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Loca I: Poschinger Strasse, 1

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   di Giorgio Zampa

   “Per favore, può dirmi dov’era la villa di Thomas Mann?”, chiedo a una donna anziana che sta liberando dal ghiaccio un tratto di marciapiede, sul fronte della casa d’angolo fra la Poschinger Strasse e la Thomas Mann-Allee. La donna mi guarda con stupore. Rimane in silenzio, senza avere l’aria di capire, le mani coperte da guantoni di lana, sul manico del badile. Ripeto la domanda. Lo stupore diventa diffidenza. Si stringe nelle spalle, scuote la testa, riprende a frantumare il ghiaccio con la punta del badile a piccoli colpi.
   Sono le quattro, il cielo grigiazzurro riflette una luce ancora intensa; con tanta neve non passa nessuno. Lo Herzog Park è un quartiere che si traversa in automobile; a piedi lo si percorre solo quando è bel tempo per fare del moto o per portare a spasso il cane, Infreddolito, non so a che partito appigliarmi, quando vedo avanzare una ragazza in bicicletta lungo un sentiero aperto nel centro della strada. La fermo, le chiedo (ha l’aria di una studentessa) se sa dove abitava Thomas Mann. No, nessuna idea. Raggiungo allora un uomo anziano, che tiene al guinzaglio un grosso lupo. Nulla da fare neppure con lui. Da una cantonata sbuca un postino: forse è la volta buona. Vengo considerato traverso due lenti appannate dal freddo: “E chi sarebbe il signor Thomas Mann?”, controchiede con voce severa.
   Mann venne ad abitare nello Herzog Park nel 1914, vi rimase fino al 1933. Poschinger Strasse 1, per vent’anni, fu uno degli indirizzi famosi di Monaco, non solo tra gli uomini di cultura. A dare notorietà alla casa e al quartiere contribuì soprattutto un lungo racconto, che descrive le passeggiate mattutine e serali dello scrittore con il cane Bauschan, traverso il bosco, in parte ancora intatto, i prati lungo il fiume, i sentieri appena segnati tra la macchia: Cane e padrone apparso nel 1919, è ancora oggi, con la sua grazia e trasparenza d’idillio, una delle opere più lette del romanziere. La zona oltre l’Isar a monte della Max-Joseph-Brücke, era considerata quasi campagna. Ora è uno di quei quartieri defilati tra centro e periferia, che nelle grandi città sono scelti da chi ama la quiete, il verde, e dispone, naturalmente, di mezzi per poterseli consentire: abitare qui, è un segno di distinzione.
   I caratteri che aveva la zona quando Mann e la sua famiglia occupavano la grande villa bianca, sono quasi cancellati: soltanto il lungofiume, forse, non è cambiato. Il viale di pioppi s’intitola nel primo tratto a Thomas, nel secondo a Heinrich Mann: gli addetti alla toponomastica cittadina non vollero commettere parzialità.
   L’idea di essere arrivato fin qui e di tornare indietro senza sapere nulla di preciso, mi dispiace. Entro in una cabina telefonica, per fortuna non lontana, e chiedo lumi a un amico, che so pratico del posto. La villa Mann si trovava, mi disse, in angolo con il viale ma sul lato opposto a quello che io credevo; semidistrutta, nel 1944, da un bombardamento, fu venduta e demolita. L’edificio che ora si vede nel giardino, è recente. Quando una bomba, lasciata cadere da una “fortezza volante”, la colpì, la villa era a disposizione della cosiddetta “operazione Lebensborn”: ricetto d’una mandria di stalloni SS destinati a produrre, in collaborazione con cavalle ariane al cento per cento, campioni per la razza dominatrice. Era stata messa sotto sequestro dalla Gestapo nel Marzo del ’33 e venne confiscata quando allo scrittore, rifugiato in Svizzera, fu tolta la cittadinanza germanica. Biblioteca, archivio di famiglia, manoscritti, mobili, suppellettili, furono spartiti, come preda, dai nuovi padroni o mandati all’incanto.
   Da anni avevo intenzione di passare per questa strada: mi tratteneva dal farlo, ogni volta, l’avversione per i pellegrinaggi letterari. D’altra parte la villa della Poschinger Strasse tornava sempre a interessarmi, per quanto di esemplare, addirittura di simbolico, mi pareva di vedere nel suo destino: un sopraluogo era necessario, mi dicevo, per dare corpo a immagini che tendevano a diventare astratte, per serrarle in una cornice, immergerle in un’atmosfera.
   Costruita da un tedesco sceso a Monaco da Lubecca (e già questa discesa ha un significato), perché in essa si svolgesse un’esistenza patriarcale dedita alla famiglia e al lavoro, sotto l’insegna del motto “per sé e per i suoi” proprio alla vigilia della prima guerra mondiale, al principio, cioè, della valanga che oggi ancora è in movimento; investita dalle bufere che si abbatterono su Monaco, intorno al ’20: Mann poté compiere sotto il suo tetto quella che rimane, forse, la sua opera più importante, certo una delle espressioni più alte della coscienza europea, la Montagna Incantata.
   Appena i nazisti sono al potere, la dimora, che già nel 1933 poteva essere guardata come un’istituzione della letteratura, non solo tedesca, è presa di mira; messa dapprima sotto sequestro, viene confiscata e depredata quando Mann sceglie la via dell’esilio, per essere ridotta, infine, a servire una delle più turpi e, nella sua sconcezza, più grottesche invenzioni del Terzo Reich: a centro riproduttivo della Razza Superiore. Difficile immaginare contrasto più forte con quella che era stata la destinazione iniziale di quelle mura. Considerate le cose sotto questo aspetto, il bombardamento del ’44, e la conseguente distruzione, possono sembrare avvenuti a fine espiatorio.
   Le persone del posto, oggi, ignorano questa storia, sebbene due viali del loro quartiere prendano nome dai fratelli Mann. Tale ignoranza, forse, non è casuale. L’autore dei Buddenbrook, in ogni modo, non s’illudeva, a guerra finita, sulla metamorfosi fulminea di tanti mister Hyde in uniforme, in dottor Jekill in abito civile. Preferì rimanere lontano da Monaco, volle essere sepolto in terra elvetica.
   Nonostante la neve, raggiungo l’argine del fiume, formato da grossi blocchi di pietra. Qui Bauschan abbandonandosi ai suoi istinti venatori, faceva levare per gioco, anatre e gabbiani, inseguendoli fin dove poteva, Le rive del fiume in piena, largo e violento, sono deserte; il silenzio è assoluto, la vita della città, oltre la Maz-Joseph-Brücke si percepisce appena, come un rombo remoto. I gabbiani non osano tuffarsi nelle acque impetuose: non ne scorgo uno nell’aria che imbruna.
   Ma in pozze dalla superficie tranquilla, difese da cortine di giunchi e appena lambite dalla corrente, le anatre si dondolano e spollinano, ilari, indifferenti al fragore della massa di acqua che hanno a ridosso. Quando mi scorgono, non si spaventano. Mi lasciano avvicinare a un passo. Poi, con una prontezza da scherzo infantile, scivolano indietro, ove io potrei raggiungerle solo entrando nell’acqua: ripetono la manovra che rendeva prima interdetto, poi furibondo il focoso Bauschan, procurando un divertimento sempre nuovo al suo padrone.
   Il freddo s’è fatto pungente. Torno sui miei passi verso il punto in cui ho lasciato l’automobile. Mi viene in mente che Mann indicò in una pagina famosa uno degli aspetti più affascinanti della vita nel carattere effimero, transitorio, di essa. Forse non gli sarebbe spiaciuto sapere che il ricordo più vivo rimasto nel luogo ove credette di avere messo radici, che lo faceva sentire “a casa” più di ogni altro, un giorno, sarebbe balenato da una pozza tra i giunchi, dal gioco d’alcune anatre, lungo la riva d’un grigio fiume invernale.

1960

Giorgio Zampa
[ San Severino Marche, 24 febbraio 1921 – 13 settembre 2008 ]

RILKE KAFKA MANN
Letture e ritratti tedeschi
1968, De Donato editore

 
[ 1921 – 2008 scrivere accanto alla prima una seconda data – la definitiva – mi costa – qui – un dolore pieno di ricordi e di rimpianto per l’amicizia – la finezza – la competenza critica e l’ironia di Giorgio Zampa – oggi così rare – dolore inasprito dall’impotenza per quell’inconsapevole rimandare occasioni – parole – abbracci – rimorso – si sa – sempre vano – quando ormai si riavvolge all’indietro l’ultimo nastro ]
 
 

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13 Commenti

  1. bellissimo, grazie Orsola, atroce destino quello della casa di Poschinger Strasse. Zampa dice che non ama i pellegrinaggi letterari, ma questo mi sembra proprio tale, e personalmente non ci vedo nulla di male, anzi.

  2. Benjamin diceva che abitare significa lasciare impronte ed io credo che con questo bellissimo scritto di Giorgio Zampa è come se riaffiorasseroo le impronte dello scrittore T. Mann, la forza evocativa delle descrizioni e delle parole di Zampa lasciano percepire la sensazine del daheim, cioè del ritorno nel posto familiare e sicuro di cui aveva cura la famiglia Mann e di cui però non è rimasto granché dopo le numerose profanazioni, se non un riflesso, un rudere in una pozza d’acqua stagnante. Ringrazio Orsola per avermi fatto conoscere questo scritto di un mio conterraneo, San Severino si trova a due passi da dove vivo.

  3. Orsola è tornata con la sua sensibilità.
    Penso che le case, anche rovinate o prigioniere di un potere orribile,
    anche rubbate a quello che la abitava, a una memoria della presenza
    dell’autore o del bambino, o del ragazzo, un impronta nella camera,
    nel polvero del tempo, in un piano in silenzio.
    Sulle scale aspetta sempre qualcuno del passato, un raggio strano.
    Questa casa bellissima possiede il profumo dell’eleganza prima la guerra,
    tratti delicati, che ho già visti in strade di una stazione balneare, con villa 1900, per sempre in tempo di certa innocenza, prima che tutto sia rovinato, bruciato di un dolore grande, quando l’innocenza ha fatto una frattura. Dopo la guerra, gli occhi hanno perso l’innocenza.
    Solo le case nobile hanno custodito qualcosa della felicità.

  4. Testo, video e musica bellissimi e genialmente armonizzati. Fanno pensare alla intima complicità tra spirito e materia, tra sacralità e profanazione, tra cultura e barbarie, tra raffinatezza e brutalità. Per quanto i primi termini si sforzino di fuggire, di rendersi autonomi, di trovare un rifugio dai secondi, ne sono prima o poi raggiunti e costretti a pagare per la loro hybris, e ad ammettere la loro comune essenza. Viene dunque in mente un pensiero, mai come oggi utopico, di conciliazione tra quegli opposti, piuttosto che di cieca e insistente riproposizione della loro separatezza.

  5. [ grazie ]

    questo è il primo di una serie di scritti sui luoghi legati in qualche modo a personaggi letterari o descritti e inventati da essi

    capita spesso di attribuire alla materia della natura e dei muri tracce di sentimenti, tracce spirituali di chi ci ha vissuto

    capita di desiderare pellegrinaggi a luoghi dell’infanzia
    a paesaggi molto amati
    come rabdomanti di ricordi e spiriti e nostalgia

    s’idealizza

    ma la materia e la natura per loro grazia intrinseca non conservano in realtà alcuna traccia o sentimento, oltre al loro ciclo naturale di rinascita e annientamento progressivo

    il sentimento e le tracce sono dentro ognuno di noi in modo molto diverso ed è cosi che ne riempiamo luoghi e oggetti

    la “conciliazione tra gli opposti” è uno strano processo anche quello, individuale e imprevedibile nelle conseguenze sui destini:

    «Mi arrampicai sul cumulo di macerie fatto di spezzoni di scala, schegge di mobili e in cima alla collina di rovine che era stata la mia casa vidi il mio cilindro e un candelabro di porcellana francese. Tra i detriti si intravedeva qualche fotografia, tra cui quella raffigurante Tolstoj in compagnia di Gor’kij nel giardino di Jasnaja Poljana che avevo appeso sopra la scrivania. Mi misi in tasca la foto e mi guardai attorno per vedere cosa avrei potuto portare via come ricordo. Superando una barricata penetrai in una stanza dove avevo tenuto i miei libri ben allineati sugli scaffali. Avrei voluto trovare il Marco Aurelio con testo a fronte, le Conversazioni di Eckermann e la vecchia edizione ungherese della Bibbia. Ma era difficile orientarsi. Lo spostamento d’aria aveva come macerato la carta, riducendo la maggior parte delle pagine a una poltiglia. Eppure sul cumulo di rovine, intatto, vicino al mio cilindro, un libro era rimasto. Andai a prenderlo e lessi il titolo: Guida alla cura del cane borghese. Misi in tasca anche quel volume e scesi dal mucchio di detriti verso il piano terra. In quel momento – mi sarebbe tornato in mente spesso in futuro – provai uno strano senso di sollievo».

    Sandor Marai
    Terra, terra!…
    Traduzione di Katinka Juhasz
    2005 Adelphi

    ,\\’

  6. La dimora nobiliare di T.M., la biblioteca di S.M., avevano già, nella loro condizione di possibilità, nella loro essenza, il peccato originale che avrebbero scontato nella loro distruzione. L’isolamento, la comodità, la pace, che richiede ogni vita spirituale, senza cui non si dà civiltà, sono al tempo stesso colpevoli contro la civiltà, perché ottenuti in generale con il privilegio e l’estraneazione rispetto alla vita reale e alle sofferenze degli altri uomini. Così il rancore degli esclusi, anche quando non sa nulla di ciò contro cui si scatena, appare oggettivamente come il castigo per non essersi curati di loro, per aver lasciato sussistere l’ingiustizia, magari proprio per combatterla. Anche la pallottola che raggiunse Webern origina in fondo da quella ingiustizia che la sua musica, come tutta la grande musica, si è sforzata di sconfiggere, e al tempo stesso ha dovuto, per forza di cose, lasciare intatta.

  7. Per e. h.

    Nel caso del Nazismo è difficile pensare a qualcosa che si armonizzi a un male tanto assoluto.

  8. […] Loca I: Poschinger strasse,1 di Giorgio Zampa   Questo articolo è stato scritto da orsola puecher, e pubblicato il 16 Agosto 2009 alle 18:25, archiviato in cartee contrassegnato Armilla, italo calvino. Salva nei segnalibri il permalink. Seguine i commenti qui con il feed RSS di questo articolo. Scrivi un commento o lascia un trackback: Indirizzo per il trackback. « due passi ( fare ) da “NON SEMPRE RICORDANO poema epico” » […]

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orsola puecher
orsola puecherhttps://www.nazioneindiana.com/author/orsola-puecher/
,\\' Nasce [ in un giorno di rose e bandiere ] Scrive. [ con molta calma ] Nulla ha maggior fascino dei documenti antichi sepolti per centinaia d’anni negli archivi. Nella corrispondenza epistolare, negli scritti vergati tanto tempo addietro, forse, sono le sole voci che da evi lontani possono tornare a farsi vive, a parlare, più di ogni altra cosa, più di ogni racconto. Perché ciò ch’era in loro, la sostanza segreta e cristallina dell’umano è anche e ancora profondamente sepolta in noi nell’oggi. E nulla più della verità agogna alla finzione dell’immaginazione, all’intuizione, che ne estragga frammenti di visioni. Il pensiero cammina a ritroso lungo le parole scritte nel momento in cui i fatti avvenivano, accendendosi di supposizioni, di scene probabilmente accadute. Le immagini traboccano di suggestioni sempre diverse, di particolari inquieti che accendono percorsi non lineari, come se nel passato ci fossero scordati sprazzi di futuro anteriore ancora da decodificare, ansiosi di essere narrati. Cosa avrà provato… che cosa avrà detto… avrà sofferto… pensato. Si affollano fatti ancora in cerca di un palcoscenico, di dialoghi, luoghi e personaggi che tornano in rilievo dalla carta muta, miracolosamente, per piccoli indizi e molliche di Pollicino nel bosco.
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