capicantiere… Intanto potrei andare al sindacato e denunciarli per mobbing… macché. Il delegato sindacale è uno dei più schifosi imboscati di tutta la mafia là dentro, non mi appoggerebbe mai.
E poi, chi se ne frega?
La cooperativa stradini e muratori è il passato adesso. E’ la Tenebra, il Buio, ed è alle mie spalle.

(Foto: August Sander carbonaio – 1929. Il primo episodio, “Il lavoro fa male – mobbing 1”, è stato pubblicato il 15 marzo.)

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11 Commenti

  1. “il lavoro rende l’uomo simile alla bestia, altro che nobilitarlo!” mi dice sempre mio nonno… però è anche vero che la bestia è l’Uomo, non il lavoro…

  2. Ehi, che sorpresa! Ricordo benissimo il primo racconto. Questa volta il camionista Trap è appiedato. Il presidente Profumo mi fa morire… Bellissimo, come il primo.

  3. Direi che non aveva torto tuo nonno, marco. E’ l’uomo, siamo noi che creiamo il lavoro bestiale, noi che siamo vittime consenzienti, in fondo, di questo sistema.

    Button, sì, Trap è appiedato, e la vicenda, questa vicenda si conclude: finalmente gli altri hanno preso quella decisione che lui non riusciva a prendere.

  4. Non è bello, come direbbe il collega Esticaatzi, condannare i lavoratori sfruttati alla bestialità, come se uno si mettesse in tali condizioni per libera scelta, dimenticando anche come certe situazioni non desiderabili (la prigionia, la guerra, la malattia ecc.) possano comunque costituire la fucina di una più autentica profondità di animo. Ma di fronte a certi dilemmi sociali, il pensare – da parte di chi in qualche modo è riuscito a scamparla (ricordo alla scuola militare che quando si era di turno alla pulizia dei cessi tutti si mettevano freneticamente a pulire lavandini e specchi, in modo da evitare le turche..) – che quegli altri, in un modo o nell’altro, tale condizione se la meritano, è certo la soluzione più lineare ed “economica”, in quanto ci permette di continuare ad occuparci delle cose che più ci piacciono, cioé di noi, del nostro mondo artistico, e della sua illusoria autonomia (oh, lo si giudica volentieri il mondo, ma sempre da prospettive “angeliche”).
    Belli comunque questi racconti, mi ricordano il libro di quello scrittore tedesco che ha vissuto e lavorato per molti mesi spacciandosi per turco. Però mi piacerebbe sapere quanto ci sia di letteralmente vero e quanto di romanzato in essi, mi pare un dettaglio essenziale.

  5. Wovoca, per me non è un dettaglio essenziale stabilire un riscontro preciso dei dettagli con la realtà, perché nei racconti si inventa, si cambiano le carte. Però io sono dell’idea che lo scrittore debba parlare soprattutto di ciò che sa (che non coincide necessariamente con ciò che ha vissuto), e a onor di cronaca, preciso che l’autore (cioè io) ha lavorato per due anni come camionista gruista in una grande cooperativa edile.

  6. Ciò che mi interessa, prima o poi, è valutare se l’arte venga messa al servizio di una “verità” che la supera, oppure interessi come “effetto” all’interno del gioco artistico stesso. Per esempio Solgenitzin mi spinge a leggere Arcipelago Gulag come qualcosa che riguarda primariamente l’uomo e la società, e solo molto dopo la letteratura e i suoi riferimenti interni. Non so se riesco ad essere chiaro. Il mio dubbio è: stabilito che attingi da esperienza diretta e quindi materiale valido, ti proponi, ti concedi, nel far questo, una certa dose di esagerazione, magari per distillare una certa qualità latente avvertita nelle situazioni ma nella realtà più diluita, oppure hai visto, o addirittura vissuto, davvero delle situazioni analoghe? Non mi interessa la corrispondenza letterale, il dettaglio interscambiabile, ma la corrispondenza nelle scale d’intensità, se così posso esprimermi.

  7. Guarda, Wovoca, voglio essere sincero. Mi sono posto il problema della restituzione della realtà, nel suo impatto, nella sua intensità, anche se, ripeto, i dettagli ho tutto il diritto di modificarli, perché non è una cronaca, un réportage, ma un racconto. Credo che il risultato sia per difetto. Cioè, coi miei mezzi letterari credo di essere riuscito a rendere un 70-75 per dell’effettivo degrado umano-lavorativo che si vive in aziende come quella descritta. La scala di intensità, come dici.

  8. @Mauro: il sospetto che tu avessi fatto un lavoro come quello che racconti mi era venuto. A parte questo: ottimo racconto.

    Buona giornata. Trespolo.

  9. ciao a tutti.
    sì, il racconto è carino.
    l’importanza di scrivere, di uscire dall’isolamento che, perlomeno nel mio caso (un vero demansionato costretto anche a subire mobbing) mi evita l’uso eccessivo di pastiglioni che ti dovrebbero rendere più sereno.
    Mah…..

    Se volete venirmi a trovare sono su http://www.ildemansionato.net

    E….. attendo un nuovo racconto Mauro.
    Ciao

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