Sulla tortura – un miracolo, un universo
di Gianluigi Ricuperati
Quando si parla di tortura, le questioni fondamentali hanno l’aspetto di domande pragmatiche. Che fare dei torturatori quando si passa da una dittatura a una democrazia? Come assicurare alla giustizia chi ha violato in modo così radicale e organizzato i diritti dell’uomo? Come venire a patti – anche filosoficamente – con il fatto che la Tortura sia stata parte integrante dei processi di gestione di un governo? Come venire a patti con il fatto che ci sia stata Tortura, che ci siano stati Torturatori, che ci siano stati Torturati? Qualche anno fa è uscito negli Stati Uniti uno straordinario libro intitolato A Miracle, a Universe – forse la migliore riflessione sul tema condotta negli ultimi tempi, ma anche qualcosa di più di una riflessione. A miracle, a universe racconta una storia meravigliosa, lo fa mettendo in fila una dopo l’altra pagine in cui la tensione a descrivere bene il mondo anche quando il mondo volge al peggio coincide in modo commovente con la tensione non-estetizzante a non permettere mai più che il mondo volga al peggio per il solo piacere di descrivere bene l’orrore. Insomma – è il contrario di quanto fanno i reporter di guerra meno onesti, che non si sconvolgono più di nulla e la sola cosa di cui hanno orrore è un’esistenza senza guerre da raccontare. L’autore del libro si chiama Lawrence Weschler, e la storia comincia nel 1986, a New York.
E’ il 1986, a New York, in un giorno d’autunno, una conferenza stampa per il lancio di un libro molto discusso. Lawrence Weschler, che allora scriveva per il New Yorker e si occupava con occhio da scrittore e approccio da filosofo soprattutto di artisti fuori dal comune, come David Irwin e Art Spiegelman, e di eventi politici fuori dal comune, come Solidarnosc, ascolta uno dei curatori del libro, che non è affatto la solita novità editoriale più o meno interessante. Si chiama Brasil: Nunca Mais, ovvero ‘Brasile: mai più’ , ed è la traduzione americana di una scioccante sequenza di testimonianze sull’uso prolungato e sistematico della tortura negli anni peggiori della dittatura militare in Brasile, dal 1964 al 1979. Si dice spesso che i libri sono antidoti alla barbarie e al degrado della civiltà e blablabla: capita di rado che un singolo libro sia responsabile di un arresto della barbarie, di un ritorno alla civiltà e vari altri bla-bla. Ed è proprio il caso del libro che l’uomo sta presentando a Manhattan con un’intensità composta ma visibile, come se la tragedia di cui è venuto a rendere testimonianza lo attraversasse nel sangue, oltre che nella coscienza di appartenere a un popolo umiliato e a una storia bloccata. La pubblicazione di Brasil: Nunca Mais, poche stagioni prima, aveva dato il colpo di grazia alla dittatura militare sudamericana. Nella storia recente del suo paese c’è stato un avanti non democratico e un dopo democratico, e in larga misura l’anno zero è rappresentato da quel libro. (In realtà la dittatura si era già ammorbidita e aveva percorso una sorta di glasnost, ma a tutti gli effetti era ancora in piedi prima del libro, che ha finito per incarnare l’occasione di fronte alla quale il sistema ha capitolato, ma è già tutt’altra cosa rispetto alla vicina Argentina, che ha dovuto aspettare una guerra per mettere in fuga i generali, la disputa armata sulle Isole Falkland mossa dalla Gran Bretagna per mano del più rigido primo ministro di destra della sua storia, quella stessa Margaret Thatcher che in seguito avrebbe difeso dall’estradizione Augusto Pinochet). Weschler avvicina l’uomo, che è un pastore protestante di madre brasiliana e padre statunitense, e si chiama Jaime Wright, e scopre che Brasil: Nunca Mais non l’ha soltanto tradotto, che già sarebbe stata un’impresa meritoria; neppure l’ha soltanto curato, che sarebbe stata un’impresa ancor più meritoria; c’era qualcosa in più, qualcosa di più profondo e lontano, nel legame di Jaime Wright con quel libro: nel giro di qualche mese Weschler sarebbe volato in Brasile e si sarebbe messo sulle tracce di Wright, e avrebbe indagato su quel legame per conto del New Yorker. Wright l’avrebbe accolto e con qualche reticenza l’avrebbe messo sulle tracce di altre persone, che con qualche reticenza lo avrebbero introdotto ad altre persone ancora. In quella rete di individui Weschler avrebbe scoperto una delle migliori storie che si siano mai ascoltate intorno alla tortura – il modo indimenticabile in cui un gruppo di cittadini brasiliani hanno affrontato un regime che aveva fatto della tortura un’abitudine politica quotidiana, e hanno raccontato al mondo intero come è stato possibile, e hanno dimostrato al mondo intero che era successo davvero, perché era stato registrato tutto, perché le dittature sono enormi strutture simili a maiali autoriflessivi: di se stesse non buttano via mai niente.
In realtà non è proprio così. Alcune dittature lo fanno, di solito poco prima di essere abbattute, di solito quando tutto sta per crollare e bisogna far sparire le prove di qualsiasi nefandezza il più in fretta possibile. Dunque se si vuole agire bisogna farlo prima che le cose vadano male. I protagonisti principali della storia di Brasil: Nunca Mais sono tre, e tra i loro meriti c’è anche quello di aver agito con tempismo clamoroso: oltre a Wright c’è anche un religioso cattolico, il Cardinale di San Paolo Domenico Arns, e un rabbino. Intorno a loro, quel che resta della resistenza politica al regime: laici e credenti, studenti e sindacalisti, persone di buona volontà sparsi un po’ ovunque. Per capire cosa ci facessero insieme tre uomini di chiesa e un gruppo di dissidenti, e che piano avessero in mente, bisogna tornare indietro al 1975.
La tortura è uno dei più delicati tra gli effetti morali che venano la convivenza umana quando la convivenza umana diventa principalmente sopraffazione, e una delle costanti tipiche in ogni episodio di violenza dell’uomo sull’uomo, delle nazioni sulle nazioni, degli stati sui propri cittadini – da migliaia di anni, in quasi tutte le culture, senza costellazione religiosa o culturale che tenga. La praticano tutti, da sempre. E non dovrebbe praticarla nessuno, tendenzialmente mai. La storia raccontata da Weschler suggerisce che chi tenta di evitare che qualcuno la subisca non salva soltanto la dignità di un essere umano, ma garantisce la tenuta di un intero universo. In sostanza, la tortura è una tale inversione del valore dell’esistenza individuale che se succede per disgrazia di vivere in un paese in cui le dita vengono spezzate, le costole vengono rotte, le epidermidi vengono violate da elettrodi, le ossa vengono stirate verso l’alto o schiacciate, e le coscienze vengono annichilite per qualsivoglia motivo – beh, se succede di assistere a cose del genere e le si combatte, e magari le si combatte con uno sforzo morale e intellettuale superiore alla brutalità dell’apparato che le ha prodotte; se si fa tutto questo ci si avvicina a una certa idea di santità inattaccabile e istintiva.
C’è solo una giustificazione morale forte come quella che si rinviene nel Vangelo, ovvero che essendo l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio colui il quale offende e deturpa il corpo di un singolo uomo offende e deturpa l’immagine di Dio. Ha a che fare con la dichiarazione dei diritti dell’uomo, con l’Illuminismo, con l’istinto del riconoscimento tra simili e uguali. Naturalmente non serve essere credenti per odiare la tortura in modo radicale. Ma basta far lavorare il sillogismo religioso in senso inverso e tutto scivola su un altro piano. Se i torturatori distruggono l’immagine di Dio, chi persegue i torturatori ricompone l’immagine di Dio: al termine di A Miracle, a Universe anche per gli spiriti più laici sarà difficile non considerare la tortura una specie di affare di stato metafisico: da una parte l’assenza di un Dio giusto, dall’altra l’onnipotenza criminale di uomini Ingiusti. In mezzo, pochi individui che lavorano nel silenzio e nell’ombra, e dubbiosi se credere o no nei miracoli, intanto li fanno.
(pubblicato in forma un po’ diversa su un allegato de L’Unità dedicato alle dittature sudamericane uscito nel 2003)
interessante, dev’essere un bel libro
“Se i torturatori distruggono l’immagine di Dio, chi persegue i torturatori ricompone l’immagine di Dio”..
A proposito di questo, riporto “Tenebrae” di Paul Celan nella traduzione di Luigi Reitani
TENEBRAE
Siamo vicini, Signore,
vicini e afferrabili.
Già afferrati, Signore,
gli uni agli altri abbrancati, come fosse
il corpo di ciascuno di noi
il tuo corpo, Signore.
Prega, Signore,
pregaci,
siamo vicini.
Andavamo sghembi laggiù,
andavamo laggiù per curvarci
su conca e cratere.
Andavamo all’abbeveratoio, Signore.
Era sangue, era
ciò che hai versato, Signore.
Splendeva.
Ci scagliò la tua immagine negli occhi, Signore.
Occhi e bocca restano aperti e vuoti, Signore.
Abbiamo bevuto, Signore.
Il sangue e l’immagine che era nel sangue, Signore.
Prega, Signore,
siamo vicini.
Poesia toccante – e grazie per l’articolo, è un peccato che non si traducano libri come questo.
@ Fulvio
Se alludi al testo di Paul Celan, su questo autore trovi un meridiano di circa millecinquecento pagine che contiene tutta la sua opera, meravigliosamente curata e tradotta da Giuseppe Bevilacqua.
Anche la traduzione di Reitani è bellissima.
A proposito di Meridiani: Luigi Reitani ha curato e tradotto quello delle poesie di Hoelderlin, facendo un lavoro così approfondito e profondo che il tomo viene citato anche dalla critica tedesca.
@ Helena
Conosco e apprezzo, da lettore e da (piccolo) cultore della poesia (in lingua) tedesca. Sono pienamente d’accordo con te.
in verità alludevo al testo di weschler, comunque grazie per l’informatissimo scambio; dicevo che mi sembra pazzesco che un libro così non venga tradotto nel paese che traduce tutto, ha ragione Ricuperati. Un saluto, comunque, vado a comprarmi il Meridiano diCelan.
f
Forse, ma si tratta di una bassa insinuazione, non è poi così casuale che, in un mondo editoriale che pubblica davvero tutto e il suo peggio, un libro simile passi inosservato e non trovi un editore italiano. Un saluto; comunque, per rimanere in tema, di tortura e torturatori e torturati, vado a comprarmi l’ultimo del Vespa, così tanto per annichilirmi sotto l’albero.