Lettore, sveglia!
Davide Vargas è un autore che i lettori di NI conoscono. Gianni Biondillo ed io abbiamo pubblicato proprio qui alcuni dei suoi racconti. Collabora a Sud da un paio d’anni e ha scritto un libro, Racconti di qui (Tullio Pironti Editore) che vale la pena leggere. In occasione della sua uscita sarà presentato a Roma venerdì 8 maggio 2009 al tuma’s book bar in via dei Sabelli, 17 alle ore 20,00. Isabella Borghese lo ha intervistato. effeffe
Dialogo con l’autore
di
Isabella Borghese
Davide Vargas: un architetto di professione che fa uso della parola per passione. Quanto influisce il tuo lavoro nella scrittura?
L’architettura è presente nella struttura del libro. Io ho sempre immaginato i 13 racconti come una sequenza di tracce verticali nello spazio, tenute insieme dalla linea orizzontale dei frammenti che di volta in volta ricompaiono e si ricompongono alla fine nel racconto “finalmente scappo”. Anche la scelta del corsivo, il carattere tipico della voce narrante, ne fa una specie di ossatura che rende unitaria la narrazione. Quindi capirai che non ho inteso isolare il “mio pensare da architetto”, piuttosto ho preso da esso l’attitudine ad osservare minuziosamente e a comporre. Il resto poi lo fa la scrittura, ed è un resto ben più denso, la parte principale.
Se no, avrei fatto un progetto. La bellezza poi è al centro del libro, o meglio la ricerca della bellezza. La vita delle cose coincide con il suo nucleo “interno”. Anche per gli uomini è così. E la realtà si mostra sempre nell’ambivalenza: bello/brutto, gioia/dolore. Nella mia terra è ancora più evidente, la bellezza si trascina dietro una bava che la nasconde. Io ho cercato di penetrare negli anfratti della realtà per riscoprirne il senso ancora vivo. Sono più interessato a questo “vivente” per quanto residuale sia, piuttosto che alla denuncia del degrado. Non so se ci sono riuscito, so per certo che cercando la bellezza ho dipanato il filo sensibile delle esperienze personali.
Racconti di qui. Qualche parola per presentare il qui di questa raccolta.
Il qui è la mia terra, l’area tra Caserta e Napoli, dall’entroterra fino al mare. Ma voglio ricordare una pagina di V. Havel in cui l’autore dice di “abitare” con il proprio “io” una serie di anelli concentrici che contengono tutto, dalla sua camera al suo condominio, ma anche dalla sua cella fino alla nazione alla lingua alla cultura al cosmo. Io credo che nessuno possa tirarsi fuori dalle condizioni in cui questa terra è precipitata né che si possa parlare più soltanto di un lembo di Italia. Perciò “le crepe, le cicche, i tappi di bottiglia ingoiati come fossili, i dislivelli del cammino, la ragnatela come di vetro fratturato che si apre nell’asfalto”, le cose che cita Giuseppe Montesano nella prefazione al libro e che sono una piccola parte delle cose che ho incontrato nel mio viaggio, non appartengono più soltanto ai miei luoghi ma sono ovunque. Il qui si allarga negli stessi cerchi concentrici di Havel, diventa un “luogo dell’anima”, come lo ha definito Riccardo Dalisi in una recensione di qualche giorno fa. Almeno questa era la mia intenzione.
Come nasce questa raccolta in cui le parole più che narrare fatti e questioni sembrano voler rappresentare una sequela di immagini donate al lettore con delicatezza e una dovizia di dettagli incantevoli?
I fatti sono questi. Nasce da una passeggiata con Luigi Spina sul litorale domizio il 26 dicembre 2006. Cercavamo immagini di mare e capivamo che nell’occupazione dello spazio che ci scorreva davanti avremmo potuto trovare al massimo immagini di varchi verso il mare. Mi servivano per illustrare un’intervista che avevo in preparazione per “d’Architettura” una rivista con la quale collaboro da qualche anno e l’intervista era in realtà una conversazione a più voci tra me e Giuseppe Montesano, Gianni Biondillo e Antonio Pascale. Così giravamo per quei luoghi e quando ormai non ci sembrava di aver incontrato nulla di interessante apparve un lungo muro a pelo di sabbia che correva verso il mare e deragliava alla fine. Questa immagine è rimasta dentro di me chiedendomi con forza di essere trasformata nel racconto con cui inizia il libro. E così sono andato avanti per più di un anno, cogliendo un dettaglio un colore uno sguardo e facendo affiorare da essi tutto il magma delle sensazioni delle nostalgie del dolore dei sogni della malinconie che è diventato poi il libro. Naturalmente non si è trattato di una folgorazione ma dell’evoluzione di una lunga preparazione, io scrivo e soprattutto leggo da molti anni, è la mia passione; come sai ho collaborato con Sud, una rivista a cui sono legato perché si fa nella mia terra e Nazione Indiana ha pubblicato alcuni miei racconti.
Nella raccolta l’uomo sembra decisamente legato ai luoghi/non-luoghi che attraversa e osserva. A un certo punto sembra divenire un tutt’uno con le cose stesse. C’è anche qui un legame con la professione? O un modo di vedere e sentire il rapporto tra l’uomo e le cose?
Direi di più “un modo di vedere e sentire il rapporto tra l’uomo e le cose”. Io credo che il punto di contatto con la realtà debba essere diretto, ripulito da pregiudizi. Per fare questo è necessario “guardare” e non è così scontato che “guardiamo” sempre, né che siamo abituati e educati a farlo. Ci vuole allenamento e persistenza. Poi è necessario “nominare” le cose, una ad una con i termini precisi fino a scoprire che esiste sempre una ed una parola soltanto per descrivere una realtà. E forse in quel momento più che descrivere si “crea” realtà.
Come nasce l’idea di New smoke lago Patria? Perché invertire i ruoli dei protagonisti di Smoke?
Nasce dal fatto che realmente per molti anni, dieci forse, ho disegnato nello stesso periodo dell’anno e più o meno alla stessa ora e con gli stessi strumenti, un paio di penne e niente altro, lo stesso paesaggio, un lago con una grande quercia, le canne i gelsi le robinie i fili d’erba… E’ un altro lago, sicuramente più pulito e meno assediato dall’incuria, ma l’esperienza è la stessa descritta nel racconto. Ho raccolto cento disegni che custodisco come una cosa preziosa. Ho invertito i ruoli perché volevo che a disegnare e a scrivere fosse la stessa persona, un po’ come faccio io.
Come ci si sente a esser pubblicati nella stessa collana di Raymond Carver?
Carver è uno dei miei autori preferiti, anche se non voglio leggere questo inedito che è attualmente in libreria, temo di trovare le parole in più che pare il suo editore tagliasse in dosi massicce. In verità ho una grande passione per tutta la narrativa americana, da Melville a Faulkner agli scrittori di oggi. Certo con i miei amici mi do delle arie per questa vicinanza con Carver, solo con i più stretti però. E non posso che scherzarci su.
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Ho letto RACCONTI DI QUI qualche settimana fa di primo mattino, accoccolato in un’area mercato /lotto di parcheggio, portando a spasso i cani alla periferia del paese, in quella terra di nessuno dove case e campagna non sai più cosa siano, quando l’ultima alba lascia il passo al biancore slavato che si stende su una natura sventrata, scassata, manomessa da “rammère” e laterizi che s’insinuano come un tumore tra i “lotti” di asparagi e fragole e qualche rara vite maritata al pioppo. Leggendo “Strade” o il racconto d’esordio (Davide e chi legge perdoneranno, perchè vado a memoria, per sensazioni e non ho sottomano il testo per controllare), ogni tanto alzavo gli occhi e li posavo sul ciuffo d’erba che usciva dal manto di cemento, o sul tappo di bottiglia lì vicino, qualche pietra di tufo , cerchione di bici o copertone abbandonato, ed era come vedere “riformarsi” una realtà fittizia appena letta: dal libro alla realtà , lì bell’ e pronta… e la magica finzione delle strade “noi narrante” che mi invitavano a vedere con “occhio” nuovo l’orrore innegabile d’una realtà in disfacimento. Sì, è vero, quell’ultima vite d’asprinio ormai secca , avulsa dal contesto di deposito a laterizi, mi rimandava invariabilmente a un altro “QUI”, ad uno QUI interiore che rimonta a meno di trenta/quaranta anni (un nulla nell’atermporalità del ricordo), e in questo “QUI” ad uno ad uno ecco i dettagli emotivi del bambino e del papà in campagna, ecco i contadini alle prese con le “féscine” e i carrali della vendemmia: ma niente “gouache” o kitsch, giusto un flash, un’istantanea che ti dà la possibilità di ricostruire il bello ANCHE in questo disastro ambientale.
L’eleganza del libro di Davide Vargas non sta solo nella opportunità offerta di “farsi attraversare” dallo sguardo emozionale di chi legge QUI, in questo Agro Aversano derelitto, ma anche dallo stimolo a leggere in un “QUI” interno, dove , in fondo in fondo, vibra ancora debolmente la voce della bellezza, che ci spinge ancora a lottare , ad andare avanti , nonostante la devastazione dei luoghi della vita materiale.
Ma attenzione, in questi tredici racconti non troverete una variante ennesima del reportage tra inchiesta e romanzo sulla “terra di camorra”. Nient’affatto. Vi troverete, invece, in un meraviglioso gioco di rimbalzi tra questi due QUI, entrambi “non luoghi” ( il primo perchè è quello della memoria infantile, l’altro quello della realtà obiettiva, talmente sfigurata da essere , appunto, un non luogo), che Vargas “architetta” con uno stile raffinato, fatto di una lingua su cui ha molto lavorato di cesello per spremerne il gusto del dettaglio. Insomma , un narrare nutrito di frammenti di memoria cinematografica (Lago Patria New Smoke, dove Auggie e Paul vengono reinventati con una tecnica “a ricalco” davvero commovente per chi ha visto il film sceneggiato da Paul Auster per la regia di Wayne Wang e interpretato da Harvey Keitel e William Hurt, e “catapultati” nel nostro QUI geopsicologico.
Una straordinaria, bellissima sorpresa Davide Vargas, un “visionario” che fa del “particolare minuto” lo strumento con il quale costruisce la sua tecnica narrativa che, a tratti – e non sembri blasfemo- mi ha fatto pensare alle atmosfere narrative messe su in alcuni passaggi di “El informe de Brodie” o della “Biblioteca universale” (ma forse mi sbaglio nel titolo) di J.L. Borges, autore che non poteva essere così lontano , peraltro, per contenuti e stile dai RACCONTI DI QUI di Vargas. Un’altra “pazza” associazione che ho fatto, leggendo Vargas, è stata quella con Bontempelli, Massimo Bontempelli, autore baroccamente ricercato, in auge negli anni trenta e quaranta del nostro Novecento. Davide Vargas, contrariamente a Bontempelli, lavora sul “particolare” e sulla “sottrazione”, ma uguale è la tensione al “bello” del narrare.
Voglio, infine, segnalare, “la zingara” del racconto d’esordio: figura straordinaria, “personaggio e luogo interiore” mitico , di sicuro ancora presente in tutti quelli che , sul finire degli anni sessanta, hanno frequentato i “lidi” del nostro litorale (Ischitella, la Selvetta, il Timone, l’Ancora eccetera eccetera): chi non ricorda la ragazza bellissima e misteriosa che si materializzava come dal nulla sulla rotonda interna al lido, per ballare davanti al juke box e “catturarci” con il suo fascino erotico? Nel racconto di Vargas viene evocata con dei flashes straordinari…alla Alain Robbe-Grillet (Slittamenti progressivi del piacere, Les Gommes, o cose simili), ma con tutt’altra finalità.
Sì, è stata davvero una bellissima sorpresa leggere questi RACCONTI DI QUI. Ne è valsa davvero la pena.
Bravo Davide!
mi appresto a leggere pure io. per ora il libro l’ho solo visto ed graficamente bellissimo.
ciao franco peccato non averti qui a Roma. effeffe