La conservazione architettonica spiegata ai bambini (1 di 2)

di Gianni Biondillo

Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.
-Ma qual’è la pietra che sostiene il ponte?- chiede Kublai Kan.
-Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, -risponde Marco,- ma dalla linea dell’arco che esse formano.
Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: -Perchè mi parli delle pietre? E’ solo dell’arco che m’importa.
Polo risponde: – Senza pietre non c’è arco.

(Italo Calvino)

1. UNA PRECISAZIONE

La conservazione non è il restauro; e viceversa.
Non la si creda questa una tautologia capziosa; per quanto il campo di interesse è analogo (ma non identico), le due discipline hanno approcci teorici, rispetto il patrimonio documentario del passato, assolutamente (ed inconciliabilmente) diversi. Insieme nascono in quel momento storico che cerca di riorganizzare il proprio passato in funzione del nuovo spirito nazionalistico che aleggia sull’intera Europa. Non a caso il periodo che ha cercato di annullare il nazionalismo di derivazione napoleonica è stato chiamato “restaurazione”, cioè ripristino, ristabilimento, restituzione allo stato primitivo delle dinastie europee “come se nulla fosse accaduto”. Ma è chiaro che gli ideali rivoluzionari hanno inciso profondamente il corpo vivo dell’Europa portando con se enormi mutazioni culturali e politiche: la rilettura del proprio passato, di ogni proprio passato, ha trovato nell’ insieme dei monumenti storici uno dei suoi punti fermi, chi per una curiosità da soddisfare, chi per una conferma, anche se forzata, delle proprie opinioni.
Massimo punto di riferimento della teoria del restauro ottocentesco è, indubbiamente, il francese E. Viollet-Le-Duc. Evitando qui di fare una storia del restauro, che altri hanno fatto prima di me(1), basterà qui ricordare la sua ben nota definizione del restauro inteso come la somma delle operazioni da attuare sul monumento per riportarlo ad un momento ideale, ad uno stato che potrebbe anche non essere mai esistito(2). Se nel corso degli anni gli obbiettivi del restauro si sono leggermente “aggiustati”; chi alla ricerca di un passato “filologico” e “scientifico” da ri-proporre, chi di un passato sentimentale e pittoresco, chi, ancora, di un passato epurato dalle aggiunte che ne negavano il godimento estetico (ed estatico); è chiaro che un analogo atteggiamento nei confronti del manufatto architettonico accomuna, negli anni, i restauratori: l’idea, innanzitutto, di poter bloccare ad un dato momento ideale (chi storico chi estetico) l’edificio, perpetuandolo, immobile e perfetto, per “l’eternità”; e, ancor più grave, l’idea che tutto ciò è, deve essere, operabile direttamente sull’artefatto, ripristinandone parti mancanti, sostituendone parti degradate con parti nuove, sottraendone aggiunte “inutili”, senza che questo operare venga interpretato come un falsificare l’originalità del monumento.
A differenza, l’idea di conservare la fragranza, l’originalità del monumento, inteso come un patrimonio che il passato ci ha affidato e che deve essere restituito integro alle generazioni future, è il concetto ruskiniano presso il quale si concretizza la nascente disciplina della conservazione(3). Da Ruskin ai giorni nostri anche la teoria della conservazione ha subito dei mutamenti allargando il proprio campo di interessi all’ambiente umano nella sua integrità; e se, comunque, nella lettura delle varie carte del restauro(4) susseguitesi nel corso di questo secolo si possono notare degli avvicinamenti tematici nelle due discipline resta una insormontabile dialettica che oppone le due teorie.
Il restauro non è la conservazione.
Etimologicamente restauro significa “res instaura”, ripristina, ri-costruisci, chiede una operatività tutta interna alla disciplina architettonica, una progettabilità della storia analoga a quella architettonica, da qui, da questa sua visione positiva, la sua crescente fortuna già dal XIX secolo. Diversamente la conservazione, “con-servus”, implica un servizio. Il servizio che l’architettura ci offre abitandola, fruendola, il servizio che noi dobbiamo fornirle perchè essa continui a scambiare senso con noi attraverso la sua manutenzione, il suo consolidamento, l’aggiunta di eventuali nuovi servizi (progettabilità “nella storia”); tutto ciò richiede non solo l’intervento del “tecnico”, dell’architetto, ma anche la partecipazione del fruitore, dell’ abitante, del cittadino. Parlare di restauro conservativo è chiaramente una contraddizione, un ossimoro, una aporia che non può essere teoricamente più accettata: o questo o quello.
La conservazione non è il restauro.

2. CONVERSAZIONE/CONSERVAZIONE

L’architettura è un sistema di segni(5). Questo lo aveva già straordinariamente intuito quasi due secoli fa V.Hugo che in un capitolo del Notre-Dame de Paris paragona monumenti a parole, città a libri interi, l’architettura ad una lingua(6). E’ chiaro che a distanza di un secolo la profetica intuizione risulta un po’ troppo meccanica(7) ma riletta alla luce delle parole di un filosofo del nostro tempo che vedeva il nostro essere nel mondo un essere familiare con una totalità di significati(8), essa risplende di nuova e viva luce.
Parafrasando Barthes(9) si può dire che nell’architettura la “Lingua” (intesa come istituzione sociale e sistema di valore) è costituita da quel sistema tecnico-simbolico, che comprende anche la ritualità del costruire e dell’abitare (ritualità come retorica dell’abitare), che regola il costruire; la “Parola” architettonica, quindi, è tutto quello che concerne le variazioni personali che ognuno apporta dal costruire all’abitare. Questa è stata, da sempre, la vera ricchezza della cultura architettonica diffusa: questo sedimentare “Parole” nella “Lingua” architettonica nobilitando “dal basso” il “Linguaggio” del costruire. Con l’avvento dell’industrializzazione il linguaggio architettonico è diventato sempre più una “Lingua” senza “Parole”, cioè una lingua elaborata “non dalla “massa parlante”, bensì da un gruppo di decisione”(10). All’interno di questo gruppo decisionale lo storico assume la funzione di colui che organizza i segni del passato dando arbitrariamente delle priorità a quei segni che legittimano la lingua ufficiale. Organizzati i segni, distinto nella storia dell’arte ciò che è arte e ciò che non lo è, “il braccio secolare della storia” (il restauro) affonderà le mani nella vil materia eliminando ciò che disturba la lettura del testo, cosciente della sua ininfluenza nelle “progressive sorti” della storia. Il fatto che possa esistere un’interazione segnica differente da quella ufficiale non interessa al restauratore o forse gli interessa al punto di “obbligare” l’utente “tipo” ad una comunicazione col monumento assolutamente convenzionale.
Perchè è bene ricordare che se l’architettura è un sistema segnico, connesso ad esso deve necessariamente esistere un sistema comunicativo. E’ bene quindi prendere in esame la teoria della comunicazione per cercare in essa un possibile rapporto con l’architettura sapendo che la stessa teoria ha i suoi massimi sviluppi in discipline spesse volte lontanissime dalla nostra quali l’informatica, l’ingegneria dei sistemi, la semiologia, la sociologia, ecc. Innanzitutto bisogna avere ben preciso il concetto di comunicazione, che non sia ne troppo largo, al punto che tutto possa essere considerato tale, ne troppo legato all’idea di un comunicare coscienzioso e razionale; una buona definizione ce la fornisce Mela: “Consideriamo comunicative tutte le interazioni nelle quali, comunque, avviene una trasmissione di messaggi, sia essa volontaria od involontaria, sia essa basata su di una codificazione precisa od ambigua, stabile ed indipendente dai contesti oppure mutevole ed aperta all’influenza del contesto.” (11).
Come si sa la teoria matematica della comunicazione è essenzialmente una teoria della trasmissione dove il problema del significato del messaggio non solo passa in secondo piano nei confronti della sua misurabilità statistica, ma, addirittura, diventa un problema insignificante: applicare il modello di Shannon e Weaver alla comunicazione architettonica implicherebbe una assoluta intenzionalità nel trasmettere messaggi (all’interno di un codice rigorosamente definito) che come si è già accennato non può essere accettata. E’ un mito di una certa cultura razional-idealista(12) credere che esista sempre una precisa cognizione di ciò che si comunica sia che esso lo si faccia attraverso un linguaggio verbale che con uno artistico ecc. così che tutto ciò che si “dice” è tutto ciò che vogliamo che si sappia (al punto che se non si dice nulla non si comunica nulla). Così non è, ed anzi anche non facendo nulla è impossibile non comunicare; lo stesso mentire nel campo della comunicazione artistica diventa impossibile: “Poichè la scelta artistica è sempre scelta di segni, di figure, messa in opera di significati, in tale messa in opera non si può mentire, perchè, se si mente, si dice che si mente: il segno non può mentire se non dicendo che mente.” (13).
L’utilizzo dei codici di comunicazione (dei quali non si può fare a meno per comunicare) non implica la loro conoscenza strutturale, così come il parlare la propria lingua non implica la conoscenza né della sintassi né della grammatica. Dunque se il costruire è, anche se non lo si vuole, comunicare, dare un’interpretazione del costruito solo attraverso l’utilizzo di un codice culturalmente stabilito, quale ad esempio quello estetico, è insensatamente arbitrario nei confronti degli altri codici comunicativi (quali ad esempio quelli tecnici, simbolici, ecc.) che concorrono alla costruzione del circuito comunicativo. Conviene riprendere per intero la definizione di sistema di interazione fornitaci da Mela: “Un processo di interazione comunicativa definisce un insieme di soggetti tra di loro interagenti e tale insieme è dotato di confini e di una identità e, quindi, di una relativa stabilità, sia pure di breve durata. Tutto ciò equivale a dire che l’insieme dei soggetti comunicativi può essere rappresentato come un sistema, anche se si tratta di un particolare tipo di sistema, in quanto esso può (anche se non deve necessariamente) essere dotato di una struttura particolarmente debole e flessibile.” (14). Parafrasando lo schema concettuale di Mela potremmo dire che, nell’ambito di un sistema comunicativo aperto dove A è un possibile manufatto architettonico e B il soggetto umano che interagisce con esso, il “soggetto” architettonico giunge al momento interattivo carico di messaggi ricevuti dall’ambiente (e che possono essere sia quelli dati dal suo originario costruttore che da quelli di chi lo ha abitato o da chi vi ha fatto delle modifiche o dallo stesso deterioramento causato dal tempo) ed all’ambiente esso invia dei messaggi che modificano, in ragione di quanto essi possano essere riconosciuti, la conoscenza di se nei confronti del soggetto umano il quale, ricevuta la parte di messaggi che poteva riconoscere, invia altri messaggi, parte dei quali possono anche tornare all’architettura stessa (ad esempio scrivendo su di essa un libro che aiuta ad una più chiara lettura dell’edificio stesso, ecc.).
E quà si palesa la insormontabile differenza di atteggiamento fra la teoria del restauro e la teoria della conservazione: mentre nella seconda è di fondamentale importanza conservare tutti i messaggi contenuti dall’edificio, andando a stratificarvici di conseguenza i propri ed allargando così le possibilità segniche ed interpretative che si possono avere del manufatto in questione; nella prima l’interazione di chi restaura tende ad eliminare i messaggi ritenuti dannosi ad una interpretazione prioritaria diminuendo la ricchezza segnica dell’edificio e restituendo all’ambiente una sola possibilità interpretativa, a costo anche di falsificare la materia dell’opera (dimenticando che la bugia in fatto d’arte si palesa automaticamente).
All’interno di un’area di competenza di un codice comunicativo possono interagire, come si è già accennato, più codici, in altre parole uno stesso “segno” architettonico può apparire plurisignificativo a seconda di chi lo interpreta e di come lo interpreta. Se il codice è, per dirla con Luhmann, “una struttura capace di cercare per una qualunque voce nel proprio raggio di competenza un’altra voce complementare, coordinandole fra di loro”(15) è chiaro che più ci si avvicina ad una comunicazione di tipo digitale (basata sul “o” questo “o”quello) più si ha a che fare con una comunicazione di tipo tecnico, artificiale, intransigente.
E’, questo, il caso del restauro che, combattuto tra il valore storico ed il valore artistico, si muove selezionando e privilegiando cio che, a seconda dei momenti storici, gli pare più “importante”. In pratica il restauratore parla la stessa lingua dello storico dell’arte ed anzi la codifica scrivendola sul corpo vivo del monumento: all’interno di questo codice di comunicazione rigido la comunicazione segnica trasmette messaggi inequivocabili; i segni si fanno segnali. A differenza la comunicazione che accetta la complessità significativa (del tipo “e” questo “e” quello) e che si muove quindi in una pluralità di codici flessibili dove i messaggi sono variamente interpretati è la comunicazione che la conservazione cerca di mantenere con i manufatti i quali ci lanciano messaggi multisignificativi, dove i segni si fanno simboli. Nella comunicazione segnaletica i messaggi hanno un numero limitato e finito di informazioni da trasmettere, questa trasmissione viene raccolta, essenzialmente, solo da chi è giunto ad un buon grado di apprendimento del relativo codice di comunicazione trovandosi di conseguenza in sintonia con l’oggetto comunicante; nella comunicazione simbolica, viceversa, il codice indica possibili ambiti di corrispondenza implicando, da parte di chi usufruisce del messaggio, sempre uno sforzo interpretativo.
Non lanciando messaggi univoci la comunicazione simbolica dà enorme spazio all’interpretazione personale la quale è ovviamente influenzata dalla posizione socio-culturale di chi la attua; dunque, nell’ambito dello stesso monumento, si possono avere infinite interpretazioni al variare delle infinite competenze interpretative, mantenendo sempre, comunque, uno “stile” personale alla “conversazione”.

NOTE:
1) Non mancano certo le storie del restauro a cui fare riferimento vedi ad esempio L. Grassi, Storia e cultura dei monumenti, Società editrice libraria, 1960. Vedi anche: A. Bellini, Teorie del restauro e conservazione architettonica, in A.Bellini (a cura di), Tecniche della conservazione, F.Angeli, Milano, 1988. E, dal punto di vista teorico: M. Dezzi Bardeschi, Restauro: punto e da capo, F.Angeli, Milano, 1991.
2) Eugène Viollet-le-Duc, L’architettura ragionata, Jaca Book, Milano, 1984, pag. 247 ; Di Viollet-le-Duc vedi in francese: Dictionaire raissonné de l’architecture francaise du XI au XVI siècle, 10 vol., Bauce-Morel, Paris, 1854-68, la voce “Restauration” è nel volume VIII (1865).
3) Di J. Ruskin si veda soprattutto: The seven lamps of Architecture, 1849, in italiano: Le sette lampade dell’architettura, con presentazione di R. Di Stefano, Jaca Book, Milano, 1984; ed anche: The political Economy of Art, 1857, in italiano: Economia politica dell’arte, Moizzi, Bergamo, 1980.
4) Vedi C. Perogalli, Monumenti e metodi di valorizzazione, Milano, 1954; e le note 6, 8, 9, 11 in A. Bellini, op. cit.
5) Vedi U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano, 1980.
6) In quel straordinario capitolo di Notre-Dame de Paris aggiunto nel 1832 ed intitolato Ceci tuera Cela. Non è comunque solo di Hugo il monopolio di questa intuizione (vedi ad esempio Viollet, ma anche, da noi, Pietro Selvatico), lo è semmai del suo secolo.
7) Ovviamente bisogna evitare di scadere in una banalizzazione sin troppo meccanica fra frase ed edificio, finestra e sintagma, verso e colonna ecc. vedi la critica di G. Dorfles in Elogio della disarmonia, Garzanti, Milano, 1986, pagg.135-6.
8) Vedi G. Vattimo, Introduzione ad Heidegger, Laterza, Bari, 1980.
9) Vedi R. Barthes, Elementi di semiologia, Einaudi, Torino, 1966.
10) R. Barthes, op. cit., al paragrafo I.2.6.
11) A. Mela, La città come sistema di comunicazioni sociali, F.Angeli, Milano, 1985, pag. 75.
12) Mi si permetta la forzatura; con “razional-idealista” intendo il modo confusionario di recepire sincreticamente oggi i due grossi mondi di pensiero di tradizione ottocentesca.
13) D. Formaggio, L’arte come idea e come esperienza, Mondadori, Milano, 1981, pag. 160.
14) A. Mela, op. cit., pag. 89.
15) N. Luhmann, Potere e complessità sociale, Milano, 1979, pag. 35.

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3 Commenti

  1. Interessante, e il passaggio sulla *comunicazione* mi ha ricordato il discorso sulla gestualità nella pittura che crollò sulla mia crapa ignorante. Fortunatamente.

    Buona notte. Trespolo.

  2. E’ un piccolo trattato molto ben fatto, interessante, che attesta quanto l’architettura sia disciplina ecclettica virante tra tecnicismo, umanesimo, arte e scienza.
    Un Architetto dalle vedute allargate puo’ svolgere una funzione sociale veramente importante, in questo caso assurge addirittura alla metafora platonica del demiurgo strutturante.
    filosofeggiare maneggiando lo spazio declinandolo diacronicamente nelle 3 dimensioni temporali, e consegnando il passato rivisto contemporaneamente alla popolazione futura, significa avere padronanza esecutiva e capacità concettuale.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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