Biscotti salati
di Franz Krauspenhaar
Tutto cominciò a picchiare forte su sterno e cuore e cervello quando morì mio padre, al quale ho sempre cercato di assomigliare senza riuscirci. Mio padre per me voleva ben altro – mio padre, mio padre, lo nomino spesso, lo nomino troppo- voleva per me un avvenire radioso. Io avevo fatto molto per accontentarlo, mi ci ero messo d’impegno, non era difficile, pensavo, basta che segui le sue orme, sono ben disegnate, tu seguile e vedrai, mi dicevo. No, è andata come non m’aspettavo, tutt’altra cosa, tutt’altro giro, tutt’altre scene.
E allora prima che morisse c’era però sempre mio padre in carne ed ossa, con la sua aria falsamente dimessa, un tormento tedesco, il tormento felpato del reduce. Aveva fatto la seconda guerra mondiale, ultimi nove mesi di guerra. Tutta una lunga serie di racconti ne scaturì, da quell’uomo, per anni. Coi miei fratelli ce ne siamo intossicati, a bocca aperta, respirando quel gas. Lui aveva avuto la sciagurata fortuna di aver visto tutto dal vivo e dalla parte dei perdenti: fronte russo, prima linea, cavalleria Wehrmacht, mortaista semplice, portalettere…
Oggi ho visto alla televisione un documentario su Hitler, me lo ricordavo più pimpante. Ma forse perché lo stavo vedendo passare per il vano di una porta dopo il fallito attentato di Von Stauffenberg? Cosa c’entra? Chi lo sa, tutto c’entra, tutto puo’ c’entrarci, tout se tient. Il giorno trema, mi accoglie, mi disorienta. E’ la mattina che rispende fuori, le pattuglie della gente che cammina a falcate doppie sul selciato in direzione lavori in corso, in corso d’opere omissioni, tutta la guazzabuglia spinterogenata del trotto ammontante, il porca puttana del lavoro, avanti, avanti, di palo in frasca, a orario continuato, in con su per fra tra fra metrò, per tram, in auto, a dispiego di clacson, alla tv, via internet, sui blog, a detta del papa, nel sesso spantegato, nel gioco d’azzardo, al cinema, tramite la trivellazione neurospastica dei videogiochi, alla radio, penetrando a bava battente bambole gonfiabili, fumando il crack con un bocchino d’uranio impoverito, di nuovo il gioco d’azzardo, naturalmente di nuovo la tv, e la vita frenetica, e di nuovo via internet, e quindi anche per i blog, e i lit-blog, e le separazioni, e il sesso, e il papa, e i pappa, e insomma tutto, tutto che va e va e va a una velocità supersonica e con un impatto terrificante sulle menti devastate dei cittadini e delle vacche al pascolo e dei puma e dei panda e del buco dell’ozono e del sole; un impatto che anche soltanto vent’anni fa era impensabile; e così, di seguito, il rombante duello delle spalle che s’incrociano per i marciapiedi dispiegati a nastro trasportatore su quella strada che è il tappeto rollante sul quale consumiamo le nostre suole nel tirocinio senza fine della vita, e così queste spalle anonime si sfiorano e su e giù, mentre la sera cade minando le promesse della notte. Attaccato alla finestra vedo passare le auto a frotte luminose, il mio sguardo si spezza in catarifrangenze esplosive nel baluginare impietoso di scie di stop rossi. Sera. E que serà serà. Più o meno.
ll giorno che capii che non sarei mai stato come mio padre fu quello del suo funerale. Ricevetti la tremenda telefonata da Schutt in una livida mattina di dicembre di quindici anni fa. Ero un capitano dell’esercito dei monellacci del disbrigo commerciale, un capitano del tutto insoddisfatto, forse addirittura infelice, non ricordo più bene. Infelice, se lo ero -ma appunto non ricordo più bene se lo ero oppure no- soprattutto di comandare e ancora di più di essere comandato. Mio padre morì per un attacco cardiaco davanti alla brutta faccia dell’ingegner Schutt di Zug. Schutt fu brutale – proprio nel suo stile – nel comunicarmi per telefono l’improvvisa dipartita di mio padre. Le gambe, che mi avevano sempre sorretto al passo marziale della forza e dell’orgoglio prefabbricato per le strade, cedettero proprio di schianto, come fossero crollate su loro stesse. Mi trovavo nel mio ufficio, appesi la cornetta del telefono sentendomi bruciare a megatroni scuoiati per tutto il mio giovane corpo duro. Dovevo andare a prendere la salma di mio padre fino in Svizzera, da Schutt, quella era un’operazione che non potevo delegare (non l’avrei mai pensato, in verità) perché nessuno avrebbe potuto compierla al mio posto. Telefonai invece a S., il cartotecnico. Si offrì immediatamente di accompagnarmi non appena gli dissi della morte di mio padre, non dovetti nemmeno chiederglielo. Tralasciai di dirgli che in quel momento non avevo la minima forza per guidare fino in Svizzera, e men che meno da solo. Ma lui questo lo capì da sé guardandomi.
Mio padre era un uomo buono. Se ne è andato quando avevo da poco compiuto 29 anni. Quando lo vidi calare nella sua fossa mi sentii distintamente divenuto un essere mortale. E’ uno dei sentimenti più forti e più veri che abbia mai provato in vita mia. Morì in Svizzera, di colpo, alla stazione di Zug. Era andato dal Schutt, come ho detto, l’ingegnere svizzero che mi avvertì poco dopo con quella brutale telefonata, come ho appunto detto. (Ma ci si puo’ anche ripetere, per certe cose.) Aveva 63 anni, mio padre. Era un fumatore accanito.
Verso le undici del mattino mi telefonò dunque Schutt, che lo doveva incontrare. Con l’occasione m’invitò a farmi una mangiata con lui. No, no, ero distrutto.
In quell’occasione S. il cartotecnico fu un vero amico e questo non lo dimenticherò mai. Salimmo sulla sua Fiat Croma e ci dirigemmo a buona andatura verso la Svizzera tedesca. Bisognava mettersi d’accordo con l’impresa di pompe funebri per il trasporto fino a Milano e per altre faccende burocratiche.
Ci fermammo a mangiare da qualche parte, vicino a un lago imprecisato, non ricordo dove ci trovavamo – era stato prima o dopo il disbrigo burocratico? Stavamo andando o tornavamo indietro? Non ricordo, non riesco a farlo. Ma tenevo duro, masticando per la prima volta il vero amaro della vita. Era metà dicembre dell’ultimo anno degli 80 e il paesaggio mi pareva incantevolmente perverso, le curve si stringevano addosso alle montagne come in un abbraccio sensuale a sorriso ghignante. Vedevo ora nella realtà le strade descritte ne La promessa di Duerrenmatt, uno di quei libri di cui ogni tanto rileggo un brano prima di andare a dormire, una strana bibbia sottile e parallela sulla quale non inciampo mai come invece mi accade con le preghiere, che mi elargisco in certe notti affondate nel vuoto, quando sono con le spalle al muro della mia coscienza divenuta non so nemmeno come usa e getta. Batteva a pervadere il foehn, il vento caldo di quelle amene parti. Era una di quelle giornate incerte – dal tempo incerto, voglio dire – nelle quali io mi sento totalmente dentro me stesso, una volta ogni tanto. Mi appartengo di più. L’incertezza del clima, soprattutto se coronata dagli aliti di un vento caldo, stabilizza il mio umore, mi fa tirare un lunghissimo sospiro di sollievo: perché sono un meteoropatico. Quel clima tiepido mi aiutò a non crollare. Non versai una lacrima. Non in Svizzera. Sbrigammo tutto abbastanza in fretta. Credevo di stare sognando dentro ad un brutto film probabilmente polacco o cecoslovacco o ungherese, fumavo una sigaretta dopo l’altra, guardavo con occhi dolorosamente sognanti quell’incerto panorama azzurrognolo che scoloriva in un pieno grigio fatto di una dolcezza quasi insostenibile. Il vecchio mio padre, l’uomo che aveva combattuto a 17 anni dalla parte sbagliata per i pochi mesi finali della guerra, l’uomo che era ripartito da sottozero e che nei primi anni 50 era finito in Italia dopo varie peregrinazioni fatte in un paese devastato, era morto. Finito. Per me tutto questo era inconcepibile. Non potevo accettarlo. Mio padre mi voleva molto bene. “Tu sei un pazzo, Franz”, mi diceva spesso, sorridendomi. “Alzati, pelandrone! Steh auf!” mi diceva certe volte al mattino, da molto giovane, per farmi alzare dal letto, forse perché in quel letto ci ero finito la notte prima troppo tardi e magari ubriaco, e dovevo andare al lavoro. Ma lo diceva con tenerezza, già. E dire che da piccolo le sue cinghiate erano volate a intervalli quasi regolari. Carezze e schiaffi, al bisogno. Ma io a scuola avevo continuato ad essere una frana, uno degli ultimi della classe, un vero scavezzacollo; non mi piegavo, ero un renitente alla leva del mettere giudizio, uno che veniva regolarmente identificato come ragazzo difficile. E una volta, quando avevo già 20 anni e stavo per entrare nell’esercito come sottotenente di complemento ma poi lasciai perdere – perché mio nonno Ernst da tenente dell’esercito austoungarico aveva fatto l’attacco suicida su Belgrado e io che cazzo ci stavo a fare da ufficiale tra i marmittoni di qui, negli anni 80?, con che faccia? – io e mio padre ce le siamo anche date. Botte con conseguenti risposte, tutte esatte. Era ancora forte, il vecchio, e così ci volle del bello e del buono per metterlo al tappeto. Da quella volta ci rispettammo di più. Voleva per me una vita tranquilla e sicura: non è andata così, alla fine, fin d’ora, ora della fine. Nel settembre di quest’anno, se fosse venuto fin qui a vedere l’alba smorente del nuovo millennio, avrebbe compiuto 80 anni. Gli devo tutto.
Scoppiai a piangere in Italia, a sera inoltrata, in un autogrill. Davanti a un pacco di biscotti, quelli salati, i Tuc.
(Foto: www.quintanofoods.com)
Da qualche altra parte, sempre in NI (sul racconto di Raimo & Lagioia), si discute di letteratura e verità.
C’è chi scrive cose di cui non sa un bel niente “realmente”, ma le conosce come cose sue (così tanti esempi che è inutile farne); c’è chi utilizza il proprio nome per calarsi… nella storia, senza per questo scolorirla (vedi Raimo e Lagioia); c’è chi (credo, sento che è così) parla di se stesso e in modo “relmente” toccante e allo stesso tempo letterario.
Bravo ancora una volta Franz!
@ Franz
Leicht ruht der Pfeil der Zeit im Sonnenbogen.
Wenn die Agave aus dem Felsen tritt,
wird uber ihr dein Herz im Wind gewogen
und halt mit jedem Ziel der Stunde Schritt.
Unter der Schwelle erglanzt im Spiegel mein finsteres Haus,
Leuchter treten sich sanft die flammenden Spitzen aus.
Die Nacht muss das blatt wenden,
wenn die Schale zerspringt
und aus dem Fruchtfleisch die Sonne dringt.
Die nacht muss das Blatt wenden,
denn dein erstes Gesicht
steigt in dein Trugbild, gedammt vom Licht.
Franz,
bello questo pathos trattenuto e liberato solo nel finale.
Intenso e “tuccante”.
Io e mio padre non ce le siamo mai date. Forse è stato uno sbaglio.
Complimenti.
:-) L’Antiedipo di Deleuze non è servito a niente.
mio padre non mi ha mai toccato neanche con un dito.
Non una carezza, non uno schiaffo, molte imprecazioni.
Un giorno, avevo 18 anni, mi impedi’ di uscire con un ragazzo chiudendomi in casa a chiave.
Spostandolo dalla porta a forza, gli lasciai graffi indelebili per giorni, e quando vide che mi stavo calando dal balcone con le lenzuola, apri’ la porta.
L’unica fotografia che ci raffigura in una forma imperfetta d’abbraccio, l’ho messa a fianco del suo viso prima che lo chiudessero dentro la sua bara.
M**** b****.
(Sono d’accordo con il quasi omonimo Kraushaar: testi come questo, rispetto a molte altre cose e discussioni che appaiono e si sviluppano su NI, è DI UN ALTRO LIVELLO. Ma lo dico sottovoce, poiché in rete vige il dogma “politicamente corretto” del democraticismo estetico…)
Un racconto a passo di marcia.
(Apprezzo che quando fai punto e apri parentesi, rifai il punto prima di chiuder parentesi.)
Mag,
sei stata bellissima.
(Dimenticavo) Stefano, non fingere di non sapere che il “democraticismo estetico” (che per fortuna e ovviamente non esiste) è una cazzata!
Va bene, non fingo.
Ma che bellezza il finale tronco, così eloquentemente muto, così saggiamente prosastico…
…così riuscito.
non l’ho letto, ancora.
ma so che i tuc si annozzano.
dei padri meglio non parlare.
Vi ringrazio davvero molto. Ma i Tuc, come dice Tashtego, si annozzano (cioè, se ho ben capito, fanno “mappazza” sullo stomaco).
Questo pezzo che ho deciso improvvisamente di pubblicare, (quasi sempre pubblico d’impulso) e comunque come per liberarmene una buona volta, è l’inizio di un libro. Su mio padre. Che cominciai a scrivere l’anno scorso, e interruppi dopo una quarantina di pagine. In tutto quello che scrivo c’è di mezzo la figura paterna, la famiglia, il bene e il male che ne scaturisce per me e per gli altri. E però penso che questo libro lo riprenderò a scrivere. Non so quando.
Insisti, Franz.
[Io su mio nonno paterno, Mastro Vincenzo. (Una delle tre persone fondamentali della mia vita, un’altra è mia figlia.) Ho cominciato nel 1991, che lui era ancora vivo. Ho scritto un miliardo di cose dal novantuno a qui. Certamente anche cazzate. Ma lì, non riesco ad andare avanti.]
Insisti,
Franz.
(Ma tutte le cose buone restano un po’ sullo stomaco, no?)
… e ad alcuni il padre viene a mancare di colpo, inaspettatamente… magari quando si è ancora troppo giovani e si vorrebbe avere ancora di fronte qualcuno con cui confrontarsi… qualcuno con cui non essere d’accordo… altri lo vedono morire invece giorno dopo giorno anno dopo anno… invecchiare, curvarsi, farsi più piccolo… ridursi a volte come bimbi nella regressione che sembra chudere il cerchio… dagli uni viene l’insegnamento (ma non è un insegnamento poi, è solo il nostro modo di leggerlo) dell’imprevedibilità della vita, dell’inaspettato che ci impedisce di proferire parola… dagli altri il costringersi a guardare il suo appassire -come fiori in un vaso cui l’acqua sia ormai divenuta superflua…
Beh, l’espressione corretta è ‘annozzarsi n’canna’, cioè di un boccone ‘secco’ che si ferma in gola e provoca un senso di soffocamento. Però può anche essere intesa come cibo ingoiato in fretta :-)
Lo stomaco non penso c’entri.
E va bene.
Il mio morì nel dicembre del Novantuno, a Bruxelles.
Morì nel sonno a casa di parenti che era andato a trovare.
Non ci vedevamo e non ci parlavamo da cinque anni, almeno.
Bruxelles era freddissima, ventosa.
In una lettera aveva scritto di voler essere cremato e che da morto nessuno doveva vederlo. Aggiungeva di voler essere avvolto nudo in un lenzuolo di lino: seguimmo alla lettera le sue istruzioni.
Il centro cremazioni era a chilometri fuori Bruxelles, in una campagna piatta, gelata.
Edificio moderno, vuoto e confortante, grandi lastre di vetro aperte sul paesaggio.
Una violentissima gastrite mi tormentò per tutta quella giornata.
Alla fine ci dettero un contenitore di cartone, molto somigliante a quelli del pandoro, solo nero.
Dentro c’era l’urna con le ceneri.
Non voleva che fossero disperse.
Bizzarramente le voleva al cimitero, dentro un loculo accanto a quello di mia madre.
Salii in aereo portando a mano mio padre nell’urna, tenendolo per la maniglia di cartone di quel contenitore di pandoro.
All’ufficio del cimitero mi dissero che avevo fatto una cosa illegale.
Un trasporto di cadavere fatto così, è illegale.
Non ho mai visto la sua tomba.
Anche la sua fu una storia con dentro anni di guerra.
francesco pecoraro, la storia del pandoro nero illegale è una delle cose più esilaranti che tu abbia postato nei commenti (tra quelle che io ho letto).
Effettivamente è una bella trama, quella di Frank Tash.
Puzza di fiction lontano un miglio. Ottimo.
Tash, io credo che il “racconto” che hai postato sia un testo di una bellezza devastante. La cosa più grande che tu abbia mai postato su NI (e di commenti notevoli ne hai scritti parecchi, da quando ti conosco). L’ho già stampato e riposto tra le cose che rileggerò e rileggerò e rileggerò.
Tash,
io non ti dico niente.
Che sia vero o no, poco cambia. Intendo, per noi. Intendo, per la bellezza.
Per te, lo so, … . Anzi non mi permetto neppure di dire lo so.
Poi io credo sia vero, perché prima hai detto meglio non parlar di padri.
tutto vero, parola per parola, omessi particolari forse ancora più bizzarri.
grz cmq.
Franz: chapeau! Buona giornata. Trespolo.