L’epica-popular, gli anni Novanta, la parresìa
Appunti sui tre saggi di Wu Ming 1 contenuti in New Italian Epic
di Tiziano Scarpa
Nei suoi tre saggi contenuti in New Italian Epic, Wu Ming 1 dice alcune cose che trovo condivisibili. Prima di lui, parecchie delle stesse cose le hanno dette Carla Benedetti in Pasolini contro Calvino e L’ombra lunga dell’autore e Il tradimento dei critici e in vari interventi, Alberto Casadei in Romanzi di Finisterre, Valerio Evangelisti in Alla periferia di Alphaville e Distruggere Alphaville e in vari interventi, Tommaso Labranca in Andy Warhol era un coatto, Antonio Moresco in Lettere a Nessuno e Il vulcano e L’invasione e in vari interventi 1, per non parlare di altre scrittrici e scrittori stranieri nelle loro riflessioni sulla letteratura.
Consapevoli o no che siano, quasi tutti questi debiti non vengono riconosciuti nei saggi di Wu Ming 1. Va bene, diciamo che non importa: l’importante è che oltre a dire quelle e altre cose, Wu Ming 1 abbia elencato caratteristiche ed esempi di alcuni romanzi pubblicati in Italia in questi ultimi quindici anni che possono contribuire a promuovere un’idea ambiziosa di letteratura. Il romanzo storico-guerresco e l’epopea malavitosa non sono i generi di libri che preferisco come lettore (sono molto interessato, invece, agli “oggetti narrativi non-identificati”). Però, con tutti i miei limiti umorali e di comprendonio, cerco di apprezzare ciò che c’è di buono da qualunque parte arrivi, e non ho mai escluso che anche da questo alveo nascano opere notevoli.
Cosa resterà di quegli anni Novanta?
Ci sono molte cose sostenute da Wu Ming 1 nei suoi interventi in New Italian Epic con cui non sono d’accordo, e qui non le analizzerò tutte 2.
Il suo partito preso a favore dell’epica-popular in questi tre saggi gli fa palesemente sottovalutare (e smaccatamente disprezzare, irridere, distorcere e mettere in caricatura) la sostanza e il valore di tutto ciò che accade fuori da essa. Mi spiace per lui e per ciò che si perde.
Non sono d’accordo con la ricostruzione che Wu Ming 1 fa della letteratura degli anni Novanta 3. È manchevole e faziosa. Cancella le tracce di molti autori e autrici che, ne fossero consci o no, in quegli anni si opponevano di fatto ai “postmodernismi da quattro soldi”. Forse questa faziosità dipende dal bisogno di far spiccare, per contrasto, le opere degli anni Novanta che Wu Ming 1 indica come apripista dei romanzi epici-popular degli anni Duemila. Ma non è giusto, non è accettabile dipingere come un deserto di frivolezza e disimpegno quel decennio. Negli anni Novanta erano attivi in Italia autori e autrici che avevano fiducia nella parola, credevano nella scrittura, davano forma a opere di grande ambizione artistica e di respiro vasto e di particolare cura stilistica (che è una delle forme possibili di impegno conoscitivo e politico), e non manifestavano alcun distacco ironico dalle loro opere. Ammesso che le tendenze dominanti fossero quelle dei “postmodernismi da quattro soldi”, a maggior ragione si fa un torto doppio, e ancora più grave (perché ora noi disponiamo del senno di poi) nel non riconoscere il merito e valorizzare chi già allora andava controcorrente, magari percorrendo sentieri solitari. È una valorizzazione che, nella pratica, non vuol mica dire inserire autori e autrici “in qualche parnaso di stronzi” 4, ma indicare titoli che vale la pena leggere ancora oggi, opere che meritano di restare editorialmente vive nonostante, in alcuni casi, non siano più ristampate o non vengano riproposte in tascabile.
Sicuramente dimenticherò molti titoli (come quello di Wu Ming 1, anche questo mio elenco è in fieri), d’altronde non ho certo letto tutto quello che è stato scritto in quel decennio, ma provo ugualmente a stilare una piccola lista personale, che dipende molto (quanto a manchevolezza) dai miei gusti e dalle mie idiosincrasie.
Secondo me non si può fare finta che negli anni Novanta non siano stati scritti (in ordine alfabetico) L’erede e Sarajevo, maybe di Gianfranco Bettin, La buona e brava gente della nazione di Romolo Bugaro, Fonderia Italghisa di Giuseppe Caliceti, Il suono del mondo di Giampiero Comolli, Vita agra di un anarchico di Pino Corrias, Colpo di lama e Anomalie di Mauro Covacich, Il ferroviere e il golden gol di Carlo D’Amicis, Staccando l’ombra da terra e Mania di Daniele Del Giudice, Euridice aveva un cane, Filologia dell’anfibio e Tu, sanguinosa infanzia di Michele Mari, Un bacio al mondo di Raul Montanari, Clandestinità e Gli esordi di Antonio Moresco, Questo è il giardino, La felicità terrena e Fantasmi e fughe di Giulio Mozzi, Il dipendente di Sebastiano Nata, Woobinda e Puerto Plata Market di Aldo Nove, Il mostro di Vigevano di Piersandro Pallavicini, XXXX! Racconti porni di Filippo Scòzzari, La terra dei dinosauri di Carola Susani, Per voce sola di Susanna Tamaro, La chimera e Marco e Mattio di Sebastiano Vassalli, Occhio per occhio di Sandro Veronesi, Dei bambini non si sa niente e In tutti i sensi come l’amore di Simona Vinci. Non pochi libri 5 che (anche se molti di loro non sono epici), non per questo sono liquidabili come “postmodernismi da quattro soldi” 6.
Quanto costa dirsi “new”
Quanto all’aggettivo “new”, non trovo fondata in maniera convincente la discontinuità che esso designa. Per Wu Ming 1 la svolta nella letteratura italiana degli anni Novanta deriva dalla caduta del Muro di Berlino e da Tangentopoli. Ma i fenomeni artistici (e le loro etichette, le sintesi nominali che li focalizzano) non sono per forza legati a eventi storici in un vincolo di necessità stringente. Per Wu Ming 1, evidentemente sì. Il suo è uno schema storicistico, che vede l’arte e la letteratura come semplici conseguenze di eventi epocali. È un punto importante da criticare, se si vuole salvaguardare il valore allegorico delle opere letterarie, valore al quale giustamente Wu Ming 1 tiene molto (e che – aggiungo io intervenendo per così dire d’ufficio – appartiene potenzialmente a tutta la letteratura, non certo soltanto alle opere epiche-popular, italiane o straniere, nuove o vecchie che siano) 7.
Il dispositivo dell’allegoria (anche per come la illustra Wu Ming 1) consiste in una forma speciale di prefigurazione. Se un’opera è allegorica, vuol dire che è anche in grado di prefigurare il futuro. L’opera non parla soltanto del passato, ma del futuro. Non dipende totalmente da ciò che è accaduto, perché contribuisce a sagomare anche ciò che accadrà (a partire dal fatto banale, ma non per questo semplice, che essa sagoma la nostra lettura e le nostre interpretazioni).
Nel 1990 viene pubblicato Insciallah di Oriana Fallaci, notevole esempio di “Italian Epic”, per nulla ascrivibile all’ironia postmoderna: l’unica sua pecca per non essere “new” è che è un romanzo pubblicato prima del fatidico 1993, anno sancito per decreto storicistico da Wu Ming 1. Tra l’altro, fu un libro che ebbe un enorme successo, unendo elementi complessi e popular. Nel 1992 esce Petrolio di Pier Paolo Pasolini che, accettando la (non)definizione di Wu Ming 1, potrebbe essere etichettato come “oggetto narrativo non-identificato”, un libro dal respiro epico (ma è stato scritto prima! Appunto: però è stato pubblicato in quell’anno, è intervenuto storicamente in quell’anno, e ha costituito un exemplum per scrittori e scrittrici, un evento paradigmatico e germinativo). Anche solo limitandomi a questi due libri capitali (capitali per mole e successo di pubblico nel caso di Insciallah, e per mole e densità di scrittura nel caso di Petrolio) io non vedo discontinuità letteraria fra il prima e il dopo 1993.
Wu Ming 1, a pagina 79, ha già ribattuto a queste mie obiezioni affermando che chi porta esempi di libri pubblicati prima del 1993 fa “un’operazione che ignora la premessa”, ovvero che le opere del New Italian Epic siano “figlie del terremoto che pose fine al vecchio bipolarismo”. Ma è proprio questo il punto: è proprio quella premessa che non mi convince: non è che la ignoro, è che non la accetto, e il mio modo di discuterla è evidenziare che la periodizzazione di Wu Ming 1 si regge esclusivamente su fatti “storici”, su una descrizione del tempo completamente ipotecata dalla Storia, ossia dalla narrazione egemone dei “fatti di Potere”, dei fatti che contano. Ma io sono un lettore, e per me i fatti che contano sono anche le opere letterarie, vale a dire che mi interessa moltissimo come i singoli individui disarmati, armati soltanto della loro scrittura (gli autori e le autrici) hanno voluto e saputo intervenire nella Storia con le loro opere. Anche quelle per me sono eventi, per quanto apparentemente meno rilevanti degli eventi “storici” (ma anche Wu Ming 1 in New Italian Epic si occupa in gran parte di questo genere di eventi: i libri pubblicati). Non sto presupponendo dunque una storia letteraria separata da quella del cosiddetto Potere; la letteratura non è certo un recinto autarchico al riparo da ciò che accade.
Wu Ming 1 si basa soltanto sulla storia del Potere per fondare una periodizzazione letteraria, un Potere che, crollando, mutando forma, strutturandosi in nuove configurazioni, secondo Wu Ming 1 libera forze letterarie: la storia della letteratura secondo Wu Ming 1 è dettata dalla narrazione del Potere. Io che (come lettore) ho scelto di interessarmi alla letteratura proprio per stare ad ascoltare altre narrazioni, altre forme di discorso, altre storie (cioè le storie degli scrittori e scrittrici, dei cittadini armati della loro scrittura), prendo in considerazione un flusso più largo. Wu Ming 1 fa alcune tomografie assiali storiche dal 1989 al 1992, e vede giustamente il crollo del Muro di Berlino e Tangentopoli. Ovviamente anch’io in quegli anni ravviso le stesse cose, però allargo un poco lo sguardo e vedo anche Insciallah e Petrolio, vedo in Insciallah e Petrolio i più immediati e rilevanti precedenti formali e sostanziali, se non i capostipiti di ciò che Wu Ming 1 chiama “New” Italian Epic. La continuità dell’epica-popular e dei cosiddetti “oggetti narrativi non-identificati” è ininterrotta, e si potrebbe forse proseguire risalendo ulteriormente negli anni che precedono queste due opere.
Quindi, secondo me quel “new” al massimo può valere nell’accezione debole di “recente”. Ma non importa, va bene lo stesso. Chiamiamola “new”, se può servire. Però dobbiamo sapere che non è vero che è nuova, non è vero che l’epica degli anni Novanta (peraltro individuata da Wu Ming 1 in ben pochi titoli specifici) e degli anni Duemila segna una discontinuità rispetto a quello che è accaduto in letteratura a ridosso del 1993. A ridosso del 1993, negli anni Ottanta e primi anni Novanta, è lì che è importante guardare per vedere se la periodizzazione di Wu Ming 1 tiene, non tanto nei secoli e decenni distanti 8.
Chiamiamola pure “new” se può servire a diffondere elenchi di libri che vale la pena leggere, e a fornire un’occasione per descrivere come sono strutturati artisticamente. Con la cartaccia che c’è in giro, con le forze pubblicitarie che ci sono in campo per promuovere libri orrendi, qualche gioco non del tutto candido può essere lecito.
Però dobbiamo sapere quanto ci costa chiamarla così. Il prezzo da pagare per quel “new” è implicare che noi scrittori e scrittrici, noi cittadini armati delle nostre parole, non siamo liberi, né disponiamo di un’autonoma forza prefigurativa: significa ammettere che conta solo la storia del Potere, e noi non possiamo che conformarci a essa, persino quando ci diamo un nome, persino quando dobbiamo scegliere che cosa fare con la nostra scrittura. Significa accettare che le storie che scriviamo, le controstorie, le ucronie, le epopee, gli sguardi sghembi eccetera, che insomma tutte le cose che esprimiamo proprio per dare il nostro contributo a sconfiggere quel Potere e correggere quella Storia, in realtà, per nostra stessa impotente ammissione, dipendono totalmente da quel Potere e da quella Storia (giacché noi le neonominiamo a partire da come si sono neonominati la Storia e il Potere).
Se io lavoro a una critica della Storia, e a un’allegoria del futuro per prefigurare altre storie, dando forma a immaginazioni di potenzialità ineffettuate, se faccio tutto questo per dare il mio contributo artistico-immaginativo a cambiare la Storia e cambiare il Potere, e però poi assumo, per autonominarmi, le stesse categorie storiche che mi fornisce la Storia del Potere stesso, allora cado in una contraddizione autolesionistica: accetto il frame dell’avversario, assumo la sua impostazione del discorso.
Porgere orecchio solo all’eco di un Eco
Non mi sembra conoscitivamente utile ridurre il postmoderno a qualche frase delle Postille a Il Nome della rosa. Nonostante un certo qual imbarazzo e contorsionismo teorico autogiustificativo di Eco, in quegli anni, nell’aver dato alle stampe qualcosa che superava e, a detta di molti, tradiva la sua ex militanza neoavanguardista, il suo Il nome della rosa è un’opera serissima. È l’opera in questo caso che bisogna guardare, non le posteriori giustificazioni d’autore. Mi ricordo di aver letto in quegli anni una recensione su “Alfabeta”, proprio la rivista degli ex neoavanguardisti, rivista di cui Eco era una delle colonne portanti. Se non mi sbaglio fu Maria Corti, oppure Renato Barilli (cercherò di controllare) a far notare a Eco che la sua non poteva essere considerata una citazione, un’operazione en travesti, una mossa ironica: una citazione, diceva più o meno il recensore (vado a memoria a trent’anni di distanza), per essere percepita come tale, deve durare poco, ma quando si aprono virgolette per richiuderle dopo cinquecento pagine, non si tratta più di citazione, bensì di qualcosa di completamente diverso, è un lavoro in cui l’autore si riconosce, per il fatto di essersi così zelantemente impegnato a dargli forma. E in effetti Il nome della rosa è uno splendido romanzo transmediale, è la prosecuzione e sviluppo con altri mezzi, con altro medium, dell’opera di Eco studioso delle estetiche medievali. “Di ciò di cui non si può parlare, si deve narrare”, recitava il risvolto di copertina della prima edizione, parafrasando l’arcinoto motto wittgensteiniano. Il nome della rosa è uno spin-off delle teorie di Eco sulla storia della cultura e sull’eredità che ci ha consegnato (o meglio, sottratto) un filone del cristianesimo medioevale. Non potendo dimostrare, dati filologici alla mano, che la svalutazione culturale del comico derivava da una deliberata censura monastica di una fetta della Poetica di Aristotele, Eco lo ha fantasticato narrativamente.
Ma nel saggio di Wu Ming 1, a parte le generalizzazioni manchevoli e le faziose sintesi panoramiche, se si tratta di analizzare da vicino ciò che è stato scritto negli anni Ottanta e Novanta, tutto si riduce a qualche frase delle Postille al Nome della rosa. Pazienza, non pochi dei libri scritti negli anni Novanta e Duemila che Wu Ming 1 inserisce nella sua lista preferenziale sono notevoli, è opportuno promuoverli e farli leggere, di questi tempi si possono anche perdonare questi espedienti non del tutto impeccabili. E poi è bello e meritorio spiegare a chi non lo sa che cos’è l’allegoria, che cosa sono i mitologemi 9: io ho avuto la fortuna di impararlo all’università, ma non tutti hanno fatto un certo tipo di studi. Fa piacere vedere degli scrittori che fanno agire le categorie analitiche della teoria letteraria applicandole alla lettura delle opere, dando una lezione a molti cosiddetti critici. Mentre leggevo le pagine in cui veniva intelligentemente rivitalizzato e messo al lavoro per l’interpretazione dei testi il tecnicismo accademico “mitologema” ho provato ammirazione. Bravo Wu Ming 1.
Gomorra e l’io come arma politica
I Wu Ming insistono molto sul valore della transmedialità, sviluppato da Henry Jenkins in Cultura convergente 10. Ma a mio parere non sfruttano a pieno le intuizioni di Jenkins non applicando questa categoria al caso Gomorra.
Roberto Saviano ha proseguito la scrittura di Gomorra con alcuni atti transmediali. Le apparizioni in televisione, il discorso in piazza a Casal di Principe nel settembre del 2006 (a cui hanno fatto seguito le minacce camorristiche, l’appello di intellettuali e politici e l’assegnazione della scorta di polizia) secondo me sono prosecuzioni transmediali di Gomorra, sono sviluppi del suo libro su altri media, non solo in quello televisivo, ma anche nel medium comizio (che è stato ulteriormente medializzato su giornali e televisioni, e Roberto Saviano non poteva non esserne conscio). Sono quegli atti che, per di più, hanno innescato una diffusione clamorosa del testo-Gomorra, che a quel punto è divenuto transmedialmente inscindibile dalla persona Roberto Saviano e dalle sue uscite pubbliche, dal vivo e sui media.
Ebbene, questi atti sono stati possibili, e sono risultati tanto più inauditi ai suoi concittadini e a tutta l’Italia e al mondo intero, perché Roberto Saviano ci ha messo il nome e cognome famigliare con il quale era conosciuto in quei luoghi fin dalla nascita, ci ha messo la sua faccia, ci ha messo la sua voce e il suo corpo. Hanno avuto un peso politico e sociale impressionante perché Roberto Saviano è andato a dire quelle cose in faccia ai suoi conterranei e ai camorristi con il suo io (prima dicendone alcune con il suo libro e poi altre di persona, e le due cose transmedialmente hanno costituito un’opera convergente), perché era di quella terra, perché ha raccontato cose che lo coinvolgevano. Ha fatto come Diceopoli e Daniel Weinberg, i protagonisti degli Acarnesi di Aristofane e di Come mio padre ha dichiarato guerra all’America di Nick Mamatas 11: si è separato dalla comunità di cui faceva parte, ha compiuto una sbalorditiva secessione individuale dalla sua comunità di appartenenza. Ha fatto un atto di parresìa, che, come ha analizzato Foucault negli ultimi suoi corsi al Collège de France, implica rischio, coraggio, libertà, coinvolgimento personale. 12.
Anche la teoria filosofica degli atti linguistici ci insegna che per “fare una cosa con le parole”, cioè per compiere un’azione parlando o scrivendo, per esempio fare una promessa, un accordo verbale su un prezzo, un matrimonio, una denuncia, non basta la forza di un enunciato astratto, separato dalla sua situazione comunicativa: bisogna metterci la faccia, la presenza, il corpo, la propria storia, il proprio nome, la propria firma. Bisogna impegnare sé stessi in quelle parole. Il nome proprio, l’io, le nostre facce non sono semplicemente vanità, esibizione, narcisismo: sono la nostra implicazione nel linguaggio. Non sono solo specchietti con cui la società dello Spettacolo ci seduce, né soltanto ingombranti maniglie che rendono più semplice alla polizia acchiapparci. In particolare, il nome e cognome è il simbolo della convergenza del medium scrittura con il medium comunicazione in presenza, faccia a faccia, comizio, immagine, ecc.
Il nostro nome proprio è una parola senza contenuto semantico rilevante. Il fatto che “Silvia” significhi “colei che abita nei boschi” non ha pressoché nessun valore ai fini del funzionamento del nome proprio. Mentre un nome comune, per esempio “postino”, per funzionare può anche permettersi di fare a meno di riferirsi a una data persona, ma deve certamente avere un significato, un nome proprio per funzionare deve riferirsi a qualcuno pur potendo permettersi di non avere un significato. Il nome proprio ha un significato designativo e pragmatico: significa la nostra implicazione nel linguaggio. Il nome proprio indica che anche noi, non solo le cose che diciamo, apparteniamo al linguaggio, siamo implicati nel discorso. È vero, così restiamo impigliati, tracciati nelle parole, e in questo modo ci rendiamo ancora più esposti al controllo dei Poteri. Ma il prezzo da pagare per chiamarci fuori dal linguaggio, e dall’apparire, e dall’esporci di persona, è una diminuzione della forza politica dei nostri enunciati. Senza nomi propri, senza facce, senza corpi, senza io, senza storia personale messa in pubblico e condivisa socialmente, possiamo compiere un minor numero di atti linguistici, o compierne di meno potenti, possiamo fare meno cose con le parole, e in certi casi addirittura non possiamo compiere azioni politiche incisive: diminuiamo o annulliamo la forza parresiastica delle nostre parole.
Il caso di Roberto Saviano, secondo me, potrebbe far riflettere i Wu Ming su quelle che sono state le loro opzioni culturali sull’identità e sulla presenza mediale. Naturalmente non sono loro gli unici responsabili di una certa cultura dell’anonimato, della pseudonimia, della “nessunanza” che ha affascinato una fetta della rete, ma credo che, prima come condividui lutherblissettiani negli anni Novanta, poi come nome collettivo Wu Ming (mi viene da dire “nome semicomune di persona”), appellativo umbratile in cui le individualità tendono a dissolversi intercambiabilmente (l’iperattivo Wu Ming 1 fa parzialmente eccezione), hanno promosso una pratica e un esempio che a mio parere non si è dimostrato il migliore possibile per una politica dell’intervento attivo.
Io penso (e lo sostengo da anni) che, nel momento storico in cui un enorme numero di persone si affaccia per la prima volta, grazie alla rete, alla possibilità di non solo esprimere opinioni, commentare l’attualità, fare controinformazione ecc., ma soprattutto compiere veri e propri atti linguistici, “fare cose con le parole”, dire la verità in faccia al potere, correndo un rischio nel gridare parresiasticamente che il re è un ladro, un criminale, un assassino, ebbene, in un momento simile è importante sostenere e potenziare il valore del coinvolgimento personale nel linguaggio attraverso i dispositivi che abbiamo per farlo, vale a dire i nostri nomi e cognomi (ed eventualmente, se e quando servono, le nostre facce e voci e immagini, e i nostri corpi fuori dalla rete, negli altri media e nel medium della comunicazione in presenza, dal vivo, faccia a faccia), pur essendo consapevoli di tutti i limiti e difetti e trappole che questi dispositivi contengono. 13
Mi pare che l’analisi di Gomorra fatta da Wu Ming 1, più che a sottolineare l’implicazione parresiastica personale e autobiografica di Roberto Saviano, punti a enfatizzare soprattutto che dentro quel libro l’autore ingloba nell’io altri personaggi, raccontando come fossero suoi dei fatti capitati a persone che non sono Roberto Saviano: così Wu Ming 1 trasforma surretiziamente Roberto Saviano in un io in qualche modo sfumato, finzionale, condividuale. Ma, ammesso che questo sia vero in qualche capitolo di Gomorra 14 a maggior ragione è stato possibile e ha ottenuto una moltiplicazione d’impatto perché c’è un io forte, individualmente personificato, un nome e cognome, una faccia, un corpo coinvolto e immerso in una storia personale e comunitaria locale ben determinata, un io che si è fatto garante di quelle parole, di quei fatti, a rischio della sua incolumità personale, parresiasticamente 15.
È un po’ sgradevole riscontrare che Wu Ming 1 affianchi a Gomorra una minuscola genealogia di libri italiani recenti che comprende un libro dei Wu Ming stessi, uno di Babsi Jones e un paio dell’ottima Helena Janacek. Può darsi, ma come misconoscere altri apporti, dalla rete, dal giornalismo militante, da altri libri che a rischio personale hanno fatto nomi e cognomi, e testi e autori che hanno difeso e praticato e sostenuto la forza parresiastica della presenza personale nel linguaggio e negli altri media, comunicazione dal vivo compresa? Per fortuna che i libri pubblicati, gli interventi su carta e in rete non si possono far sparire per decreto, e chiunque abbia sufficiente onestà intellettuale, un po’ di memoria e non sia offuscato da intenti apologetici può facilmente riscontrare tutto il lavoro che è stato fatto da tanti altri in questi anni. Ma evidentemente a Wu Ming 1, piuttosto che riconoscere come stanno le cose, interessa di più annettere esclusivamente alla propria poetica il più importante libro italiano di questo decennio.
Forse, se davvero si desidera riuscire a “essere i genitori”, come auspica Wu Ming 1, bisognerebbe cominciare ad avere la maturità di riconoscere il valore delle cose che fanno gli altri, simpatici o antipatici, “stronzi” o no che siano. Certo, ci vuole un po’ di buona volontà. Ma in gioco non ci sono le carrierine letterarie, bensì, la nostra responsabilità storica, piccola o rilevante che sia. In gioco, come scrive Wu Ming 1, ci sono orizzonti molto più ampi: “Oggi arte e letteratura non possono limitarsi a suonare allarmi tardivi: devono aiutarci a immaginare vie d’uscita. Devono curare il nostro sguardo, rafforzare la nostra capacità di visualizzare. Non c’è avventura più impegnativa: lottare per estinguerci con dignità e il più tardi possibile, magari avendo passato il testimone a un’altra specie, che proseguirà la danza anche per conto nostro, chissà dove, chissà per quanto, e chissà se verremo ricordati.” 16
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Note.
- Carla Benedetti, Pasolini contro Calvino, Bollati Boringhieri, 1998; L’ombra lunga dell’autore, Feltrinelli, 1999; Il tradimento dei critici, Bollati Boringhieri, 2002.
Alberto Casadei, Romanzi di Finisterre. Narrazione della guerra e problemi del realismo, Carocci, 2000.
Valerio Evangelisti, Alla periferia di Alphaville, L’Ancora del Mediterraneo, 2003; Distruggere Alphaville, L’Ancora del Mediterraneo, 2006.
Tommaso Labranca, Andy Warhol era un coatto, Castelvecchi, 1994.
Antonio Moresco, Lettere a nessuno, Bollati Boringhieri, 1997; Il vulcano, Bollati Boringhieri, 1999; L’invasione, Rizzoli, 2002.↩ - Una ricorrente controreplica di Wu Ming 1 a chi critica i suoi argomenti consiste nel dichiarare di non capire perché certi critici, autori ecc. abbiano timore delle sue analisi e si impegnino a obiettare alle sue posizioni pur non essendo interessati al tipo di letteratura epico-popular che New Italian Epic valorizza. Curioso argomento, dato che non dovrebbe sfuggire a Wu Ming 1 che questi suoi tre saggi, per la loro impostazione, per la rappresentazione complessiva del panorama letterario italiano e la situazione storico-politica in cui secondo il suo punto di vista la letteratura si trova ad agire, sono in opposizione alla restante letteratura che si fa in Italia (cfr. per esempio le pagine 125-126): attenzione, non è l’epica-popular a esserlo, ma come la presenta Wu Ming 1 (e suona troppo laconica e sibillina la chiusa concessiva finale del suo terzo saggio, dopo tutte le irrisioni, distorsioni, reticenze, manchevolezze, panoramiche sfuocate ecc.: “Molte cose stanno accadendo nella letteratura italiana, Il New Italian Epic è soltanto una di queste, ma è quella che mi interessa di più, e quella che mi sento spinto a esplorare”, pag. 126): così, chi si mette a criticare il discorso di Wu Ming 1, viene fatto passare per oppositore dell’epica-popular, significativamente spaventato o infastidito da essa, ecc., mentre le critiche vanno semplicemente a come Wu Ming 1 ha impostato parte del suo discorso e ad alcuni suoi argomenti che giocano l’epica-popular contro il resto della letteratura. Argomenti che non si limitano a riconoscere e definire la pratica attuale di un genere, di una modalità strutturale-tematica, di un’opzione letteraria come l’epica-popular, a cui non era stato tributato il dovuto riconoscimento da parte della critica (e questo lo trovo un indubbio merito di Wu Ming 1), ma attraverso una strategia argomentativa diretta e indiretta sostengono che essa sia l’unica cosa all’altezza dei tempi che sia stata fatta nella narrativa italiana recente. E questo avviene in modo esplicito, come dicevo, sia in vari passi irridenti, sia con la descrizione distorta di ciò che è avvenuto nella letteratura italiana degli ultimi due decenni, attraverso rimozioni, negazioni, caricature, ricostruzioni manchevoli o generiche, come cercherò di evidenziare in questi miei appunti, note comprese. Tornando alle pagine 125-126, che chiudono il terzo saggio di Wu Ming 1 e ne suggellano gli interventi, è interessante notare il climax “noista” dell’impianto retorico di Wu Ming 1, che dapprima fa un’altra ricostruzione striminzita, faziosa e manchevole di quanto è successo negli anni Ottanta e Novanta nella narrativa italiana, per poi annettere in una poetica comune, oltre a Lucarelli, Evangelisti, De Cataldo, un non meglio definito “molti altri” (va notato: ma non si trattava di opere anziché di autori?), parlando a nome non si sa bene di chi, attribuendo la propria poetica a un vasto e indistinto numero di autori, e giocandola contro un bozzetto caricaturale di atteggiamenti diversi.↩
- ”Arte e letteratura non ebbero bisogno di saltare sul carrozzone dell’autocompiacimento, perché c’erano già salite da un pezzo, ma ebbero nuovi incentivi per crogiolarsi nell’illusione, o forse nella rassegnazione. Nulla di nuovo poteva più darsi sotto il cielo, e in molti si convinsero che l’unica cosa da fare era scaldarsi al sole tiepido del già-creato. Di conseguenza: orgia di citazioni, strizzate d’occhio, parodie, pastiches, remake, revival ironici, trash, distacco, postmodernismi da quattro soldi.”, Wu Ming 1, New Italian Epic, pag. 7. Ma si veda anche la manchevole e faziosa ricostruzione della narrativa italiana fra anni Ottanta e Novanta alle pagine 125-126.↩
- New Italian Epic, p. 96.↩
- Wu Ming 1 dal canto suo ne menziona molte di meno. Infatti, se si esaminano con attenzione le pagine 10-14 di New Italian Epic (il paragrafo “La nebulosa”) ma anche tutto il resto dei suoi interventi, si scopre che le opere degli anni Novanta esplicitamente individuate e citate da Wu Ming 1 sono pochissime: praticamente solo Tina, Puerto Escondido – anteriori al fatidico 1993 – e In ogni caso nessun rimorso di Pino Cacucci, Lezioni di tenebra di Helena Janeczek e quelle, non nominate in dettaglio, di Valerio Evangelisti (altrove, alla pag. 76, sono invece menzionati i titoli Il corpo e il sangue di Eymerich e Antracite e il resto del “Ciclo del metallo”); e poi Q di Luther Blissett. Perché dico questo? Perché, di Andrea Camilleri, di Carlo Lucarelli e di Massimo Carlotto, Wu Ming 1 non nomina specificamente alcuna opera degli anni Novanta: di loro afferma genericamente che “hanno lavorato sul poliziesco in modo tutto sommato ‘tradizionale’ per poi sorprendere con romanzi storici ‘mutanti’ “ (dunque le loro opere degli anni Novanta, “tutto sommato tradizionali” non contenevano elementi che prefigurassero questa mutazione, che non per niente è definita sorprendente: e va sottolineato che Wu Ming 1 nel suo saggio mette in evidenza che sta prendendo in considerazione le opere, non gli scrittori). Neanche quelle pubblicate da Giuseppe Genna e Giancarlo De Cataldo negli anni Novanta appaiono, nelle parole di Wu Ming 1 stesso, degne di essere nominate con una menzione specifica: i due autori “hanno masticato il crime novel con in testa l’epica antica e cavalleresca”. Tra l’altro, l’espressione è ambigua: “con in testa” potrebbe voler dire che alle intenzioni non ha corrisposto una realizzazione nei testi. Sta di fatto che anche di Genna e De Cataldo non viene menzionata con convinzione e nettezza alcuna opera degli anni Novanta che possa dimostrare che in quegli anni si stesse compiendo un lavoro in controtendenza e in contrapposizione ai “postmodernismi da quattro soldi” che abbia espresso risultati esemplari. Un’ulteriore nota a piè di pagina 13 allarga l’elenco degli autori: ancora una volta degli autori, non delle opere (come invece si proponeva Wu Ming 1) e, anche qui, non menziona esplicitamente alcun loro titolo degli anni Novanta. Se c’è stata un’epica-popular negli anni Novanta (e dunque, secondo l’impostazione di Wu Ming 1, un’apertura di percorsi fuori dall’ironia postmoderna), secondo Wu Ming 1 essa si è manifestata in ben pochi libri.↩
- Parlando di Gomorra, quindi in un altro contesto, Wu Ming 1 è costretto a contraddirsi lasciando trasparire un’immagine di un decennio con ben altra ricchezza di apporti: “A partire dagli anni Novanta diversi romanzieri hanno percorso le strade dell’oggetto narrativo non-identificato, scrivendo inchieste come se fossero romanzi, romanzi scritti come ricerche di storia orale, automitobiografie spacciate per romanzi o reportage, commistioni di romanzo storico e saggistica, eccetera. In molti casi anziché la compiuta fusione realizzata da James Ellroy, si è avuta una mera giustapposizione, o un trapianto mal eseguito, con conseguente rigetto. Aspettavamo tutti un oggetto narrativo all’altezza dell’intento. Quell’oggetto oggi è qui, e racconta i ‘luoghi oscuri’ di un intero paese” (pag. 93). Il giudizio generale è sbrigativo, non argomentato, generalizzante (“molti casi”; quindi, non tutti); ma ciò che conta è che ne traspare, sebbene sfuocatamente e con un appiattimento sullo sfondo, un ribollire di opere che persino dal giudizio insoddisfatto di Wu Ming 1 indicano tutt’altro atteggiamento verso la scrittura rispetto ai giudizi sommari sugli anni Novanta espressi altrove. La strategia argomentativa di Wu Ming 1 in New Italian Epic è quella di allontanare sullo sfondo, offuscare le tracce o rimuovere l’esistenza di tutto ciò che si muoveva e si muove di positivo e fruttuoso, negli anni Novanta e dopo, accanto e al di fuori dell’epica-popular o della letteratura di genere.↩
- Wu Ming 1 tende ad attribuire alla narrativa epica-popular caratteristiche e potenzialità che sono proprie (a seconda dei casi, naturalmente) di gran parte della narrativa e della letteratura tutta: allegoria, complessità e popolarità, straniamento, sovversione dissimulata di linguaggio e stile, ecc.↩
- La genealogia di Wu Ming 1 tende a cancellare le tracce di quanto è accaduto di buono in letteratura negli ultimi decenni anche nel riepilogare la tradizione di romanzi storici che gli autori New Italian Epic “hanno ben presente e [con la quale] dialogano”. Per esempio in questo passo:”l’Italia ha avuto grandi romanzi storici, libri che definiscono la loro epoca, come I viceré di Federico De Roberto, Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello, Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli, Metello di Vasco Pratolini, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Artemisia di Anna Banti, eccetera”, pag. 16. È significativo che l’elenco sfumi nella dissolvenza di quell’“eccetera” evitando di avvicinarsi al periodo precedente il fatidico 1993.↩
- A proposito: “Polvere di sangue e sudore chiude la gola” è un’enallage.↩
- Henry Jenkins, Cultura convergente, prefazione di Wu Ming, Apogeo, 2008.↩
- Nick Mamatas, Come mio padre ha dichiarato guerra all’America, Cargo, 2008.↩
- “Così, come un moderno parresiastes, Pasolini manifestava il più direttamente possibile ciò che pensava, rischiando l’impopolarità, l’ostraci-smo.” La citazione è tratta da Il tradimento dei critici (2002) di Carla Benedetti, che riprendendo suoi interventi degli anni Novanta dedicava alla parresìa degli intellettuali, con particolare riferimento a Pasolini, un intero capitolo del suo libro (pagg. 111-134). Sul tema della parresìa si può consultare l’utile ricostruzione delle ricerche foucaultiane nei suoi ultimi anni di vita e insegnamento al Collège de France compiuta di recente da Laura Cremonesi in Michel Foucault e il mondo antico, Edizioni ETS, 2008, da cui traggo questo brano: “parrhesia, […] con cui è possibile rivolgersi ai potenti che hanno commesso ingiustizia, accusandoli pubblicamente con una parola veritiera e coraggiosa. Questo tipo di discorso costituisce la principale ed unica risorsa del più debole, cui non rimane altro, di fronte a coloro che abusano del proprio potere, che prendere la parola e dire la verità, mettendosi in gioco e correndo tutti i rischi connessi allo scontrarsi con il potere.” E, più avanti: “il discorso di Creusa rappresenta dunque la prima matrice dell’atteggiamento parresiastico, in cui sono insiti gli elementi di rischio, di libertà e di coraggio che rimarranno, secondo Foucault, sempre legati alla pratica di parrhesìa, in tutte le sue successive declinazioni”, pp. 149-150.↩
- Su questi temi, per un’analisi del vincolo etico fra il parlante e le sue parole, ho trovato molto utile Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento di Giorgio Agamben, Laterza, 2008. In particolare la sintesi finale che, dopo aver trattato di diritto romano antico, si sporge sulla contemporaneità: “l’umanità si trova oggi davanti a una disgiunzione o, quanto meno, a un allentamento del vincolo che, attraverso il giuramento, univa il vivente alla sua lingua. Da una parte sta ora il vivente, sempre più ridotto a una realtà puramente biologica e a nuda vita, e, dall’altra, il parlante, separato artificiosamente da esso, attraverso una molteplicità di dispositivi tecnico-mediatici, in un’esperienza della parola sempre più vana, di cui gli è impossibile rispondere e in cui qualcosa come un’esperienza politica diventa sempre più precaria. Quando il nesso etico – e non semplicemente cognitivo – che unisce le parole, le cose e le azioni si spezza, si assiste infatti a una proliferazione spettacolare senza precedenti di parole vane da una parte e, dall’altra, di dispositivi legislativi che cercano ostinatamente di legiferare su ogni aspetto di quella vita su cui sembrano non avere più alcuna presa.” E, più avanti: “L’elemento decisivo che conferisce al linguaggio umano le sue virtù peculiari non è nello strumento in se stesso, ma nel posto che esso lascia al parlante, nel suo predisporre dentro di sé una forma in cavo che il locutore deve ogni volta assumere per parlare. Cioè: nella relazione etica che si stabilisce fra il parlante e la sua lingua. L’uomo è quel vivente che, per parlare, deve dire ‘io’, deve, cioè, ‘prendere la parola’, assumerla e farla propria.” (pagg. 96-97; il corsivo è dell’autore).↩
- Ma come fa Wu Ming 1 (e Alessandro Licenzi da lui citato) a darlo per assodato? Ha qualche inside information? A meno che mi sia sfuggito qualche passo esplicito, non mi risulta che il testo di Gomorra lo dichiari né lo lasci in alcun modo intendere. Quello di Wu Ming 1 è un sospetto, magari anche legittimo, ma il fatto è che su questo sospetto fonda la sua lettura del libro, insistendo molto nel cercare di evidenziare questa supposta ipertestimonialità, questa capienza finzionale dell’io di Roberto Saviano, mettendo in ombra la vera forza parresiastica di Gomorra che invece si basa sull’io anagrafico, sul nome e cognome che sottoscrive ciò che racconta, sulla faccia in quarta di copertina dell’autore che guarda negli occhi i suoi nemici.↩
- Secondo me Carla Benedetti ha messo in luce in maniera molto convincente le modalità della parresìa in Gomorra in questo intervento.↩
- New Italian Epic, p. 60.↩
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Grazie dell’ospitalita’. Questo intervento e’ disponibile anche in pdf, con impaginazione delle note a pie’ di pagina, nella sezione “Altre letture” di ilprimoamore.com.
L’avevo già letto sul Primo Amore e mi era piaciuto molto. Pacato, argomentato, mi sembra che colga alcune fra le contraddizioni più evidenti di quel testo. Lo sottoscrivo.
veramente ottimo articolo. per quel che vale – nel senso che lo dico io – complimenti a Scarpa.
Ricordo bene la polemica sull’interpretazione di Wu Ming a “Gomorra”: sono confortato nel ritrovare oggi, a più di un anno di distanza, nel pezzo di Scarpa una precisa analisi che, a mio parere, dimostra molto bene come Saviano, parresiasta, non sia inglobabile nell’orizzonte critico di Wu Ming senza venirne strumentalizzato.
Davvero singolare, poi, che la griglia della New Italian Epic sia così ancorata alla Storia (del Potere, ma sempre storia): è fin troppo facile che ne scaturiscano clamorose eccezioni.
Lucidissimo e molto interessante. Complimenti a Tiziano.
Un articolo raffinato e preciso
ottimo intervento critico, il cui respiro supera il contingente della polemica. Meritevole davvero l’apertura di campo, come anche la sottolineatura sul “valore del coinvolgimento personale del linguaggio” e l’appello a una “responabilità storica”. Ripensando anche agli interventi di Inglese e Donnarumma in un analogo dibattito sempre su NI, credo davvero che sarebbe ora di allargare le riflessioni coinvolgendo più generi, malgrado gli squilibri esistenti negli attuali assetti letterari, anche perché molte idee che affiorano da una parte sono magari state dibattute anche da un’altra (qualcosa del genere credo stia prendendo forma su Absolute Poetry).
Sottoscrivo molte delle cose sostenute da Tiziano Scarpa nel suo nell’articolo. NIE è un libro frettoloso, troppo superficiale per quanto vuole essere ambizioso, e dà moltissime cose per scontate, quando scontate non lo sono affatto. Non mi riferisco soltanto alla barriera cronologica dell’anno 1993, che può essere giustificata dalla necessità di dover pur partire da qualche parte (ma perchè poi? Non si poteva argomentare in maniera più sfumata?); non mi riferisco soltanto alla raffigurata subalternità della letteratura nei confronti della storia; mi riferisco pure a una numerosa serie di assunti filosofico/religioso/antropologici ispirati da un materialismo senza possibilità di replica; e mi viene allora da replicare con Wittgenstein: “Il senso del mondo deve trovarsi al di fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e avviene come avviene: in esso non v’è alcun valore e se ci fosse non avrebbe alcun valore.” Mi riferisco altresì ad affermazioni paradigmatiche e sentenziose su cosa è letteratura e cosa non lo è, su cosa lo è stato in Italia e su cosa non lo è stato, affermazioni che per la loro lapidaria perentorietà avrebbero richiesto, a mio avviso, più accuratezza, più approfondimento, più cura dei particolari, più tempo, più spazio. In altri termini, la mia impressione è di trovarmi di fronte ad un manifesto letterario prematuro (non voglio dire pretestuoso), il quale o è nato troppo presto, o è nato troppo piccolo – oppure entrambi i casi, il che se non è, in assoluto, un male, non è neppure un bene.
Miscredenti. Perche’ il 1993? Semplice: “Mourinho yearned for greater challenges and in 1992 an opportunity arose to work as a translator for a top foreign coach. Bobby Robson had been appointed as the new manager of Lisbon side Sporting and the Englishman required a local coach with a good command of English to work as his interpreter”. Una stella stava nascendo e voi tutti dormivate.
Vi meritate il Filippo: http://www.youtube.com/watch?v=naUVeGX5kiM
anche se non tutti (magari) sentivano il bisogno di un tale intervento, io sì
Ormai gliel’hanno detto un po’ tutti, benché in modi diversi e con diverso grado di eleganza: i parametri con cui Wu Ming 1 ha immaginato di poter fare di ogni erba letteraria citata nel suo saggio sul Nie un FASCIO sono vecchi come il cucco e, soprattutto, talmente generici e larghi da poter inglobare chiunque, da Sveva Casati Modignani a Giuseppe Iannozzi, anziché i soli Corpi Astrali della Nebulosa propriamente (e sedicentemente) detta:
[http://lucioangelini.splinder.com/post/18530370/LE+MILLE+BOLLE+BLU ].
Scrive Tiziano Scarpa:
«Wu Ming 1 tende ad attribuire alla narrativa epica-popular caratteristiche e potenzialità che sono proprie (a seconda dei casi, naturalmente) di gran parte della narrativa e della letteratura tutta: allegoria, complessità e popolarità, straniamento, sovversione dissimulata di linguaggio e stile, ecc. »
Molto divertenti anche le frecciate sulla scelta degli eventi epocali (Twin Towers, Fall of the Berlin Wall) che avrebbero determinato l’insurrezione dei Nie-lunghi¹ de noantri…
(1) Nielunghi: stirpe mitologica di nani, N.d.r.
Sempre più interessanti questi interventi su Nazione Indiana.. Concordo su tutto e in particolare sulla critica al ricorso ad una lettura di tipo storicistico..
@Scarpa:
“Wu Ming 1 si basa soltanto sulla storia del Potere per fondare una periodizzazione letteraria, un Potere che, crollando, mutando forma, strutturandosi in nuove configurazioni, secondo Wu Ming 1 libera forze letterarie: la storia della letteratura secondo Wu Ming 1 è dettata dalla narrazione del Potere.”
Questo passaggio non mi è chiaro. Bisogna intendersi bene su che cos’è il potere. Un conto è dire che il crollo del potere ha effetto su delle narrazioni (che possono decidere tanto di narrare il crollo di quel potere, da diverse angolazioni, quanto d’instaurare un contropotere), altro è parlare di narrazione del potere. Che poi poche righe sopra è lei stesso a dire che “la letteratura non è certo un recinto autarchico al riparo da ciò che accade”. A me questa sembra un’argomentazione un po’ contraddittoria, poi si può discutere del fatto che il 1993 sia una data arbitraria…
forse s’intende “si basa sulla storia del Potere” come “dipende dal Potere, dai suoi crolli come dalla sua salute e dalle sue istituzioni”.. Avrebbe ragione Scarpa, la letteratura non ne è certo immune (Che cos’è la letteratura di Sartre..) ma ridurre, riportare tutto l’orizzonte letterario ad un dialogo con la storia (sia quella dei vincitori che quella dei vinti, a questo punto) è sicuramente limitante. è una lettura che non coglie dinamicità, sfumature e perde quasi interamente il rapporto con l’individualità, con il genio o talento dell’artista.
Ivan
che poi, volendo e dovendo fare una sintesi [coatta] di quanto scrive T. Scarpa, il punto è – sì, me l’ero chiesto anch’io, neanche tanto tempo fa:
Ma scusa – caro R. Bui – ma A. Moresco è NIE o non è NIE? E il [A.] Moresco di Controinsurrezioni, accoppiato per altro col NIE V. Evangelisti, è NIE?
E come può non esser NIE quel Moresco, nonostante Verdi e Leopardi e le Cinque giornate?
ché, se Moresco – almeno *un* Moresco – è NIE, perché non citarlo, nel saggio Einaudi?
dice T. Scarpa, o meglio sottintende: perché A. Moresco vi sta antipatico (parla di “stronzi”, Scarpa, mi pare).
bene: venendo a noi: sono almeno due anni, se non tre che tra i due gruppi (Primo amore vs Carmilla) esistono motivi del contendere, motivi del contendere tutti occasionali e faziosi.
tutte stronzate, dico io. Moresco che dice che Genna è cattivo che dice che non è vero che Saviano se l’è inventato Scarpa ecc.
io dico: Primo amore e Carmilla [+ Giap!] sono tra le poche cose che *fanno* cultura in questo nostro povero Paese.
io ho letto Scarpa, ho letto Moresco, ho letto Evangelisti, ho letto WuMing ecc.
per me tutti questi [ma non solo questi] sono autori che vale assolutamente la pena di leggere. nei loro libri e in rete.
e se si tengono sulle palle: be’, pazienza!
possibile che T. Scarpa, R. Bui ecc. non si rendano conto del contesto socio-culturale nel quale si stanno muovendo, che gli Anni zero sono il punto Zero dell’azione culturale e dell’idea stessa di conoscenza e coscienza?
possibile che in mezzo a tale deserto, le migliori menti di un Paese, pensino solo [non solo, ma troppo spesso] a tirarsi occasionali piccoli e inutili sgambetti?
e.
Spostare il discorso sul campo del soggetto mi sembra assai rischioso:chè il genio o l’artista non sarebbero sottoposti giorno dopo giorno alla pressione del potere? Anche a non volerne parlare, insomma, si finisce col parlarne.
Il fatto che in NIE vengano scelti alcuni testi perché dialogano con una certa storia, non vuol dire fare un’operazione che sottometta l’intero orizzonte letterario a tale lettura, bensì aver operato una scelta di campo, credo…
Nel cinema, ad es., dopo l’11 settembre 2001 si è continuato a fare di tutto (dalla commedia pecoreccia italiana ai film intimisti) ma ciò non toglie che quell’evento abbia inciso profondamente su una tanta produzione e abbia in qualche modo prodotto una curvatura dell’orizzonte…
Il vero, incofessato termine post quem è il 1996, l’anno della beffa alla Mondadori. “Nel 1996 alcuni aderenti al Luther Blissett project (oggi Wu Ming) forniscono alla casa editrice Mondadori, interessata a sfruttare commercialmente il fenomeno mediatico, alcuni testi alla rinfusa tratti da internet e conditi di banalità sociologiche, che Mondadori pubblica spacciandole per ‘il manifesto delle nuove libertà'”. (Wikipedia)
Nel 2009 la beffa si è ripetuta ai danni – ehm, a vantaggio – della casa editrice Einaudi Stile Libero, con la bufala del NIE.
Sono stato il primo, se permettete, a rompere le uova nel paniere ai sempre goliardici (malgrado l’età avanzi anche per loro) Wu Ming:
http://lucioangelini.splinder.com/post/16883086/SMASCHERATA+LA+NUOVA+BEFFA+DEI
Più che mai vale per wu ming la massima che quando manca la scrittura la si butta in poetica
@tiziano scarpa… Non conosco a fondo il testo di cui parli ma vorrei partire dalla mia esperienza di lettore per collegare alla tua riflessione, che mi sembra completamente condivisibile, un inquietante sintomo di cui ho potuto parlare con Luperini nel suo blog collegato al sito della Palumbo. Per farla breve ho chiesto a Luperini che cosa ne pensasse di una quarta di copertina Einaudi, del libro dedicato agli scritti ed appunti di Pavese al tempo della direzione editoriale, in cui si descrive Pavese come “prototipo dell’editore postmoderno” per aver pensato e realizzato una collana in cui coesistevano Il capitale e La bibbia. Luperini ha risposto che si trattava di una stortura evidente del dolente modernismo (altro che postmodernismo!) di Pavese… mi sembra, allora, che dentro ad alcuni mostri sacri editoriali possa starci il tutto e il suo contrario… l’apologia del postmodernismo che arriva a fagocitare Pavese, la periodizzazione sfocata della fine del postmodernismo che è funzionale a rimuovere gli autori e i titoli che citi, la rimozione della complessità del postmoderno (giustamente tu dici “Non mi sembra conoscitivamente utile ridurre il postmoderno a qualche frase delle Postille a Il Nome della rosa”), e soprattutto, cosa che mi è sempre sembrata centrale nella valutazione complessa del postmoderno, del post-fordismo.
Infine: ma perchè in altri ambiti è assolutamente scontato parlare del postmoderno riferendone le origini alla fine del neoclassico? “Futuro del classico” di Settis ripercorre, fra le righe, alcune idee che hanno origine in Honour …
Ma infatti! Io sapevo che il Romanticismo era postmodernissimo. Cos’è, un problema cronologico? Che visione così cristianamente lineare del tempo!
Per ragioni insondabili, mi viene in mente che durante la Seconda Guerra Mondiale il giubbotto di salvataggio in dotazione ai piloti della Royal Air Force britannica venne chiamato Mae West. Pare avesse una forma vagamente tondeggiante. Tutti allegramente con le poppe a pera. Insomma. E postmodernissimi.
@ e. (e Tiziano Scarpa, chiamato in causa)
Non capisco perché scrivi: «se Moresco – almeno *un* Moresco – è NIE, perché non citarlo, nel saggio Einaudi?»
Moresco, infatti, è citato nella versione 3.0 (quella su carta). ma lo era anche nella 2.0 (quella on line).
Non capisco neanche quel «nonostante Verdi e Leopardi e le Cinque giornate»: Leopardi (ed anche il padre Monado, e Kipling, e Rossetti) è anche in Il signor figlio di Zaccuri, anche lui citato: perché quel “nonostante”?
E non riesco a vedere dove Scarpa lasci intendere di pensare che “Moresco sta antipatico” agli autori del NIE (o ai redattori di carmilla? o ad entrambi?). Non mi sembra che Scarpa usi, neanche inintenzionalmente, questa sgradevolezza: e non è vero che Moresco sta antipatico al gruppo di autori che produce carmilla. Verifica, per favore. È una distorsione che capita spesso di incontrare, ma non corrisponde a realtà.
Che invece “Carmilla” e “Il primo amore” abbiano diverse impostazioni culturali, divergenti visioni del mondo e, all’interno di queste visioni, divergenti valutazioni sulla letteratura italiana, è un fatto: e perché mai non dovrebbero? A suo tempo l’espressione gramsciana “battaglia delle idee” era un titolo di vanto per la cultura italiana, era titolo di rubriche culturali. Per inciso: può capitare che Tizio e Caio (Wu Ming e Benedetti) si esprimano in modo analogo, poniamo, sul postmoderno – come è capitato a Benjamin di dire una cosa già detta da Croce contro i “generi letterari”: ma diverso è il contesto in cui sono espressi i rispettivi giudizi, diverso è il significato (anche se il senso può sembrare simile).
Però, all’interno di questa divergenza di vedute e di letture, mi sembra che Scarpa, mantenendo la propria differenza e le proprie riserve, non abbia alcuna intenzione di buttarla in caciara negando che quello da lui criticato sia comunque un punto di vista da discutere. E infatti non offende, e non ricorre alle fallacie, che sono sempre segno di debolezza intellettuale.
Impostazioni culturali estremamenti provinciali. Il mondo è una grande provincia. Ma l’Italia lo è di più. Mi spiace.
@girolamo
Verdi, Leopardi e le Cinque giornate dovrebbero, appunto, rafforzare l’eventuale appartenenza di Moresco al NIE.
comunque ho scoperto di dover leggere il NIE 3.0… [ero rimasto a Moresco *non* NIE, io – chiedo venia]
a parte tutto: mi piacerebbe sapere, Girolamo, se è chiara la parte finale di quanto ho scritto nel precedente commento.
non si tratta di differenti visioni del Mondo e della scrittura e della narrativa. quelle ben vengano e sono imprescindibili [anche se non si può prescindere – credo – dal dire che – per esempio – Antonio Moresco è importante nella storia della letteratura italiana, qualunque visione del Mondo si abbia; perché delle “cose certe” devono pur esistere]
parlo di piccole beghe: mi riferisco, per esempio, a – cito a memoria come T. Scarpa, anche se io ho poca memoria – un’inutile e enorme polemica su Saviano, quando T. Scarpa sul Primo Amore scrisse qualcosa tipo “e noi tutti ci mobilitammo perché Saviano fosse pubblicato”, alla quale risposero stizziti Genna e WuMing [non ricordo se 1, o 2] ecc.
tutto ciò mentre un intero sistema culturale sta andando a puttane.
e chiudo, ché temo non sarò certo io a modificare lo stato delle cose.
e chiudo anche prima di esser frainteso.
e.
Ma perché non si mobilitano per far scrivere e pubblicare un secondo libro a Saviano?
Penso che Girolamo abbia ragione. Anche il suo discorso sui contesti differenti di affermazioni altrui apparentemente analoghe e’ molto sensato (lo dico autocriticamente). Effettivamente va riconosciuto a Wu Ming 1 di aver fatto “sistema” di tesi e pezzi di analisi varie ed eventualmente gia’ espresse da altri, si’, ma in altri contesti, come dice Girolamo.
@ e.
Si’, e’ vero, allora ci rimasi un po’ male. Mi sembrava semplicemente di aver detto che mi sembrava bello che per una volta tutta la cosiddetta intelligencija italiana (da blogger a critici a tv ecc.) avesse fatto la sua parte per sostenere un libro di valore. Ma non rivanghiamo, e’ acqua passata. Non auspico nessuno stucchevole unanimismo, ma un po’ di lealta’ e il massimo possibile di cooperazione per le cause che ci sembrano condivisibili. La situazione lo richiede.
a lucio angelini, ma dove cazzo eri il 20 luglio 2001?
chi non fu a genova non capirà mai questo libro…
nè gramsci.
nè benjamin…
@ no/made. come ti ho già scritto in un’altra occasione: “Guarda che a me non mi incanti” (tipica espressione fanese).
Sul piano metodologico (e a questo mi fermo) gli “appunti” di Scarpa mi paiono appartenere più a una cronaca letteraria, ossia a una descrizione di un periodo, che a un discorso critico. Ma da che mondo (critico) è mondo (critico), a nulla serve rispondere con una radiografia dell’esistente a una analisi critica volta a individuare una tendenza colta all’interno di un corpus storico-letterario dato.
Per identificare e analizzare una tendenza letteraria occorre fare una scelta all’interno di un “blocco” letterario di un certo periodo. Che poi “il meglio” sia fuori o dentro questa tendenza è un altro discorso.
E, a proposito delle debolezze del NIE, mi pare una grossa mancanza tacere della produzione poetica di quel periodo considerato. Ammessa l’esistenza del NIE, la poesia non è degna di farne parte? Alla letteratura non appartiene solo la forma romanzo.
Concordo con Macondo: il mio elenco di libri notevoli degli anni Novanta che ho inserito nella prima parte del mio intervento e’ pura cronaca. Ma non bisogna dimenticare che e’ una cronaca in risposta a una descrizione secondo me manchevole di quel decennio. Le mie sono obiezioni, non una dichiarazione di poetica ne’ l’individuazione critica di un’altra tendenza. Che poi fare obiezioni non serva a nulla, puo’ darsi. Comunque a me interessano le opere singole, meno le tendenze e i “blocchi”.
@ Macondo. Verissimo. Hai ragionissima. Nessuna citazione per:
http://www.filastrocche.it/contempo/angelini/poesie_it.asp
@Tiziano Scarpa
bene, anzi benissimo.
“il massimo possibile di cooperazione per le cause che ci sembrano condivisibili. La situazione lo richiede” è esattamente quello che avrei voluto scrivere, io.
grazie,
enrico
D’accordissimo con macondo e scarpa. La poesia, che fine ha fatto? Vorremo forse dare ragione a quei critici anche illustri (vedi Alfonso Berardinelli) che sostengono che la poesia italiana è moribonda se non già morta? Riguardo invece l’elenco di scarpa, esso a dire dell’autore stesso non vuole, nè deve essere, in tale contesto, altro che cronaca. Ed è giusto così.
Scusate, ho fatto casino. Volevo dire che è Scarpa stesso, giustamente, ad affermare che il suo elenco di autori è cronachistico.
@ angelini,
godibilissime le tue filastrocche. Ma non illuderti di vincere il Nobel con quelle.
@ tiziano scarpa,
una cosa dei tuoi appunti non capisco. Quando scrivi “Wu Ming 1 si basa soltanto sulla storia del Potere per fondare una periodizzazione letteraria”, a quale storia del Potere ti riferisci? Per meglio dire: non credo che in una epoca storica data di una nazione ci siano più “storie”, quella del Potere e altre. Ci possono essere più narrazioni, come tu stesso più sotto dici, ma che si collocano oggettivamente all’interno di una unica Storia, che è quella del Potere (nessun altro mondo parallelo, dunque, ma un “mondo di mondi”). Per togliere il termine Potere dal suo stato di ectoplasma, aggiungo che se si identifica il potere con il capitalismo (nelle sue varianti storiche: protezionista, liberista, keynesiano, von hayekiano, o stravoltino com’è oggi) e, nella sua forma politica, con i partiti che hanno governato la mediazione tra capitale e lavoro (nelle loro varianti: democristiano, craxiano, berlusconiano), allora a mio avviso c’è solo una Storia, all’interno della quale si iscrivono le varie narrazioni. Anche la storia dei vinti non è un’altra storia, ma fa parte di questa, quella che varia è la prospettiva, il punto di vista che denuncia le mistificazioni di cui i vinti sono oggetto dal discorso del Potere. In questa mia riflessione in soldoni prescindo dalle messe a punto foucaultiane sul potere, che verrebbero dopo. Un esempio: se, secondo la propria valutazione critica, uno storico della letteratura decide di abbandonare la periodizzazione convenzionale (e spuria, che rinvia solo a se stessa) di far iniziare il secolo letterario, poniamo il Nocevento, col 1900, e sceglie, che so, l’inizio o la fine della prima guerra mondiale o la crisi economica mondiale del 1929, ebbene, anche questa periodizzazione fa parte della “storia del Potere”. Perché non ce ne sono altre, di storie materiali.
Ce ne sono e come. Non c’è solo la storia letteraria (per la quale, ha ragione Scarpa, le periodizzazioni sarebbero arbitrarie se non legate a svolte significative nella strutturazione del testo o nella creazione di un pubblico di lettori). C’è anche la storia del rappresentare. E la letteratura non è solo sintassi e pragmatica, ma anche semantica, cioè rappresentazione è difficile non vedere che il crollo del muto di Berlino ha rappresentato una “rottura epistemologica” nella rappresentazione storica, per almeno tre buoni motivi: ha posto termine all’equivoco della ricostruzione ideologica del passato, ha eliminato la possibilità di storie locali o regionali, ha deinitivamente sancito l’ingresso nella dimensione profetizzata da Benjamin dell’in-esperienza. E’ su questo piano che si deve situare secondo me la svolta indicata dalla NIE: la ricerca di un paradigma epico per illuminare una cronaca che rischia di essere liquidata dalla sua stessa esorbitanza o peggio trasformata in menzogna dal fermo-immagine proposto dall’onnipotere dei media. D’altra parte credo che la NIE sia più un auspicio che una registrazione, o almeno sia l’una e l’altra cosa, come lo è stato ogni movimento letterario che ha prodotto manifesti oltre che opere.
@ Macondo. Vincerò il Nobel con “Lucio in the sky with diamonds”, ci ho una vocina proprio quiddentro che me lo sussurra dal lontano 20 luglio 1969 (primo Moon Landing di Armstrong), la vera data che segnò l’ingresso dell’umano nel mare della Tranquillità (con inevitabili effetti di jet-lag sulla letteratura italiana).
@ walter,
forse c’è un equivoco. Quando leggo “storia del Potere” (e non penso ci si riferisca a quello letterario), io capisco che si intenda la storia materiale degli uomini, ossia la storia dei loro rapporti sociali, e se intendiamo uomini come “classi sociali”, la storia dei rapporti di produzione e dei conflitti sociali tra classi: dominante e dominata. A questo punto la “storia del Potere” (lasciamo perdere, per il momento, la sua conformazione storico-moderna come potere diffuso, rizomatico ecc.) è la storia tout court, non ne vedo altra, all’interno della quale ci stanno le sue contraddizioni, le sue voci soffocate o cancellate (i vinti), ecc. La storia della produzione intellettuale degli uomini (che storia vera e propria non è), si colloca all’interno, con le sue sfasature (sennò sarebbe un puro riflesso), della storia materiale. Anche il crollo del muro di Berlino mi pare appartenere a questa unica storia, dato che non è piovuto dal cielo, ma fa parte di precisi rapporti di forza. Del resto, anche Benjamin sottolineava il rapporto profondo tra storia materiale umana e bellezza letteraria, quando sottolineava l’orrore che è alla base dei capolavori artistici, e che l’occhio estraniato dello storico può cogliere.
@ angelini,
anche Brunetta pensava di vincerlo, il Nobel. Poi lo sacrificò all’impegno politico. Potrebbe essere un modello, no?
@ Macondo. In confidenza: chissenefrega del Nobel e di Brunetta? Lasciatemi così… come una cosa posata in un angolo e dimenticata. Qui non si sente altro che il caldo buono. Sto con le quattro capriole di fumo del… saggio di Wu Ming. Ciao
@valter binaghi
Sono d’accordo con quanto dici. Ma non ti sembra che i romanzi NIE, nel tentativo (chi sa quanto conscio, poi) di combattere la cultura del fermo-immagine, ricaschino poi spesso in narrazioni e metafore e stili metatelevisivi? Che, in altre parole, non riescano affatto a liberarsi dalla onnipresente, pervasiva cronaca dei media? Che ne siano anzi tuttora ingoiati, sia che si parli di autofiction, sia che si parli di docufiction, oppure di oggetti non identificati, come definisce GOMORRA Wu Ming 1?
@Macondo
Niente da dire sulla tua definizione: è quella del materialismo storico ortodosso, ha una sua coerenza e ha avuto una sua capacità interpretativa dell’epoca gutemberghiana, cioè della linearità e della riproduzione meccanica. Ma io credo sia stata travolta da una rottura epistemologica che non poteva comprendere. Per essere più chiari, io credo che nella società dello spettacolo la rappresentazione storica si sostituisca alla produzione di storia, e per questo i paradigmi di McLuhan mi sembrano più calzanti, perchè spiegano quell’epoca e questa
@Diamante
Potrei dirti di si e di no. Wu Ming1 mette insieme talmente tante cose (eppure, anche qui ha ragione Scarpa, ancora troppo poche) che vi si trovano esempi di un post-modernismo più irriso che superato. Del resto sia i documenti sulla NIE che il libro di Marco Dinoi (Lo sguardo la memoria e l’evento), che Wu Ming1 ha ben presente, dichiarano espressamente un pluralismo nei modi di inserzione del frammento storico all’interno del discorso narrativo. E’ per questo che sto rimuginando intorno a questa questione da un po’, mi pare una buona piattaforma per mettere in moto cose, più che esprimere formule conclusive.
@ e.
le piccole beghe non sono tali (anche e a volt e i toni si alzano troppo, lo dico io per primo) se esprimono qualcosa di consistente sotto la punta dell’iceberg. Mi è capitato di dirlo, su questo blog, anche a Cortellessa, e non ero ironico neanche un po’: c’è una visione del mondo, e della resistenza ad esso, che si esprime nel paradigma del messaggio nella bottiglia. Non è la mia visione del mondo, ma è il piano B, ed ha la piena dignità di chi l’ha espressa per primo, e cioè Adorno. L’antinomia Adorno/Benjamin esprime due visioni del mondo che divergono a partire da una comune radice, e che solo nella prassi troveranno conferma o smentita. Io vedo la differenza tra la comunità di autori che si esprime su carmilla (ed anche, in parte, su NI) e quella che ha dato vita a “Il primo amore” (ed anche, in parte, che scrive su NI) in questi precisi termini.
In questi termini “il massimo di cooperazione possibile per le cause che ci sembrano condivisibili” (come scrive T. Scarpa) non è neanche un proposito: dalla scuola ai migranti, lo vedi qui, da noi carmilli, su IPA, ogni giorno, è una prassi.
@ no/made
rilancio: chi, il 20 luglio 2001, non essendo a Genova, non ha interrotto quello che stava facendo per mettere quattro stracci e due limoni in una borsa e correre a Genova, dovrebbe vergognarsi di quello che ha fatto il 21 luglio. Ed ogni 21 del mese di ogni mese di ogni anno.
OT, ma doveroso
La comune radice da cui Adorno e Bejamin divergono è questo:
«La filosofia […] è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. […] Si tratta di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica. Ottenere queste prospettive senza arbitrio e violenza, dal semplice contatto con gli oggetti, questo, e questo soltanto, è il compito del pensiero. È la cosa più semplice di tutte, poiché lo stato attuale invoca irresistibilmente questa conoscenza […]. Ma è anche l’assolutamente impossibile, perché presuppone un punto di vista sottratto, sia pure di un soffio, al cerchio magico dell’esistenza, mentre ogni possibile conoscenza, non soltanto dev’essere prima strappata a ciò che è per riuscire vincolante, ma, appunto per ciò, è colpita dalla stessa deformazione e manchevolezza a cui si propone di sfuggire.» (Adorno, Minima moralia, “Per finire”).
Ciò che per Adorno è l’assolutamente impossibile, per Benjamin è quella piccola porta dalla quale, in ogni momento, può irrompere il Messia.
Dice Girolamo: “rilancio: chi, il 20 luglio 2001, non essendo a Genova, non ha interrotto quello che stava facendo per mettere quattro stracci e due limoni in una borsa e correre a Genova, dovrebbe vergognarsi di quello che ha fatto il 21 luglio”.
La classica neo-epica stronzata.
Il punto centrale della questione è infatti il seguente: se NIE sia l’ennesimo tentativo di coltivare un orticello letterario, o invece una credibile piattaforma per una maggiore, più acuta comprensione di ciò che sta diventando la letteratura in Italia (con la spiacevole esclusione della poesia però, come già ben sottolineato da macondo); o se, nella migliore delle ipotesi possibili, NIE riesca a gettare uno sguardo lucido ben al di là del presente, come sanno fare le opere di vero spessore: cosa questa che, nel caso specifico, mi sembra improbabile, ma è un’opinione “a pelle”. Il tempo, ne basta poco, ci dirà se NIE è acqua stagnante, o acqua di fonte.
Quanto ciarpame che mi è toccato leggere. Modernariato. Io dalla vetrina mi guardo la Sedia Wassily di Marcel Breuer,simbolo del movimento modernista, accanto al Divano Bocca Gufram del 1971, omaggio a Dalì. Un palazzone moderno accanto al Cetriolo di Foster accanto ad una torretta del XVII secolo. E ripenso alla fine della Moda negli anni ’90 del secolo scorso. Nessuna corrente dominante. Solo tracciati logori ancora da sfruttare. E alla radio sempre le stesse canzoni. Da un anno. Tromboni.
E fatevelo dire. Quanto siete tremendamente televisivi! Neanche cinematografici. E pensare che c’è tutto un mondo di plastica là fuori che vi aspetta!
Sprecare poi il vostro tempo a leggere pubblicazioni tremendamente pretenziose e ridicole, con L’Italietta sul Due come sottofondo, è estremamente kitsch. Fuori tempo massimo.
Son costretto a ripetertelo Morgillo. L’ossessione della contemporaneità e dell’ultima parola è una malattia adolescenziale. Si guarisce.
Ma quale contemporaneità? Sono trent’anni che il Mondo della Produzione clona le stesse cose. La Sedia Wassily e Il Divano Bocca sono ancora in produzione! A me poi fa ridere la concezione cristianamente lineare del tempo. Quella sì, adolescenziale.
Guarire poi da cosa? Meglio morire di una presunta malattia che fare i terminali a vita.
non c’entra davvero nulla, ma…
la seduta Barcelona la fanno ancora e la fanno da ottant’anni esatti (è del 1929). o meglio la riproducono ancora.
[fra l’altro è un gran bell’oggetto]
c’entra quanto – credo – la “divergenza” Adorno-Benjamin.
e.
Sedia Wassily o Divano Bocca, non è questo il problema, né la soluzione.
Il fatto è che il culo che ci posiamo sopra è sempre lo stesso culo.
Anche il tuo, lasciamelo dire, Morgillo.
@ valter: la definizione del materialismo storico, dici, è “stata travolta da una rottura epistemologica che non poteva comprendere”. Ma il materialismo storico è nato su una rottura epistemologica (così, tra gli altri, Althusser “inquadra” l’opera di Marx), e gli studiosi francesi (a loro soprattutto si deve, alle nostre latitudini, l’analisi e lo studio della rupture e della coupure epistemologica) degli anni ’60-’70 erano tutti in odore di materialismo storico (a partire da Bachelard).
Per quanto riguarda la “storia della rappresentazione”, che mi risulti finora nessun storico della letteratura ha mai proprosto una periodizzazione storico-letteraria a partire dalla letteratura stessa, ma, a parte le periodizzazioni semplicistiche che fanno cominciare la letteratura di un secolo da quello stesso secolo (ma non è che una convenzione senza altro significato) tutti hanno inserito le svolte, le tendenze, le poetiche letterarie all’interno ( e valutate poi come reazione, o “riflesso” o corrispondenza) di avvenimenti storici trascendenti la letteratura stessa, ossia all’interno della “storia del Potere”, che è l’unica storia materiale e spirituale che io conosca. Non dico di tornare a Goldmann e alle sue periodizzazioni, ma direi che non va confusa la storia con le sue “narrazioni”.
@ diamante,
non solo la produzione poetica resta fuori della porta del NIE, ma anche molte altre espressioni artistiche: pittura, teatro, cinema, ecc. Non vedo perché solo il romanzo italiano meriti la E di NIE. E, si magna licet, quando i principali studiosi del postmoderno, da Lyotard a Jameson a, in parte, Bloom, hanno individuato e preso a esaminare questa categoria, a loro dire già in atto nella storia artistica, non si sono limitati ad analizzare le sue tracce e la sua poetica in campo letterario, ma hanno esteso l’indagine anche ad altri ambiti artistici, dall’architettura alla pittura ecc. Ora, se anche il NIE vuole essere la messa a punto teorica di una realtà letteraria dal ’93 in poi (e, ancor più, che rappresenti il contraltare del tardo postmoderno), deve verificare le sue ipotesi anche in altri ambiti artistici. E limitativo, a fine XX secolo, mi sembra anche ridurre l’indagine al romanzo italiano (anche se riconosco che ogni letteratura nazionale ha ancora una sua specificità “tematica”, come qui da noi il terrorismo ecc.). Insomma, non può esserci solo I in NIE.
@ girolamo,
riconosco che Benjamin può risultare più teoricamente “simpatico” di Adorno, e anche di Brecht e di Lukacs, ma l’origine, in parte al,eno, di questa sua simpatia è il suo accattivante coté spiritualistico (radici ebraiche, certo marxismo critico, ecc.), che si presta a più “aperture”. Una di queste aperture l’ha già sondata Scholem. Ma il Benjamin che io amo, ad esempio, non è quello delle “Tesi di filosofia della storia”.
Sull’allegoria: oggi spesso se ne parla con leggerezza (un po’ come con Benjamin), dando per scontata la sua “esistenza”, ma l’allegoria non è quella panacea che può sembrare. Dobbiamo a Goethe l’averla riportata all’attenzione moderna (anche se poi lui preferiva il simbolo), però l’allegoria è sempre scomoda, perché più del simbolo critica, con la sua figura retorica borderline, il Potere.
Mi fa sorridere la richiesta di agganciare la poesia alla giostra NIE. Mi fa sorridere, perche’ -a parte l’infondatezza ontologica del NIE stesso- chiunque sia dentro i discorsi e le bagattelle poetici non sente il bisogno di un altro abitino da metterle addosso. Anche perche’ credo che nessuno abbia un’esperienza e una apertura tali di letture di poesia contemporanea di poter arguire a tutto campo con la baldanza piluccatrice e donizettiana di un Bui.
Il massimo della rappresentazione recente contestualizzata, molto molto parziale, e’ stato fatto in Parola Plurale, edita da Sossella qualche anno fa e subito finita fuori mercato. Si presume che mettendo assieme le Parola Plurale dei diversi orientamenti poetici degli ultimi vent’anni (Cucchi-Giovanardi, il notevole “dopo la lirica” di Testa, Bertoni) e alcune revisioni fiancheggiatrici tipo quella di Galaverni, ci si possa formare un quadro dignitoso delle tendenze in atto nell’editoria maggiore o comunque riconosciuta a livello nazionale.
Il problema fondamentale della poesia e’ che ha del tutto smarrito il ruolo di porto riflessivo ed espressivo (anche politicamente) che le spettava fino a vent’anni fa. E che l’emersione di fenomeni e narratologie “pop”, fra cui buon ultimo il NIE, e’ proprio un effetto dell’allentamento sociale di tutto cio’ che connota(va) la parola fra le classi intellettuali del Paese, connotazione uccisa dai media e dal culturame di gender (dal cinema ai fumetti, dalla musica alla tv, dalla “comunicazione” alla “populizzazione”) affermatisi dal basso, senza necessita’ di studio, senza necessita’ di orecchio, senza necessita’ di talento, ma come semplice sputacchio delle emozzzioni prima e dello scaracchio umorale del momento adesso.
@ macondo
Nel lavorare su Benjamin, io ho sempre tenuto fermo che una cosa sono le mode, un’altra la sostanza. E Benjamin, sfrondato delle letture di comodo, è tutt’altro che accattivante, men che meno facile.
Sì, ma quando metti il culo su una Wassily sei una cosa. E quando lo metti sul Divano Bocca sei un’altra cosa ancora. Sempre lo stesso annoiato passante in un negozietto polveroso di modernariato. I cui commessi sbadigliano. E sfogliano riviste di design dove patinate scorrono le foto della Wassily e del Divano Bocca ancora riprodotti. Nuovi di zecca.
Io la Wassily l’ho sempre trovata più barocca di un taglio di Fontana. E profondamente tragica. Da spernacchiare almeno con un tappeto in cavallino. Il massimo è avere una Wassily in cavallino. Solo in cavallino infatti diventa una struttura portante. Tubolare. Però sai che afa ti fa in casa?! E dà pure un tocco coatto.
E magari dietro la Wassily, sulla parete, ci metti la stampa di una Marilyn di Andy Warhol. O di un Keith Haring o di un Banksy.
ZZZ ZZZ ZZZ
Che ciarpame post.post.qualsiasi cosa sono questi Wu Ming! Non mi faranno dormire stanotte. A me che piacciono sole stanzette imbottite. Vuote.
@GiusCo:
la tua affermazione è grave, gravissima. Troppo facile dare la colpa a quella che tu chiami “cultura di massa” per giustificare il fatto che oggi la poesia ha meno peso di un tempo. Definire il cinema e i fumetti “culturame di gender” è roba che non sta ne in cielo né in terra. Ti ricordo che il cinema esiste ormai da più di un secolo, e che un certo Pasolini ha parlato anche di “cinema di poesia”. Il linguaggio poetico può stare ovunque, basta seguire un poco la videoarte per capirlo…
un
contributo critico sul NIE
Un altro contributo critico sul NIE:
http://lucioangelini.splinder.com/post/20005545/PERCH%C3%89+WU+MING+1+PU%C3%92+DIRSI+C
(Perché Wu Ming 1 può dirsi cristiano)
@giusco
Quello che dici è in parte condivisibile, ma ha ragione secondo me simone ghelli a difendere cinema e fumetto (per cui io non vado pazzo); dalla fine degli anni ’80 in poi la letteratura in Italia (e non soltanto) ha attinto a queste due forme d’arte; basti pensare all’influenza di Pazienza su Tondelli, e a quella di Tarantino sui Cannibali. Che poi a me non piacciano né Tondelli né i Cannibali è un’altra questione, ma è indubbio che la letteratura abbia quanto meno manifestato una minore vitalità rispetto ad altre forme artistiche negli ultimi anni, e abbia risentito il contraccolpo delle “armi veloci” che le immagini possiedono, ed essa no.
Riguardo la poesia, il discorso è serio e complesso; conosco, fra i libri che citi, quelli di Testa e Galaverni, ma non è questo il punto, come non lo è il NIE. Il punto è: la poesia, in quanto forma espressiva estremamente cognitiva e distillata, rischia di essere uccisa dall’appiattimento (e qui sì che sono d’accordo con te) causato dai media, dai varietà, da certe volgarizzazioni di massa conseguenza delle produzioni pseudo/artistiche attuali? La poesia in quanto luogo del silenzio da cui ricavare la Parola, può sopravvivere nel caos odierno, nell’odierno ininterrotto chiacchiericcio, nel brusio idiota e continuo di televisione e bombardamenti estetici (bassi, molto spesso) d’ogni tipo? E ancora: la poesia sa difendere il proprio spazio, o si sta sempre più chiudendo in circoli autoreferenziali, in antologie compilate fra amici, in compiacimenti gratuitamente snob, privi di alcuna vera urgenza? E ancora: saremmo in grado oggi di riconoscere l’emergere di veri poeti, o semplicemente di vederli nel senso materiale del termine, in mezzo alla profluvie di pubblicazioni, recensioni entusiaste, riviste, libri a pagamento, ecc ecc? Fra l’altro la sensazione netta è che moltissimi scrivano e pubblichino poesia, ma pochissimi la leggano. Una schisi drammatica. Come ho già detto in un altro post c’è chi, come il critico Alfonso Berardinelli, preconizza la fine prossima, forse già avvenuta, della poesia così come l’abbiamo sempre intesa; e vede uno scivolamento della poesia medesima nella prosa. Io non lo credo: credo invece che ciò che oggi manca sia una cultura in grado di vedere dove c’è vera poesia, il che significa per i poeti solitudine, angoscia, spaesamento, mancanza di un luogo di riconoscimento di sé, di condivisione, confronto, crescita, conforto o attacco. Il rimedio a tale frantumazione, a tale cieco e monadico vagare potrebbe essere la rete, la virtualità? Lo è già? O non lo sarà mai?
ciao ng,
ci siamo un po’ persi di vista negli ultimi decenni, ma ti ri-trovo attivo e pimpante…
PS.: NI come fescbuc!
Diamante, molto stimolante la tua posizione sulla poesia e sui poeti, anche se eviterei di cercare o di definire la “vera” poesia, ci si incasina. Configurerei così il problema: la poesia non appare “vitale”, mentre (in qualche misura e in altri medium) “il poetico” lo è in modo più evidente. Forse bisognerebbe partire dal bisogno di poetico per arrivare alla poesia come risposta — esattamente il contrario di quel che si fa a scuola…
Condivido totalmente l’intervento di Tiziano. Due punti mi sembrano particolarmente interessanti e vanno nella direzione della critica dell’ideologia, in questo caso, quella di Wu Ming. 1) La rivalutazione della parresia vs l’anonimato (che ha dietro, sappiamo, la critica dell’autorialità da un punto di vista politico) 2) La critica dello storicismo. Wu Ming vuole raccontare il contropotere, ma è parlata e abitata da quel Potere che critica, ne dipende.
In fondo, l’etica a cui bisogna essere fedeli è innanzitutto quella della scrittura.
@ Diamante. Dici “per i poeti solitudine, angoscia, spaesamento, mancanza di un luogo di riconoscimento di sé, di condivisione, confronto, crescita, conforto o attacco. Il rimedio a tale frantumazione, a tale cieco e monadico vagare… ”
Non ti pare di esagerare con le macerazioni, i tormenti e le estasi dei poeti d’oggi dì? Molti di loro, per fortuna, hanno anche un lavoro vero°-*
Ma infatti. E ne hanno lavate di scale! :- ))))))))))
Mi riferisco alla solitudine artistica e di pensiero dei poeti, non alla loro vita quotidiana, che è tutt’altro paio di maniche. Uno può pure lavorare in un ufficio sovraffollato dove però non scambia parola con nessuno, o scambia parole inutili e formali, o anche parole gradevoli ma che non hanno a che vedere con la poesia; ma dove, in quanto poeta, troverà un luogo di confronto, dialogo, dibattito? Anche i grandi solitari della poesia si sono nutriti di ambienti, di humus favorevoli, cosa che oggi in Italia non mi sembra esistere.
Segnalo un bell’articolo sull’Espresso di Carla Benedetti, a proposito di NIE.
@ Diamante. Be’, più soffrono, più producono. Difficilmente la gioia di vivere secerne poesia…
P.S. Corro in edicola. Leggo sull’Espresso on line: “Per anni si parlava dell’incapacità degli scrittori a raccontare il Paese. E non era vero. Ora si esalta una nuova tendenza italiana. Ma è solo una furbata. Il polemico atto di accusa di una critica radicale… ”
Adoro Carla Benedetti!!!
@diamante ” …se NIE sia l’ennesimo tentativo di coltivare un orticello letterario, o invece una credibile piattaforma per una maggiore, più acuta comprensione di ciò che sta diventando la letteratura in Italia”
Se sia un orticello letterario non mi pronunzio perché non amo il processo alle intenzioni – anche se dal gran da farsi intorno a questa questione, il sospetto sarebbe leggittimo.
Ma che NIE possa essere considerata una credibile piattaforma di ciò che sta diventando la letteratura italiana mi sembra impossibile dirlo se uno guarda a ciò che si pubblica in italia. Naturalmente nulla esclude che possa in futuro accadere – anche dietro questa spinta, si sa che spesso anche gli scrittori cavalcano nuove onde se possono trarne profitto, ma secondo me sarebbe una cosa negativa come ogni movimento letterario che voglia fossilizzare quella che giustamente è stata chiamata rappresentazione della storia dentro un paradigma e/o ideologia.
Inoltre dalla lettura di Nie emergono anche degli impliciti che hanno a che fare con la questione del potere. E’ evidente l’influenza di Foucault.
Il richiamo all’epica nasce dall’idea dell’analisi della conoscenza in termini di potere proposta da Foucault: cioè l’idea che la versione del passato destinata a prevalere sia quella retoricamente più efficace. Da qui nasce l’idea del NIE e della riscoperta e ripresentazione dell’epica con modalità nuove che devono risultare efficaci.
Ora entrambe le prospettive derivano dalla lettura foucaultiana di Nietszche che sostiene in un suo inedito giovanile che la nozione di verità deve essere ricondotta a una dimensione retorica. E’ da qui che Foucault deriva e costruisce il suo castello teoretico sul sapere e potere.
Devo dire che Foucault mi sembrava persuasivo e per alcuni anni ho aderito a questa idea,ma poi grazie a Ginzburg mi sono accorto che c’era un’altra retorica. Ma qui mi fermo perchè divagherei sulla riduzone della storiografia a retorica, alimentata dallo scetticismo postmoderno come dice Ginzburg.
Ma è da lì che nasce l’idea del rinovellamento epico. Ma una cosa è riprendere in mano il discorso epico con quel retroterra di convinzioni – che comporta quell’impoverimento del linguaggio che mi sembra qualcuno ha nominato con altri termini meglio di me, reificando ulteriormente il linguaggio postmoderno verso il peggio ulteriore di se stesso, un’ altra cosa è mettere mano all’epica come fa Walcott.
Ma non mi stupisce questo accentrarsi del discorso in Italia sul Nie, perchè c’è un grande vuoto, un vuoto di storie e sentimenti (poi non ci dobbiamo lamentare se un modesto libro come la Solitudine dei numeri primi l’hanno letto tutti, perchè quell’idea in testa poteve essere raccontata con ben altra arte) sul quale ha facile appiglio un’idea nuova di narrativa basata sulla costruzione di macchine retoriche, di un macchinismo retorico inconsistente perché depersonalizzato e privo di ancoraggi alla realtà non perchè non si parli o non si tratti di realtà nei testi – perchè anche con la fantasia si può parlare di realtà – ma perchè non vi corrisponde un sentimento di realtà, ma vi è solo costruzione retorica efficace di realtà privata di un vero sentire e percepire. Non c’è scavo mentre lo scavo è solo nella Storia – raffredata. Non mi stupisco quindi che possa avere successo in un paese come l’Italia affetto temporaneamente da afasia sentimentale e alla ricerca di punti di riferimento.
Ma, fortunatamente, anche testi lontano mille miglia da tutto questo come Gomorra, riescono proprio perché vi corrisponde nel testo un sentimento di realtà che non ha bisogno per raggiungere i suoi lettori di retorica efficace, riescono dicevo a scuotere le coscienze, cosa che un libro nell’idea del NIE non è in grado di fare – come se quindi vi si aderisse per l’ineluttabile vuoto rispetto al reale esistente.
In tema cultura popolare di massa, pop e pimp segnalo due esplorazioni uscite da poco:
– The Poor Man’s Follies (documentario)
– Stickyboy, Per Dio e l’Impero (libro, Edizioni Tea)
M.dme Anais
Friendly Management
Istituto Micropunta
http://www.micropunta.it
Il reale non è uno scontro di discorsi, o di “retoriche”. Nei gangli del reale a-retorico (per dir così, ma va bene anche se si postulasse una retorica dell’economia) il Potere affonda le sue radici. Queste radici si chiamano Banca, Borsa, Produzione, Mercato, Esercito, Media. Dopodiché (e contempraneamente) il Potere può avvalersi della sua “retorica” che, supportata dal reale a-retorico, ha la meglio su una “retorica” critica, analitica, d’opposizione, dissidente, che viene sconfitta da un discorso reorico basso, volgare, fatto d’insulti e barzellette. Se lo scontro fosse tra due “retoriche”, e la posta in gioco sarebbe il governo della res publica, beh, si vivrebbe molto meglio, e si godrebbe collettivamente dei frutti di quella che gli illuministi chiamavano Dea Ragione.
Inoltte, spesso, nelle argomentazioni o nella retorica dell’élite intellettuale che argomenta, analizza, critica il Potere e dissente (cioè quella minoritaria e quotidianamente sconfitta) mi pare di riscontrare un vuoto di memoria, come se gli apporti teorici e politici degli anni ’60 e ’70 fossero stati cestinati.
Qui ho risposto in parte anche all’intervento di Tiziano: http://lellovoce.altervista.org/spip.php?article1700
@luminamenti
Sono d’accordo con te. Non è questione di descrizione, ma di adesione intima alla realtà delle cose. Kafka scriveva cose impossibili, che poi si sono puntualmente verificate, in via diretta o figurata, poco conta. Ora, le antenne di Kafka erano più uniche che rare, ma è innegabile una certa debolezza creativo/fondativo/poetica, oggi in Italia. LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI trovo anch’io sia un libro insulso, men che mediocre; e ha vinto a mani basse il più prestigioso premio letterario di questo Paese. Tornando ancora a NIE, non credo possa fungere da base credibile per lo sviluppo di una nuova cultura (ché quello sembrerebbe l’intento), e ci vedo anch’io forti condizionamenti foucaultiani, ma più in generale un materialismo assoluto, con pochi spiragli verso un pluralismo d’idee e un ampio respiro, di cui un’ “epica” dovrebbe essere fornita. Altrimenti, siamo alle solite quattro chiacchiere sul pianerottolo di casa. Come dice Carla Benedetti sull’Espresso, lascia alquanto stupefatti la ristrettezza del numero degli autori presi in considerazione, e l’inclusione nel “canone” di Saviano, fatta un po’ di sbieco, fra gli “oggetti non identificati”, parrebbe una sorta di captatio benevolentiae, vista la risonanza mondiale di GOMORRA.
Che confusione! Apprezzo comunque il saggio di Tiziano perchè dà bidimensionalità alla faccenda della New Italian Epic. Taccio per le diatribe tra autori, editori, starsi o prendersi per le palle. Là fuori c’è l’allarme, sta suonando da tempo e non ci chetiamo un attimo, ognuno con le proprie sacrosante ragioni, contro o con Calvino, contro o con Pasolini, ma là fuori bisognerebbe fare qualcosa. Non possiamo ridurre tutto ad un celebrity death match, torniamo a parlare di quello che sarà non di quello che è stato, primo a dopo il 1993, prima o dopo la caduta del Muro, prima o dopo la lettura dei comics e la visione dei cartoni animati come Ken Shiro come prime epiche popular, etc. etc. per serrare i ranghi in tempo in tempo di maretta. Altro che maretta, c’è il maremoto. Bisognerebbe trovare dei punti in comune, discuterne senza alzare ognuno la mano, altrimenti il maestro che decide chi far parlare è solo il vecchio e caro Mercato. Bene per la transmedialità, bene per il recupero epic (W Moresco che fa la sua new epic con Leopardi), interroghiamoci anche sui confini di quella che ancora stancamente chiamiamo Italia, sulla storia della nostra letteratura – che mi pare alquanto appassita. Forse lì, forse, ci si troverebbe d’accordo.
Apro con la confusione e chiudo con un’altra, la mia che ho in testa,
a.
“…l’emersione di fenomeni e narratologie “pop”, fra cui buon ultimo il NIE, e’ proprio un effetto dell’allentamento sociale di tutto cio’ che connota(va) la parola fra le classi intellettuali del Paese, connotazione uccisa dai media e dal culturame di gender (dal cinema ai fumetti, dalla musica alla tv, dalla “comunicazione” alla “populizzazione”) affermatisi dal basso, senza necessita’ di studio, senza necessita’ di orecchio, senza necessita’ di talento, ma come semplice sputacchio delle emozzzioni prima e dello scaracchio umorale del momento adesso.”
Sono perfettamente d’accordo con l’intervento di GiusCo. Eppure la grande Letteratura continua ad esistere, senza distinzioni tra narrativa e poesia (un esempio di questi anni: Tema dell’addio di Milo De Angelis).
Per una sintesi dell’articolo di Carla Benedetti:
http://lucioangelini.splinder.com/post/20014410/CARLA+BENEDETTI+E+LA+SUA+%22STRO
@Raveggi. Verissimo, là fuori c’è il maremoto. Ben altro che le battugliucce di Don Wumingotte con la fida scudiera Lippa Panza servirebbe…
battagliucce
@andrea leone
D’accordo con te: TEMA DELL’ADDIO di De Angelis è un libro di bella, a tratti bellissima poesia.
@raveggi
Ho detto anch’io più o meno quello che dici tu, e condivido dunque il tuo pensiero…e il mio.
Posso rischiare la cazzata mattutina?
Sono convinto che la confusione in questa discussione dipenda non certo dagli intervenuti, ma dalla confusione. o addirittura dalla nullità – io non l’ho letto tutto, ma quattro pagine sono bastate – dell’oggetto sottoposto ad analisi.
E da un certo malinteso dovere di dire la propria opinione a proposito di un evento che, per la letteratura attuale, dovrebbe avere una qualche importanza.
Penso che l’importanza attribuita alla NIE abbia senso soltanto se prima si sia provveduto a procurargli come sfondo il nulla.
E passando dalle cazzate alle scemenze: la NIE (italiana) sta a quello di cui pretende di parlare (es. non italiano:Roberto Bolano, 2666) come il bignami di Baricco sta all’Iliade.
ecco: l’immagine del maremoto mi piace assai.
solo che l’onda sì è già abbattuta – oh sì che s’è abbattuta.
e c’è da ricostruire. e – si sa – insieme le cose si fanno meglio e con più senso.
perché altrimenti – se anche ciascuno si dedica [solo] alle proprie mura – mancheranno le piazze e i bar e le biblioteche e le pasticcerie.
e.
Cazzata per cazzata, sottoscrivo gli ultimi due paragrafi di Soldato blu.
Da un certo punto in poi non mi è stato possibile intervenire (ero in giro e il telefonino visualizzava troppo faticosamente i commenti divenuti nel frattempo numerosi). Ci tenevo comunque a ringraziare tutti quelli che si sono sorbiti il mio post così lungo e l’hanno commentato.
L’attesissima seconda parte:
http://www.carmillaonline.com/archives/2009/03/002968.html
Era già qua:
http://www.lucioangelini.splinder.com/post/19902948/NEW+ITALIAN+EPIC%3A+REAZIONI+DE+
Provo a riassumere.
Due grandi insiemi:
1) “Le mie teorie sono ganzissime” (nessun sotto-insieme)
2) Le vostre obiezioni sono mere cazzate (da “fallo”= cazzo > fallacia > cazzata). Seguono vari sotto-insiemi (cazzata A, cazzata B eccetera)
P.S.
http://lucioangelini.splinder.com/post/20054564/NEW+ITALIAN+EPIC%3A+REAZIONI+DE+
Io credo che la poetica di WM sia una poetica da avanguardia trans-pop. Il trans di quei trans che sono costretti a prostituirsi per sopravvivere, anche perché in fin dei conti non vogliono fare altro per il momento. Pop di quei pop-corn che sanno di prodotto industriale. Perché WM si nutre di prodotti industriali, ma in maniera pantagruelica e non ha paura di ruttare. La sua poetica del mascheramento rinvia alla cortigianeria d’antan, ma anche al carnevale. E carnevalesca è la società dei consumi. WM si muove su quel discrimine. Non si può pretendere che salti giù. O che porti su qualcun altro. Dobbiamo giudicare le sue capriole, se vogliamo fare critica. Altrimenti possiamo dire quel che vogliamo.
condivido in pieno. T. S. , una volta di più, entra nel profondo delle questioni letterarie e, a mio parere, riesce a farlo con grande onestà intellettuale. Val la pena ringraziarlo.